Crisotemi
(Palcoscenico vuoto. Quasi buio. Nessun oggetto. Nulla di concreto o di realistico.
Al centro, un area quadrata, soprelevata rispetto alla scena circostante – quasi fosse una stanza, un letto coniugale, un luogo isolato sospeso sul mare, sul nulla –, le cui pareti sono vetrate nude, trasparenti, create dagli effetti delle luci. Tali pareti diventano specchi o vetri trasparenti a seconda dell’angolo di incidenza delle luci di scena, proprio come avviene col rifrangersi del sole su una finestra. Il mare o il nulla, su cui la stanza galleggia, ha una tonalità fredda, azzurra, anch’essa creata dalle luci.
Il dramma si svolge interamente in questa stanza.
Una donna, appena vestita di bianco, muove le labbra, come dicendo qualcosa a se stessa. È pallida, emaciata, ha un’età indefinibile, comunque anziana. Il vestito pare un abito di scena, una veste regale portata elegantemente, benché logora e impolverata.
Dal portamento, parrebbe essere stata un’aristocratica, rigorosa e altera.
Si muove lentamente, compiendo gesti enigmatici; accanto a sé, nella stanza, un coccio di creta, ripieno di cera (di cui si ricopre), una panca, una plancia o qualcosa che possa fungere da sedia, da tavola o da letto; una coperta grigia è poggiata in un angolo. Dall’inizio alla fine, la sua voce si sovrappone a suono continuo, basso, che attraversa l’azione senza mai interrompersi, benché variando di intensità – ora impercettibile ora sensibile, ora intenso –.
La donna si rivolge a un interlocutore invisibile – il suo compagno? Un amico? Chi altri? –, si siede accanto a lui, su di lui, lo chiama accanto a sé, si muove – insomma – come se ci fosse realmente. La bianca signora comincia a parlare:)
Vieni, siediti, accomodati. Vieni pure.
Sto parlando con me stessa, come vedi,
ed è la prima volta che riesco a corrispondermi.
Si impara sempre tardi, troppo tardi, a invecchiare,
o almeno a concentrarsi sul momento della morte.
Non è una scelta, per niente.
Nessuno sceglie l’assenza d’amore, di tempo, di bellezza.
L’assenza. È ciò che rimane.
Basta che mi guardi intorno.
Non c’è più niente e nessuno, qui…
Una casa ormai svuotata, trasparente, senza difese,
costretta ad osservare al di là di se stessa o dentro se stessa,
un vuoto assordante, la quiete.
Manca poco, d’altronde.
Tra poco tornerò nel buio della profondità,
dove le cose si presentano veraci e deformate
– una bocca spalancata dai denti minacciosi;
un occhio inespressivo e liquefatto; un sesso enorme,
senza capo né coda –;
una deformazione preparata, nel mio caso, dalla nascita,
dalla vergogna, dal desiderio, un desiderio inappagabile…
Capita, quando vivi da sola, di allucinare su te stessa,
ingigantire, deformare o far sparire a piacimento
una bocca da baciare, un padre da ammazzare
una madre dal seno prepotente ed ingombrante…
Ho trascorso la mia vita giovanile a interpretare
la scena iniziale di un film
sulla perdita e la nostalgia nel quale io t’aspetto sulla porta,
e tu arrivi raggiante, pieno di vita: “Vieni, entra, accomodati”!
Allora tu entri, ti siedi, cominci a tremare, mi abbracci,
mi dici che in fondo l’amore tra noi due non è finito,
che è ancora come prima, ch’è ancora… ancora… ancora…
Non sei più ritornato!
Troppe volte l’ho interpretata questa scena tra me e me,
benché sia stata consapevole, sempre, che fosse appena un film.
Non mi è mai piaciuta l’esistenza; ho sempre dovuto fantasticare,
per ridare quell’aspetto di bellezza e continuità alla mia vita banale…
Ricordi la mia prima vecchissima amica del cuore?
Aveva la stoffa della diva, lei, bella, creativa, inquieta….
Per dieci o quindici anni non ci siamo mai lasciate,
nemmeno per un giorno;
se lei si vestiva di viola, io mi vestivo di viola;
se lei comperava una trousse, era per giocarci con me;
se una s’innamorava, anche l’altra cominciava a tremare…
ci siamo sostenute, confidate, scritte e descritte;
abbiamo studiato, viaggiato, festeggiato, tutto insieme,
fino a quando lei non ha incontrato il suo… principe azzurro!
Da quel momento in poi, più nulla!
Telefonate, appuntamenti, lettere, vacanze: più nulla!
In quell’uomo, tutta l’inquietudine e il sacro suo furore
s’erano mutati nell’inerzia della beatitudine.
Sembrava drogata. Che invidia!
Certe donne rivelano la loro vera natura al riparo
di una coperta matrimoniale,
sotto la quale hanno avuto la fortuna di restarsene a sognare,
trasognare, a regredire.
Coperte da quell’abbraccio rassicurante, così a lungo rivendicato,
il loro viso si rattrappisce, lo sguardo si fa opaco,
le palpebre si chiudono, il seno e i capezzoli scompaiono,
tutto il corpo rimpicciolisce, rimpicciolisce, rimpicciolisce,
fino a diventare nuovamente delle bimbe,
consegnate tra le braccia del papà.
Che invidia! Che meraviglia!
Ebbene, quando doveva venire a trovarmi, mi sfiancavo
a imbellettare la casa,
a rimettere i centrini sotto i vasi di orchidee;
accendevo l’abat jour; preparavo l’incenso,
mettevo fuori frigo quel cheese cake che amava tanto.
Poi… Poi il tempo passava, lentamente; la pellicola scorreva,
ed io restavo lì, dietro la porta, ripetendo a bassa voce
il mio perenne benvenuto: “Vieni, siediti, accomodati…”.
E invece niente; non succedeva niente, non arrivava nessuno,
tanto che la ripetizione di quell’unico identico fotogramma
dava l’impressione di un’istantanea, di un immagine
ferma e sfuocata, anziché di un film!
E mio fratello? Quanto l’ho aspettato di trovare, mio fratello,
di incontrare un compagno con cui scorrere le estati a sollevarci
l’uno e l’altra,
raccontandoci con cura di come si fosse sgretolata
la nostra famiglia e l’infanzia,
e così trovando una ragione, un senso fondativo a questo
sentimento della perdita che ci avvolge, ci compenetra,
come la nebbia nel buio di una foresta.
