Talvolta, nel bel mezzo di una festa,
di un giorno qualunque,
mi coglie la sorpresa di un brivido,
la sensazione di aver concluso nulla.
Mi prende un impulso, oscuro.
Vorrei scappare, sparare, sparire.
E così accade.
Il suono squarcia l’illusione.
Riporta le cose così com’erano,
al grado zero di ogni mattino,
quando mi sveglio, mi stendo,
e con la mano l’avverto che il letto è vuoto,
che tu, l’amore, poesia, la vita.
Tutto finito, consumato.
Risolto.
A luci spente, dopo la fine,
ti dico che ho vissuto da solo, proprio da solo;
che tu non ci sei stata, nei momenti più bui,
quando avevo più bisogno di una stretta,
quando proprio m’assaliva la paura.
Paura di fiatare, di cedere alla follia,
trovarmi lì da solo con tutti i miei fantasmi
che mi guardano allo specchio – ecco.
Se questo è disamore lo capisco.
Non capisco l’amore forse,
non capisco la nostra vicinanza quando tutto fila liscio,
quando tutti stanno bene.
Capisco la solitudine, invece;
sento il battito, il brivido,
a luci spente, dopo la morte.
Ed è lì che t’aspetto.
Solo questo volevo dirti – ecco.
E così finalmente il cielo si è posato
sugli occhi tuoi chiusi da troppo tempo,
dal disincanto.
Possiamo ricominciare adesso.
L’amore ritrovato ce lo consente, di andare insieme,
di sussurrare al tramonto che belli i tuoi anni
così pochi così tanti, e che bello il tuo viso,
così ancora disteso, assolato, bambino.
Dai vieni, ridiamoci la mano,
prepariamoci di nuovo a quel vecchio viaggio,
a un appuntamento stavolta ben più profondo,
ben più lontano.
Improvvisa, una luce mattinale apre una porta.
Nuovi pretendenti si parano davanti,
in modo da costringerlo a deviare ancora
dal suo viaggio verso casa.
Questa volta si tratta di inezie – diciamo così –
una promozione al lavoro, l’eccitazione per qualche soldo,
una fase di armonia coniugale ritrovata. Che dire.
Almen o così quell’angoscia dei mattini l’ha scampata,
quella premonizione di una fine normale e di una vita normale.
Perché è così che ci si arma di fronte ai creditori,
facendo altri debiti, rimandando i conti.
Nulla di durevole puoi scriver tra di noi.
Lo vedi anche tu.
Il mare cancella ogni volta la pagina.
Gli occhi ti si chiudono ancor prima di guardarmi.
Nulla che rimanga si può scrivere adesso.
A meno di non allontanarsi dalla sabbia
e inoltrarsi verso l’interno.
Improvvisa, una luce mattinale apre una porta.
Non ci incontreremo mai – le disse –
troppo lontana dal dolore,
troppo vicina alla maschera,
quella che io metto per incantare te.
È come nella favola di Biancaneve
con lo specchio delle brame
– ti guardi mi guardi,
ti odi mi odi -,
ma se è questo che vuoi.
Sono rimasto con la mano tra i capelli di mia figlia.
Non riusciva a addormentarsi.
Forse il lupo della favola l’aveva spaventata
o interrogata sulla profondità del bosco, del sonno.
E poi forse chissà, tutti i nostri fantasmi,
così vicini, così lontani…
Sono rimasto con lei, disteso sul cuscino,
dicendoci che i lupi, pure i lupi si trasformano,
diventano mansueti cappuccetti di peluche.
Allora un angelo è passato su di noi – ha detto amen –
Fissandoci in quell’attimo ad amarci per la vita.
Come tutti, io potrei ammazzare.
Ammazzare in modo premeditato o casuale,
una bestia, un cucciolino, un uomo indifeso.
Come tutti, mi rifiuto di pensare che posso ammazzare,
che riesco a ammazzare.