Chi altri, se non un fratello, avrebbe potuto testimoniare
lo sconcerto e il dolore di trovarsi da soli, indifesi,
nel bel mezzo di una guerra ventennale di cui ignori le ragioni,
le conseguenze, le parti in campo?
Chi meglio di un fratello avrebbe potuto testimoniare
che c’è stata una guerra,
sostenermi a buttar via queste armature che abbiamo ricevuto in eredità,
questi attrezzi inamovibili lasciati a arrugginire nel nostro giardino?
Quando prometteva di venirmi a trovare, mi preparavo col vestito migliore;
gli preparavo l’accoglienza migliore, di modo che anche lui potesse
avere una famiglia,
anche lui che una famiglia non l’aveva ancora avuta…
Ma il mio adorato fratello aveva scelto da tempo
di non guardarsi più indietro, per sopravvivere, certo;
aveva scelto di puntare con tutte le sue forze sul futuro,
sul futuro di una casa e di un amore coniugale impermeabile
a chiunque le avesse rievocate – quella guerra e quelle armature –,
sotto i cui fendenti anche egli aveva perso la parte più bella
del proprio corpo, del sorriso, della vitalità.
E io ero, soprattutto io, la testimone, l’aedo da scansare,
l’alter ego da rimuovere.
Nemmeno lui è più arrivato.
Dopo mia madre e mio padre; dopo il primo e ultimo amore;
dopo le amiche più care, nemmeno mio fratello è più tornato.
È andata così.
Nessuno è più venuto da me per chiacchierare, per rapirmi,
o almeno accomodarsi.
Nessun familiare che abbia avuto la dignità di tornare
ad onorarmi da regina, quale ero
– benché il mio regno fosse stato piuttosto un calco
di qualcosa che avrebbe dovuto esserci e non c’era,
e benché il mio scettro l’avessero rubato le nostre servitrici,
così invidiose della mia inafferrabile bellezza –;
nessun amante che abbia avuto l’ardire o il desiderio di guardarmi da donna,
proprio adesso che son vecchia, di cercarmi sotto l’abito da sera,
di stendermi su un letto, chiudermi gli occhi,
baciarmi sui fianchi… da vecchia, adesso;
nessun amica che abbia avuto la pietà o l’incoscienza
di mettersi qui, vicino a me,
a contemplare in silenzio la sparizione misteriosa e progressiva
di questa casa dalla quale sono sparite, per conto proprio,
le tende alle finestre, le lampade, gli armadi, gli utensili ordinari,
finanche le mura divisorie, tutto, tutto…
eccetto questo fascio di luce che ci svela, ci attraversa,
come un giavellotto ficcato nella schiena.
Per questo – ti dicevo – sono stata tralasciata e isolata.
Oppure sono io che mi sono isolata, va a sapere,
troppo diversa, timidissima, incostante.
Quand’ero ragazza, mio fratello e mio padre, si svegliavano
di buon mattino per rasarsi, profumarsi e imbellettarsi,
non vedendo l’ora di uscire di casa, raggiungere la scuola
o l’accademia, o anche un’alcova,
un posto in cui indossare la propria identità,
una muta subacquea impermeabile ed anonima, senza fessure –;
mi infastidiva quella loro frenesia; ero invidiosa della loro sicurezza.
Io invece mi ero ritirata dalla società, non perché mi sentissi migliore,
anzi, per pigrizia,
o forse per la consapevolezza prematura che ogni interesse,
ogni occupazione non sarebbe più servita a liberarmi
da me stessa, ad assolvermi dalla dipendenza che a qualcuno
mi legava, sempre,
anche quando nessuno c’era…
Mi vergognavo dell’indolenza, la timidezza, la mia stessa bellezza;
non avevo nulla da conquistare o presidiare, io.
Fosse stato per me, sarei rimasta una fanciulla, avrei buttato il mio tempo
a rincorrere farfalle, immergendomi nei fiori di magnolie,
di wysterie, dei lillà che d’estate risalivano dai prati;
me ne stavo nel mio letto fino quasi a luce alta;
era un giaciglio per me, un posto mio, vi indugiavo con piacere,
proprio senza vergognarmene…
Isolata in quella culla quotidiana, mi applicavo ad assolvere
a quel compito che io stessa m’ero dato:
trasformare tutta la rabbia, circolata nella famiglia
in qualcosa di buono e riconosciuto; riportare il sorriso
su quelle maschere da sfingi che i miei indossavano continuamente,
colorarle di rossetto, di modo tale che apparissero più allegre.
Mi era indispensabile quel lavorio, tutto immaginario,
quel sorriso al quale affidavo la risoluzione magica di ogni conflitto!
Pareggiare i conti con mia madre e con mio padre
era il passo necessario, prima ancora di sorridere, di vivere, di uscire.
Quel ruolo di mediatrice mi si addiceva,
proprio per la mia riconosciuta sensibilità e doppiezza,
anche se mi sarebbe costato la semplicità,
l’integrità e l’amore, innanzitutto…
Che cosa enorme l’amore – non pensi? –, robusto, bello…
Un albero di rose, sostenuto da migliaia di radici contraddittorie,
fiorito da migliaia di boccioli variopinti,
così esposto alle intemperie, all’abbandono, ai bucherons.
Ero stata concepita per l’amore, io
– forse anche il matrimonio, o la compagnia, come dicevano altri –;
non facevo che pensare a un bel ragazzo, fin da bambina,
uno di quegli atleti affascinanti e tenebrosi che affollavano il liceo,
con cui fantasticavo di commettere serate sul bordo del mare,
tra lettere sentimentali e parole infuocate,
un piacere dei corpi avvolgente e duraturo quanto la fedeltà. Ricordi?
Una delle prime poesie che trascrissi per te era quella sull’edera…
E come sempre, quando cerchiamo avidamente la mano di qualcuno
che ci completi,
l’amore arriva presto, per nulla inatteso.
Anche tu sei arrivato, fin troppo presto, i riccioli castani
e morbidissimi, lo sguardo premuroso e coinvolgente,
l’intelligenza acuta; una borsa di progetti e giuramenti:
stare insieme, lottare insieme, invocare un figlio nostro,
viaggiare, dipingere, giocare, desiderare il desiderabile…
Quanta determinazione in quelle promesse; quanta verità,
quanto coraggio nel debutto con cui affrontasti mio padre e mia madre,
dicendo loro che “la forza è un surrogato dell’intelligenza”!
Me lo ricordo ancora!
Sembravi Ulisse, Ettore, quegli eroi non dominabili,
nei quali la passione giovanile parla al posto della realtà…
D’altro canto, onesto lo sei sempre stato,
non è per questo che è finita; non è per mancanza d’amore
o di coraggio nel combattere al mio fianco;
non è per negligenza o incomprensione che te ne sei andato.
Ero io purtroppo a non essere all’altezza, del tuo amore,
della tua dedizione. Incerta, troppo divisa, complicata.
Anche quando riconoscevo il disperato bisogno di te,
non sapevo domandarti né amore né aiuto;
mi richiudevo nella mia superba insufficienza
aspettando che tu mi fossi accanto a contemplare,
a testimoniare ciò che io soltanto potevo fare;
quella storia di famiglia mi aveva assorbita,
reclusa in un buco impenetrabile del quale ero guardiana, io stessa,
di fronte al quale non permettevo a nessun altro
di fiancheggiarmi, anche se, al tempo stesso, mi lamentavo della tua… lontananza!
È per questo che te ne sei andato, credo, lontano, impotente, logorato,
anche se ho sempre pensato che ci saresti rimasto, dentro di me,
e forse illusa che saresti ritornato…
Ho sprecato la giovinezza, dunque, a cercare di comprendere,
– o almeno mitigare –,
l’incomprensibile livore di quei giganti che attraversavano la nostra casa,
calpestando tutto ciò che incontravano sul loro cammino.
Nessuno l’aveva proclamata, quella guerra, ma una guerra pure c’era.
Non restava che imparare, e presto, a distendersi per terra,
sotto il tavolo da cucina, lungo il muro del corridoio,
a sdraiarsi come un morto, sperando che almeno da morti
si possa rimanere concentrati su ciò che vorremmo essere e sognare.
Adesso, quell’immagine di me distesa sul pavimento
è diventata una postura, una condizione,
una posa conservata per non distrarsi, proprio adesso
che non c’è più tempo,
su qualche particolare irrisorio del passato o della quotidianità
– una coppia di ragazzi che si baciano, una donna incinta
che sospinge un passeggino, un ricordo da bambina –.
D’altronde, cos’altro fare?
Col tempo, le mura di questa casa sono crollate nel disinteresse;
le porte e le imposte le abbiamo regalate a mio fratello
– così bisognoso di acquisire l’attitudine alla riservatezza –,
e qui non c’è rimasto che questo pavimento poggiato sull’aria,
sul mare, sul niente,
e queste finestre svestite e trasparenti; un occhio dilatato
di cristallo dal quale non possiamo che guardare verso l’ignoto.
Lo vedi? Lo senti?
Ho come la sensazione che qualcuno dei tanti che ho sognato,
o tutti insieme, siano passati di corsa qui affianco,
provocando questo flusso che ancora ci trasporta alla deriva.
Non è quello che volevo.
Mia madre mi ripeteva sempre che restarsene isolate,
piegate sul proprio ombelico, è esercizio penoso;
che occorre guardarsi intorno, e sopra e sotto,
per raccogliere la propria bellezza;
che occorre trovare un uomo o un’amica col quale uscire
a esplorare il mondo, altrimenti anche la disciplina diventa inutile,
anche l’interno e l’esterno di noi collassano l’uno sull’altro,
e guardare diventa una condanna, guardarsi nel vetro,
perdersi nel riflesso…
Lo so, lo so, ma un compagno non bastava per potermi liberare,
soprattutto da lei; e poi – ripeto –,
l’uomo che ho adorato mi sembrava troppo fragile e prezioso,
per tirarlo in quel cimento…
Dio mio! Voglio uscire da questa gabbia!
Voglio accomodarmi fuori di me, per una volta… lo voglio veramente;
ma come fare a essere certa di trovare almeno un bel lettuccio,
un divanetto, come quello che m’aveva regalato il mio padrino,
uno di quelli damascati, piccolini, fatti a mano?
Come fare a uscire da questa prigione, senza ritrovarsi in una nuova
claustrofobica prigione?
Siamo sicuri che questa uscita da noi stessi valga l’angoscia e la fatica
di affrontare l’ignoto?
E come fare a sostenere il desiderio, quando tutto intorno a noi è andato perso?
Vedi? Quando son stanca o impaurita, tendo a tormentarmi,
senza dire nulla di interessante, beninteso.
Mi capita sempre di dire delle cose sparigliate, inconcludenti,
che spesso si confondono le une con le altre, o si ripetono;
non ha un filo il mio racconto, perché il racconto che avevo immaginato
per noi tutti, s’è interrotto;
il filo s’è spezzato, le perle sono andate così, rinfuse, disperse;
quando ne ritrovo qualcuna, mi sembra inutile capire dove
andrebbe rimessa.
Vado avanti senza senso, accostando gli affetti e gli accadimenti
alla meno peggio,
come se li avessi ritrovati tutti insieme dentro di me, ammucchiati,
ripescandone ora l’uno ora l’altro, a casaccio,
da questo ammasso che la vita ha ramazzato.
È stato così.
Ho sempre sofferto di una sorta di instabilità ciclica,
ora sfrontata, ora pudica, ora afflitta;
un’instabilità tutta mia, anche se è difficile non assegnare
qualche importanza alle vicende familiari,
alla fortuna, ai cicli naturali del sole e della luna.
Prendi questa stanza denudata, per esempio, queste finestre.
Di sera, di sera tardi, la luce si ritira,
lasciandoci in prestito una piccola flebile luce d’interno,
a causa della quale non riusciamo più a guardare che noi stessi,
di nuovo, riflessi, ritratti, inquietanti.
Ma di giorno, la luce si solleva sull’orizzonte, permettendoci di mirare altrove,
e trovare qualcosa che riemerga dalle viscere del mondo,
qualcosa, su cui fantasticare.
Vieni, siedi qui, vicino a me;
voglio poggiarmi sulle tue gambe, distendermi su te.
È una bella primavera questa, o almeno una stagione propizia.
Lontano, in un posto del mondo che è indifferente definire,
le spighe del grano stanno maturando;
i campi diventano foreste, fitte come labirinti,
nel cui dedalo i bambini si rincorrono a nascondersi,
a nascondere qualcosa, anche se non saprei dire che cosa.
Mia madre sta disegnando una scena domestica
nella quale si ripiega su un balcone, lo sguardo sornione rivolto lontano,
mentre biascica qualcosa sull’amore per il figlio, tipo:
“Mi raccomando, sii felice, lo sai che ti amo…”,
qualcosa che suo figlio non ascolta, data la distanza tra di loro,
e quella voce della madre piano piano sussurrata.