Come tutti, reagisco con violenza a chi mi addita come un mostro,
dico che mi conosco, non l’ho mai fatto, nemmeno ci penso.
Ecco. È questo il punto, certo.
Non pensarci mai,
non avere mai varcato la soglia della caverna,
dicendosi sicuri di non esser Polifemo.
È il momento giusto – mi dico – per scrivere poesie.
Il giorno è andato male.
Il cielo è grigio, minaccioso, domenicale.
Nostra figlia ha tentato di tutto per amputarsi,
cercando di riunirci, asserenarci. Poverina.
Noi due siamo distanti, fermi, divaricati
come le lame dell’orologio.
Di sera, prima di separarci,
ci diamo la buona notte, nemmeno mentendo,
piuttosto preparandoci ad altra vita,
sicuri che l’abbiamo trascinata troppo avanti
questa commedia.
Com’è facile perdere tutto.
Uno si illude che l’amore sia eterno.
Mette su moglie, figli, case.
Dimentica d’un tratto la propria dipendenza.
Poi magari la moglie se ne va,
il figlio semplicemente cresce.
Qualcosa ti riporta alla paura di morire,
ti priva di tutto, ti atterrisce.
Così, senza più metafore.
L’amore vero è intermittente, è ondivago.
Dare braccia vigorose ai remi non è cosa da poco,
non è sforzo che puoi fare di continuo,
tutto il giorno, tutto il tempo.
Remare contro il mare, contro la rotta,
e spesso contro vento.
Immagina.
Sono stato per venti anni in una cella,
una cella molto stretta. Sembrava di impazzire.
Ero sempre in compagnia di qualcun altro
– molte voci, molte ombre, molte ossessioni -.
E molti corpi.
Non riuscivo a star da solo con me stesso, mai.
Poi sono cambiato. Ho incontrato te.
E immagina.
Mi son trovato in una steppa, deserta,
senza nessuno, nessuna.
Mai un eco, una carezza, un vissuto condiviso.
Non ho fatto che restare tutto il tempo con me stesso,
da solo con me stesso. Ecco.
Com’è stato insieme a te.
La vita felice, è quando usciamo insieme per strada,
d’estaste, tra la gente chiassosa che danza o canta,
quando ci fermiamo sotto il portone
ad aggiustarci il vestito dopo l’amore.
Col volto disteso, la mano nella mano, l’umore contento.
O almeno quando ci penso.
Chiudi la lampada, mi dico, vattene a letto.
Cerca di raggiungere tua moglie, tua figlia, quelli normali.
È già passata la mezzanotte.
Cosa vuoi che aggiungano due chiacchiere, ancora,
a una vita sbagliata fin dall’inizio, e mai vissuta.
Quando sono entrato in galleria
avevo gli occhi gonfi di lacrime.
Forse è sempre così, prima di morire,
quando è chiaro che è tutto finito.
Tutto il fragore della vita,
tutta la corsa fatta per raggiungerti ed amarti,
la corsa per cambiarmi.
Ho chiuso gli occhi per non sentire più
l’angoscia e la delusione.
Ho tolto le mani dal volante
per sognare un’altra vita.
Andando tra i banchi dell’istituto Colosimo,
a Napoli, incontri bimbi ciechi, muti, sordi,
con la loro accettata tragica serenità.
Soprattutto trovi i loro disegni, dipinti nel buio,
a tratti larghi e neri.
Grandi facce sconfinate, dalle orbite giganti
come se avessero paura di non guardare abbastanza,
o come per sconfiggere il buio eterno e folle
dentro di loro, e intorno.
Ritraggono gli altri – dice l’istruttore –
così come li sentono attraverso le mani, le strette,
le carezze. Non tanto se stessi.
E colgono la verità.
Nel posto in cui sprofondi
non posso più raggiungerti.
Ci provo, ci riprovo.
Quanto dolore, quanta disperazione.
Le mani si stanno spaccando.