Da qualche altra parte, un altra figlia della stessa madre,
una figlia mai venuta alla luce, sta tornando nel proprio cunicolo,
dal suo amato fidanzato che intanto dorme vicino a lei;
ci ritorna col terrore negli occhi, oscillando pericolosamente
su una corda tesa tra le fauci di due mostri;
ci ritorna con l’angoscia di sparire di nuovo,
mentre lì vicino il suo compagno – amante, padre, fidanzato –
se la spassa, canticchiando nel suo sogno giovanile. Com’è possibile?
Come fa a ritornare nel buio se è mai venuta alla luce?
Come fa ad angosciarsi per la morte se ha mai vissuto niente?
Dici che deliro?
Non è capitato anche a te di restare condannata a osservare
le immagini terrifiche che improvvise compaiono sul retro delle palpebre,
proprio mentre ti stai rilassando e addormentando?
È una di queste allucinazioni, la mia, l’ennesima,
visto che qui dentro, ormai, non c’è più niente e nessuno
da ascoltare o contattare concretamente.
Per questo posso dirti solamente del mio corpo,
solo questo mi rimane di reale; precipitare tra le labbra
– troppo superficialmente evitate fino a oggi –;
nelle rughe o nelle piaghe senescenti della pelle;
cadere nelle grandi e invisibili ferite che la vita vi aperto,
benché lo sai, a scivolarci dentro, le nostre ferrite sono sempre
più profonde e angoscianti.
L’altro giorno ho sognato una bambina, bella, felice, piccina.
Tornava dalla scuola con lo zaino sulle spalle, i suoi spartiti, i suoi pon pon.
Aveva sulle labbra il sorriso della durata,
un fiore donato perché sopravviva al di là delle circostanze.
L’ho presa in braccio, l’ho sollevata, l’ho baciata lungamente…
Sembrava contenta di tanto piacere, di tanta allegria…
Ho sentito all’improvviso che il solo mio tempo stava in quel valzer
danzato con lei;
in quell’infanzia ritrovata, in quella felicità istantanea…
Un’istantanea, dunque, un altro fotogramma, un nuovo inizio,
nell’arco delle nostre vite in cui tutto è cominciato prima che noi ci fossimo,
e a noi non è restato altro che portarlo a compimento,
e concluderci con esso.
Lei mi ha dato la grande felicità e la grande tristezza,
la gioia di sentirmi completata, riconosciuta,
e insieme l’angoscia di un amore che se ne andrà chissà dove,
riaprendo la ferita…
Quella bambina… Non l’ho più dimenticata.
È stata la prima volta che ho desiderato di vivere e invecchiare,
sebbene solo in un sogno.
Prima, non avevo mai provato che il guizzo dell’animale braccato dai predatori
– tutti allucinati, come al solito –;
il mondo intero si era ridotto a un piccolo cono d’eiezione,
e non restava che l’affanno, la stanchezza e la paura da ogni nostra esperienza.
Ricordi quel dipinto gigantesco, riprodotto sulla parete
nella camera da letto?
L’avevamo acquistato a una mostra di Velicovich.
Stava lì a rappresentare la nostra vita e il nostro destino,
anche se non ne capivamo il perché.
Un uomo riemerge dal buio, come rincorso da sconosciuti.
Un uomo nudo, muscoloso, angosciato;
che salta i gradini di una scala innalzata sullo sfondo
di una parete rossa di sangue, di evidenza, di passato,
e in cima alla quale si staglia una porta nera, rettangolare, metallica;
una porta chiusa, sbarrata.
Dunque, una morte certissima, assodata.
Eppure quell’uomo continua a arrampicarcisi.
A correre, dal buio verso il buio.
Quale altra strada imboccare? Cos’altro poteva fare?
Niente, nient’altro che scappare,
anche se era chiaro che la corsa sarebbe finita contro una porta sbarrata.
È stato così.
Siamo stati vittime di un processo di scomposizione, di divisione,
io, te, e forse tutti coloro che abbiamo amato e corrotto.
Siamo stati esplosi e sezionati, come quei corpi messi in mostra
proprio al centro dell’Ospizio dei Poveri, anni fa.
C’era un corridore, puntellato all’impiantito per un piede, scuoiato,
diviso, smembrato.
Da uno solo, quale probabilmente aveva voluto essere,
era diventato trino, tripartito, pur serbando la sua posa da scattista.
L’apparato muscolare era stato separato dagli altri, proteso in avanti.
Dietro di lui, appena dietro, il suo doppio viscerale,
composto di interiora incontenute;
un uomo che corre con tutta la sua profondità esposta, nuda,
inchiodato al medesimo piede del primo.
E infine, per terzo, la sua rabbia sfilacciata,
tutto nervi e cervello, lanciata in avanti
sulla stessa traiettoria della fuga. Mai visto nulla di simile!
Mi appassionai a quel corpo, mi ci riconobbi.
Mi ero anche io sentita così, divisa, tutta la vita, spaccata in due metà
o in tre o in quattro, a seconda delle madri, degli amori, dei contesti.
Mi sentivo ancora così.
Come quell’altra, la donna incinta.
Una madre col ventre scoperchiato, l’utero e il feto in bell’evidenza,
distesa sul proprio triclinio; ne ero turbata.
Mi chiedevo per quale ragione una donna che abbia avuto
il piacere divino di esser stata concupita e fare un figlio,
perché quella donna aveva abortito?
Forse era stato un amante irresponsabile, a volerlo;
o forse era un peso, chissà…
La didascalia la descriveva banalmente come “donna incinta”,
riducendo ad un tempuscolo brevissimo ciò che invece è il risultato
di decenni di attese, desideri, passi falsi…
Noi donne cominciamo fin da bambine a truccarci
davanti allo specchio, a camminare sui tacchi,
a giocare con le bambole,
per quel nostro sempiterno, desiderio naturale, essere madri,
sentirsi saziate, finalmente, ricomposte,
avvolte dalle braccia dell’amore, del nostro bambino…
Ma lì, in quella teca di vetro, questo mondo di aspettative,
questi cambiamenti del corpo e dell’anima comuni a ogni donna,
era sparito, rimosso, cancellato dalla mano di un ometto.
“Donna incinta”!
Quel procedimento di eternazione e insieme dissociazione
mi sconcertava, per la verità ultima che sembrava gettare
sulla miseria del nostro corpo, e insieme mi orripilava,
per la crudeltà con cui quegli uomini venivano trattati!
Privarli della pelle, del viso; privarli del nome, renderli anonimi…
Che vigliaccata!
Avrei desiderato che almeno, in cambio di una vita
e di una sofferenza così generosamente donate,
fosse stata lasciata loro almeno la faccia,
affinché qualcun altro potesse riconoscerne e apprezzarne
la bellezza, la storia, la sofferenza… E invece…
Forse la morte totale ci è sempre inaccettabile;
forse la scissione, la ferita che ci lacera sono il prezzo che paghiamo,
tutte le volte che ci affidiamo all’amore dell’altro, senza riserve,
perché – diciamolo –, chi è che può accoglierci in tutto e per tutto?
Chi può riuscire ad accettarci per intero?
Chi può contattare così profondamente la propria sofferenza
o la colpa così da riconoscere anche agli altri una vita propria,
uno sguardo autonomo, un proprio desiderio?
Eppure, per quella espoliazione sadica e invidiosa, non c’era traccia
sui visi dei visitatori, anch’essi uomini, verrebbe da dire.
Ma basta coi ricordi.
Ricordare richiede tempo, e io non ho più tempo;
ricordare richiede spazio, e io non ho più spazio.
In questa camera svuotata che si perde alla deriva,
non ho altro spazio, io,
che per il mio corpo; non posso più ospitarti, amore mio;
non posso far entrare più nessuno,
nemmeno una cometa che fuggendo chieda asilo,
nemmeno un pensiero, per quanto astratto
(e forse, proprio quelli sono i più ingombranti).
D’altro canto, non posso rifiutarmi
di accettare qualche estraneo che risalga da me stessa.
Non sarebbe la prima volta. Le vedi queste larve?
Qui, tra le mia cosce? Questi piccoli pàppici cremosi
apparentemente innocui, nascosti nelle pieghe delle cosce?
Sono comparsi dall’interno di me stessa, tempo fa.
All’inizio, mi sono spaventata tantissimo;
ci perdevo il sonno a ispezionarmi, per cercare di capire
da dove fuoriuscissero a scacciarli, a staccarli ad uno ad uno.
Mi guardavo nella bocca, tra i capelli, tra le rughe,
sotto i piedi, tra le ragadi alle labbra, ma niente, niente da fare…
Me li trovavo addosso fin dal mattino, soprattutto al mattino,
quando l’inerzia della notte mi impediva di controllarmi.
Mi svegliavo ricoperta dai vermi, sprofondata in un delirio frammentato.
Ho urlato per anni, temendo di morire da un momento all’altro.
Ho pensato per anni che questi vermi fossero i prodotti del mio corpo
in decomposizione – la decomposizione
di un corpo avvizzito poiché non più irrorato dal desiderio, dall’amore, dal sesso –,
e che la decomposizione sarebbe progredita dai piedi alle gambe,
dalle gambe ai genitali, dall’addome alla gola ed alla faccia,
riducendomi a brandelli,
ma lasciandomi intoccata la coscienza, e con essa la paura.
E invece, più tardi, molto più tardi, mi ci sono abituata,
ne ho compreso la natura;
questi insetti non sono affatto dei segni della morte,
ma un presagio, un segno anticipatorio, piccolo,
affinché ci si possa abituare ad accoglierla la morte,
anziché temerla o fuggirla.
Sono questi i miei compagni quotidiani, adesso.
Mi solcano la pelle, mi traversano, mi avvolgono,
mi solleticano insomma, mi fanno scivolare felicemente
su questa vita come su questo letto, su questo nulla.
E questi porri, li vedi?
Questi funghi nerastri screpolati che mi coprono
quasi fossi un albero abbattuto da tempo e lasciato a marcire nel bosco?
Riesci a immaginare quanti anni li ho guardati con terrore?
Quanti anni ci ho delirato sopra?
Forse, forse mi puoi capire, o almeno credere.
Siamo sempre terrificati quando osserviamo le cose dall’esterno,
senza attenzione,
e più di tutte il nostro corpo, il nostro sarcofago,
il nostro persecutore più subdolo.
Eppure, quando si galleggia ormai verso la fine, in solitario,
le cose cambiano; diventiamo dei ciechi,
ma capaci di dar senso a ciò che è informe, oscuro, deforme.
Forse, queste verruche sono i lucernari di un sottosuolo;
forse dentro di me riposa una città sommersa,
popolata di abitanti vivi, di tutti coloro che ho amato profondamente,
anche se talvolta nemmeno li ricordo;
una città sommersa, con abitanti dimenticati ma vivi,
e questi ne sono i campanili!
Non ne ho più paura.
Ho imparato che occorre procedere per gradi;
concedersi il tempo della comprensione, dell’accettazione;
sapere che ogni cellula, anche degenerata, anche maligna,
ci appartiene, è nostra, ci porta un messaggio d’amore,
laddove nessun’altro sia riuscito ad ascoltarci.
E poi, dopo la comprensione, occorre seppellire,
scordarsi nuovamente, riprendere a sognare.
Ci sto provando. Ho tutto il tempo adesso.
Ogni giorno, verso il pomeriggio tardi, mi ricopro di cera morbida,
in modo da rendermi bianca, tutta bianca,
e rimuovere ogni asperità di me stessa;
voglio rendermi assoluta, diventare una statua,
una di quelle statue classiche, belle, poggiate nei giardini delle Chiese…
così morbide, senza pretenzioni, senza sesso,
quasi fossero vite umane marmorizzate nella loro fierezza,
nella loro malinconia.
In realtà, per quanto mi riguarda, indugio in questa prassi quotidiana
per tenermi in esercizio col disvelamento e la falsificazione,
oltreché per ingannare il mio tempo…
Raccogliere la cera secreta dalle escrescenze;
coprirmene con cura, lentamente,
mi ricorda quand’ero giovanetta e mi apprestavo
davanti allo specchio ad ammansire la mia bellezza,
a attutirla con il trucco,
di modo che i ragazzi non ne fossero spaventati,
ma sedotti e rassicurati…
Provavo a trasformarmi, dunque, a compiacerli, non certo a snaturarmi.
E quella progressione verso la complessità
– benché osteggiata da amici e nemici –
mi dava la sensazione di essere speciale, diversa, più viva. Capisci?
Proprio il contrario di ciò che pensavano mio padre e il mio compagno.