Continuo a picchiare sul portone
ma è inutile, non è nessuno.
Vorrei portarti indietro, nel giorno più bello
in cui qualcuno, almeno uno, ti ha cercata e sorriso,
non ci riesco.
Dicono che questa è l’anticamera,
che dove sei andata c’è la morte.
Là in fondo non posso raggiungerti,
nel corpo, non posso raggiungerti.
Ma sono là vicino, così tanto vicino
che ti abbraccio, ti stringo.
Con l’anima, amore, ci sono.
Ci sono.
Voglio starti vicino
fino all’ultimo respiro,
fino all’ultimo sguardo,
fino all’ultimo sorriso,
così che quando sarò solo
nel mondo, senza te,
avrò preso il tuo fiato
per andare lontano,
avrò messo i tuoi occhi
per andare nel buio,
avrò addosso il tuo sorriso
per attendersi di là.
Stiamo insieme sul divano.
Nel silenzio della stanza.
Chissà a cosa pensi, seppure mi pensi.
Chissà dove siamo, se ancora ci amiamo.
Sembriamo entrambi persi.
Un filo di vapore traversa la penombra.
Lo seguiamo con gli occhi, lentamente.
Vediamo dove ci porta.
Oggi la tempesta è passata.
Qualunque insulto o maledizione
ci siamo lanciati oggi è schiarita.
Finalmente ho capito
che quando mi arrabbio con te
è perché non ti capisco.
Dietro le nuvole confuse della demenza
non trovo più la mia stella.
con cui dialogare.
Finalmente ho capito
che quando mi arrabbio
è perché ti ho perso,
e sono disperato.
Mia figlia fa le bolle di sapone.
La inquadro di lato,
con il cielo sullo sfondo.
Fa le bolle e sorride,
sembra felice.
Fa le bolle e d’incanto
tutto vola lontano,
gli alberi, le macchine,
gli amanti nei dehors.
Ne afferro anch’io qualcuna.
Mi sto innamorando.
La rosa nel giardino è invecchiata.
Anni fa, quando l’abbiamo piantata,
sembrava così insolente.
Una forza incontenibile e ottusa
la spingeva ad alzarsi da terra,
a fiorire nella neve, a ferire.
Adesso, è così affranta, così debole.
Ogni soffio di vento la atterrisce,
ogni raggio di sole la fa schiudere,
ogni piccolo pioggia la trafigge.
E talvolta viene oglia di estirparla,
per non farla più soffrire.
Ho contato i passi della camera da letto.
È stupido – se vuoi – incomprensibile.
In fondo ci viviamo da vent’anni.
Non so perché l’ho fatto.
Disagio forse, malinconia, premonizione.
Non mi ero mai accorto di quanto fosse vasta
la nostra stanza fino a quando ho allungato la mano
per fare pace
e non ti ho più trovata.
Se abiti ai piedi di una montagna
prima o poi ti verrà di scalarla
per vedere cosa c’è al di là.
È umano.
Protendersi in avanti,
nel cielo, nel futuro.
Dopo gli anni però, ti ci abituerai,
riterrai normale vivere al suo riparo.
Anche questo è umano.
Accettare di convivere col rischio,
con l’ombra, la solitudine.
Immaginare come sarebbe la vita
se solo sapessimo volare;
domandarci le cose senza ferirci,
passeggiare senza fuggirci,
stendere le mani per sollevarci.
Quando proprio non c’è altro,
immaginare è già abbastanza.
Oggi maggio finisce.
Il mese più atteso,
quello che t’aspetti da più tempo
pensando che certo la primavera,
il prato fiorito, le lunghe giornate.
Poi capisci che anche stavolta
l’occasione è sprecata,
è un anno uguale all’altro
amore, delusione, disamore.
Solo qualche raggio di sole
timidissimo, fugace,
per dirti tanti auguri
e buon compleanno.
Disamore, poesie 2016-2017. La Vita Felice, Milano 2021