Loro credevano che la vita dovesse essere “unificazione”,
che occorra volere, scegliere, decidere un solo lavoro,
una sola occupazione, un solo compagno amato in tutto e per tutto;
una condotta definita, una sola vita insomma.
E giù, tutta una serie di discussioni e argomenti,
estesi dalla morale alla psicoanalisi
– “Non è così che si fa… è da troie, da malate, da pazze” –.
Uuhh! Quante ne ho sentite!
Eppure, dentro di me ho sempre pensato che questa è la posizione
di coloro che hanno sepolto la creatività,
di tutti quegli uomini o quelle donne diversi da me,
diversi nei corpi, e dunque nei bisogni.
Pertanto, dov’è lo scandalo?
Siamo sempre portati a edificare le nostre teorie
su ciò che sotto sotto è solamente il nostro corpo, perverso, legittimo, unico.
Forse costoro, non hanno avuto la sventura di vedersi comparire
dei comignoli addosso,
dai quali sorvegliare cosa accade in se stessi,
e accettarlo senza raggiri, senza scordarsi dei propri omicidi.
Io, questo giro d’ispezione lo faccio da tempo.
Costretta come sono in questo cubo di cristallo,
quando la luce del mondo va tramontando,
mi piego sul microscopio piazzato qui sull’ombelico,
e attraverso di esso mi incammino all’interno,
non dico nell’animo, nello spirito, nell’essenza
– che termini, mio Dio! Buoni solo per le guerre o le Accademie –,
ma proprio nel corpo, nell’infimo del corpo, nel cuore, nello stomaco…
Così facendo, ho scoperto verità inconfutabili, beninteso per me stessa.
I miei tendini, i miei muscoli, i miei denti;
lo scheletro degli organi cavi o pieni;
tutto questo in me è danneggiato, deficitario o mancante.
È come se fossi slegata, come se le parti di me stessa fossero slegate;
le mie braccia e le mie gambe sono staccate, in procinto di perdersi;
la mia colonna vertebrale è sul punto di crollare.
All’interno del mio corpo, si aprono caverne dovute al crollo delle travi,
e i mattoni rovinano gli uni sugli altri,
formando degli ammassi, dei vuoti incapsulati.
Mi capisci, vero? Ne cogli le conseguenze?
Non sono mai stata capace di vivere da sola;
avevo sempre bisogno di qualcuno che mi sostenesse,
m’aiutasse a stare in piedi;
qualcuno che ricomponesse tra di loro i pezzi sparsi,
i desideri e gli affanni,secondo un disegno coerente,
e che pure fosse consono al disegno di me stessa.
Tu ce l’avevi questo progetto – lo so, lo stesso –,
ce l’avevi la passione, l’energia, la dedizione.
Ma io ero troppo, troppo frammentata per riuscire a ricompormi.
Capitava sempre che un fascio di nervi mi scappasse
da una parte, che un occhio si voltasse dall’altra,
che la bocca s’afferrasse a una lingua diversa dalla tua,
o che la mano si stringesse con quella di un estraneo.
Troppo divisa, troppo ferita, per poter restare uniti e vivi
in una sola pelle condivisa, la tua, la nostra, la mia.
Per questa mancanza di coesione ho perso uno dopo l’altro
i desideri, le inclinazioni che avevo da adolescente,
quando ancora mi capitava di saltare tra i prati,
inseguire gli aquiloni, correre a perdifiato per ore e giorni.
Ho perso il tuo amore, l’affetto delle amiche, la stima di me stessa;
non ero abbastanza stabile, non suscitavo abbastanza fiducia;
non evocavo sufficiente protezione.
Basta. Ti ho tediato abbastanza con questi rimpianti
e queste ricostruzioni – tardive quanto inutili –.
Stenditi qui vicino, sta facendo sera…
Tra qualche ora la luce tornerà a sparire dietro l’orizzonte,
e per buona o cattiva sorte smetteremo di specchiarci,
per buona o cattiva sorte…
dovremo guardare al di là dei vetri, verso l’oscuro, il profondo,
il grande vuoto;
verso la musica felice o minacciosa del mondo.
Sai, quello che mi è mancato veramente in tutti questi anni,
mentre vagavo nel fango della rabbia e degli amori familiari,
è stata proprio la musica,
quel suono primigenio che ci accompagna fin dall’inizio,
fornendoci il senso del nostro agire, la calma, la forza, la coscienza di resistere.
Non sono stati lo slancio o il desiderio a mancarmi,
ma il senso, la conferma di esser giusta.
E non parlo di un senso generico, ma dei sensi,
del piacere dei sensi, di uno in particolare.
Non sono stati i sapori e gli odori a mancarmi, no,
e nemmeno i contatti, gli abbracci, i baci…
Ognuna delle rughe, di queste verruche, ha sempre avuto un odore
talvolta più lieve talvolta più intenso;
ognuna delle mie caverne ha avuto il suo profumo e il suo olezzo,
il suo tanfo sopportabile o meno.
Certi giorni mi leccavo da sola.
Mi piaceva, mi rabboniva, per quanto ti sembri folle.
Magari avevo appena mangiato delle fragole,
e quel sapore gradevole mi addolciva.
Altre volte, mi capitava di raccogliere con le dita il buon umore del tuo sesso,
rimastomi addosso dopo l’amplesso; me ne bagnavo le labbra,
le palpebre, il collo;
e in quel gesto di erotismo c’era tutto ciò che il corpo e l’amore
potevano offrirmi:
gusto, sapore, profumo, contatto, contatti, sguardi; tutto, tutto,
tranne la musica.
Quella, la ritrovi soltanto se ti metti in ascolto degli altri,
dei loro sussurri, dei loro affanni;
se ti pieghi ad ascoltare il fragore del mare,
la nota monocorde di uno stagno, il sibilo dei rami sfrondati dal vento.
E poi, la nostra famiglia, la nostra città,
le strade nelle quali siamo cresciuti sono state particolarmente rumorose.
Troppe volte l’ho rievocata – lo sai – la nostra casa d’infanzia,
quella corte popolata di un folla stralunata,
quella nebbia nel cui interno siamo stati a brancolare,
senza alcun riferimento che non fossero gli sputi, le urla,
gli spari che venivan da lontano, oppure da noi stessi.
Che noia, a ripensarci! Che noia!
Eppure, da quelle urla, da quegli spari, da quelle imprecazioni
e invocazioni è venuta fuori una musica da camera, intensa,
appassionata, e possiamo riascoltarla, finalmente…
Ci sono ritornata, in questa casa,
subito dopo la fine di quella saga familiare che ci ha sbalzati lontano
gli uni dagli altri.
Stava così, crollata, sotto il peso delle colpe, dello spavento.
L’ammasso dei calcinacci sul pavimento ti obbligava a camminare
con attenzione;
ti permetteva di scoprire dei particolari di noi stessi che credevamo smarriti.
Sui muri c’erano ancora gli scassi dovuti ai colpi di fucile;
lungo il corridoio qualcuno aveva impiccato dei cani,
lasciati a penzolare dai ganci del soffitto,
perché non si dimenticasse l’atroce bellezza della morte;
tra gli stipiti della porta qualcun altro aveva inchiodato
la tastiera del pianoforte
dalla quale erano stati asportati dei tasti. Mi ci avvicinai;
misi le dita a mo’ di accordo sulle note mancanti.
Misteriosamente, riprese a suonare, come riconoscendomi…
Che meraviglia!
Un chiaro di luna ricopriva le macerie con la sua malinconia,
alla quale si aggiungevano la pioggia alle persiane,
i cristalli di Bohemia ancora tintinnanti,
i fogli dei libri ancora sfogliati dalla mano impercettibile del vento…
Era il brano che qualcuno stava suonando
quando l’ultimo colpo di mortaio fece piombare il silenzio sopra di noi;
era il brivido profondo della paura, di fronte a tanto orrore;
era il pianto disperato per la vita e per l’infanzia ch’era andata perduta.
Eppure, niente era andato davvero perduto.
La musica restava ancora lì, nascosta, intrisa nelle mura.
Per anni, i nostri suoni sono stati stridori di coltelli, di stoviglie, di vetri;
le nostre parole sono stati grugniti, latrati, auspici di morte;
le nostre canzoni son state lamenti, prolungati e funebri.
Forse per questo li abbiamo ignorati; ci siamo tappati le orecchie;
non abbiamo più ascoltato nemmeno quei rumori che Natura ci regala,
piegando le chiome degli alberi,
facendo tintinnare la pioggia nei campi,
facendo vibrare di passione il cuore degli amanti…
Avevamo sentito soltanto il dolore, del mondo,
e avevamo paura di riesporci a quel dolore.
L’ascolto del corpo, invece, ci avrebbe protetti,
permettendo di ascoltare della vita il desiderio,
l’intelligenza, il respiro. Di una vita, per lo meno.
Dentro di me ho ritrovato perfino qualche bella canzoncina
che mia madre canticchiava, mentre preparava la cena
o si truccava davanti allo specchio della camera. Ricordi?
“Signorinella pallida, dolce dirimpettaia al quinto piano…”;
oppure quei notturni di Chopin che il nostro pianoforte ci donava,
la sera,
dopo che noi due l’avevamo maltrattato con le nostre sonatucce
a quattro mani.
Sì, ci sono rimasta degli anni, rannicchiata su me stessa,
prima di ritrovare la melodia creata dalle labbra di uomini gentili,
premurosi, mossi dall’amore, dalla passione,
o anche dalla disperazione, e potermene fidare.
Occorre del tempo per questo, parecchio tempo.
Bisogna perdere la vita, prima, tutto quello che di bello ha la tua vita.
Adesso, quando la luce del sole si solleva all’orizzonte,
e si riesce a vedere al di là di noi stessi, mi alzo in piedi,
mi avvicino ai vetri, e i vetri si flettono, diventano cristalli,
strumenti musicali che raccolgono quei fiati debolissimi,
profetici, grazie ai quali vaticiniamo se arriverà qualcosa di buono
o minaccioso, – un temporale, una nave da crociera,
oppure un bell’atleta che incede a petto nudo –.
Conosco l’antica melodia che avrei suonato per te,
fossi stata ancora giovane, ancora amata,
fossi rimasta ad ascoltarti già da prima,
quando preveggevi che i nostri comandanti guerrafondai
avrebbero inabbissato le navi, amiche o nemiche
– con tutto il loro carico prezioso di vasi, gioielli, stoffe dipinte –,
ogni volta che avessero intravvisto qualche segno di quella diversità,
di quella umanità che spaventa,
allorquando non si riesca a sottometterla o comprenderla.
Ne hanno affondata talmente tanta, di umanità e diversità,
che basta rimettere un braccio nell’acqua per ritrovare una mano ancora viva;
una bocca spalancata che ancora cerca un bacio;
una chitarra che ancora risuona e ci incanta…
Lo senti anche tu? Avvicinati, siediti; forse riusciamo a ritrovarci,
a sentire per una volta la stessa cosa…
Ci riesci? Non ci riesci?
Sei troppo giovane tu, ancora attaccato alla vita,
ancora alla ricerca di cose da masticare, oggetti da riconoscere;
di una storia evocabile insomma,
di quelle che chiamiamo poesia o letteratura, o vita…
Ma io non appartengo più alla vita; non so più definirmi;
non so dirti cosa sono diventata, una vecchia, un’allucinazione,
un’emozione qualunque intesa poco prima della morte.
È difficile parlarne, lo so,
raccontare le cose dal versante del niente,
rievocare delle immagini ingiallite, ricomparse sulla pagina del mare…
E a che scopo adesso? Che cosa cambierebbe?
Tutto è disperso, perduto, fatto a pezzi;
frasi, perle sparigliate, sogni mancanti.
Li vedi? Dei cani randagi mordono l’aria, da qualche parte,
per ricordarsi di come si mangia, si uccide, si prova piacere;
laggiù, sull’orizzonte, una barca si muove leggera – ammesso che esista –,
tirata da un filo invisibile all’uomo, nel tramonto ormai spento.
E noi stiamo irretiti sul bordo dell’oceano,
e neanche te l’immagini il perché. Incubi, appunto.
Conseguenze imprevedibili e malefiche dell’esperienza,
forse anche della felicità raggiunta qualche volta, benché fugacemente.
Puoi trascorrere degli anni senza mai toccare il cielo,
senza accorgerti di niente.
Ti pare che non succeda nulla di buono o di cattivo,
non riesci a spiegarlo, sei vuoto.
Poi, un giorno, d’autunno, un essere insignificante
– un amante, una farfalla –
si posano sull’ultima cima di un platano bagnato, poco dopo un temporale,
e quell’albero comincia ad oscillare, via via più fatalmente…
la pioggia riprende, se pure non c’è pioggia, su di te.
Allora ti guardi, sollevi la testa,
ti accorgi che una mandria di nuvole va via, nel cielo ormai terso;
diventi consapevole, non più di ciò che sei, ma di quello che hai perso.
Proprio questo è capitato, a me, a te, a quelli come noi.
Fino a quando ho vissuto da sola, assolutamente sola,
non facevo che rinchiudermi in me stessa!
A farmi compagnia c’erano i vermi, le rughe, le verruche;
da ascoltare c’erano i respiri e i borborigmi;
da ammirare c’erano i seni, le labbra, le mie cosce.
Tutto ciò che volevo me lo forgiavo sul calco del mio corpo,
dei miei fantasmi, delle budella…
Poi è arrivata la perdita, la coscienza della perdita – non so come dirti –,
e insieme ad essa l’evidenza che lì fuori c’era stata la vita degli altri,
bambini o giganti, amati oppure odiati,
e che anche tu c’eri stato, anche tu, soprattutto…
Da allora ho scoperto una nuova infelicità, la vera infelicità…
qualcosa che c’è stata, ch’è arrivata ed è sparita!
Non so più che fare adesso;
mi pare già d’aver vissuto due, tre o quattro vite, tutte insieme.
Ho conquistato e perduto tutto, troppo in fretta, tranne la nostalgia,
questa orribile malattia che ancora, e fin da sempre, mi attanaglia.
Talvolta, mi sembra che la felicità esista ancora,
che tutti i nostri amici stiano ancora ad aspettarmi,
che il mio compagno, così amato, stia ancora qui, dietro di me…
Forse potrei voltarmi, tornare a immaginare, sognare, abbracciarlo…
in fondo, sono preparata a non trovare più nessuno,
come in quel film di cui parlavo, ricordi?
“Vieni, siediti, accomodati”.
Oppure… non so… ho troppa paura di riprovare la felicità,
se questa non è eterna.
Preferisco accettare la fine – o accettarla per forza –,
anche se ho il terrore della morte; l’angoscia di trovarmi da sola,
senza le tue braccia che mi stringono e mi avvolgono,
senza l’illusione che anche tu ci rimarrai, accanto a me,
che anche tu vorrai morire, insieme a me… Ho troppa paura…
Per questo mi accomodo a lasciarmi scivolare;
indugio in questi riti quotidiani; mi trucco, mi stendo,
mi copro di cera, mi metto a guardare i miei vermi.
Preferisco distrarmi così, cadere in questa trance,
sintonizzarmi sul murmure perpetuo che sale dal mare, dal corpo, dal nulla;
lasciare che sia il caso a decidere per me – o almeno sul come e sul quando –;
mi difendo denudandomi, privandomi, svuotandomi di ciò che mi appartiene,
di modo che, voltandomi indietro, io non possa più trovare niente
e nessuno cui legarmi nuovamente,
e riaprire la ferita, risentire l’assenza, l’assoluta dipendenza!
Come vedi la mia casa s’è ridotta all’essenziale, al niente,
pavimenti, stoviglie, tovaglie ricamate;
niente gonne o calze a rete; niente certezze, pareti divisorie,
soffitti e recinzioni che servano a difendersi;
nessuna porta, nessuna entrata, nessuna uscita; nessun campanello.
Soltanto vetri, soffi, illuminazioni,
bagliori incerti che cambiano a seconda della luce.
Come vedi, la mia vita s’è ridotta all’essenziale, al quasi niente;
una spoliazione completa, completata;
una dimensione assoluta della perdita – benché fruttuosa e accettata –,
dalla quale mi riesce di concepire l’inconcepibile
dell’amore perduto – compagni, amici, fratelli, madri, padri, tutti, tutti ridotti a ricordi,
a respiri, ai battiti che fanno di me quel che sono, un donna sola, isolata.
Come vedi, il mio corpo s’è esso stesso ridotto all’essenziale,
divorato dall’interno, slegato, degenerato;
così afflitto e paralizzato che io stessa me ne curo devotamente
– come faremmo con la salma di una santa –,
ricoprendomi di cera per cancellare tutti i segni del genere,
delle vittorie e delle sconfitte; per rendermi assoluta,
non come un manichino ma come un dipinto,
un’immagine archetipica, una statua dell’Uomo.
D’altro canto, non è questa la condizione della divinità?
Eliminare tutti i particolari che ci rendano riconoscibili, gli uni dagli altri;
cancellare le asperità che ci dividono, di modo che ci si possa
confondere, riunire,
ritrovarsi in sintonia, in simpatia… Un solo battito, un corpo solo…
Per questo, ti dicevo, non c’è più traccia di concretezza nel mio parlarti;
non c’è più niente e nessuno, di concreto, che richieda mani per scrivere,
labbra per confessare, occhi per concepire;
non ho altro per la mente che immagini strappate, sognate, allucinate.
Nessun racconto, nessun ricordo, nessuna storia – semmai c’è stata storia –;
nessun linguaggio concreto, rassicurante…
Ciò che posso consegnarti, in quest’ultimo annunciato momento terminale,
è uno sguardo piegato, una testa piegata, pacificatasi con tutto e con tutti,
e tu puoi prenderla e cullarla tra le braccia;
una testa chinata, dall’espressione serena
ritornata in luogo dell’anima che non posso descrivere,
ma che rende tutto il buono di me stessa…
O forse una voce, un filo ininterrotto che proviene da lontano,
che prosegue attraversandoci… un tempo, un tempo verbale…
Non so se lo senti…
Tra poco, pochissimo, il mare si ingrosserà,
col suo respiro silenzioso, ci coprirà,
ma noi continueremo a parlarci, a contattarci, a stare insieme…
Potremo udire la nostra voce al di sotto delle correnti,
un suono che racchiude tutto ciò che siamo stati…
Non è importante sapere cos’era. Non più adesso.
Qualcosa, qualcuno c’era… Non è importante, non è importante…
Qualcuno… qualcosa… era…
Aosta, marzo 2014
Altera Mater
(Una stanza buia, dall’atmosfera terribile, inquietante. Diresti che vi è stato commesso un crimine, anche se non ve ne sono gli elementi. Sul fondo, verso destra, un divano a due posti,su cui siede il protagonista – ma potrebbe essere anche una donna, chissà: dagli abiti di scena, e dal trucco pesante che porta sul viso, non è possibile identificarlo con esattezza.
Un suono accompagna l’intero dramma, prima cupo, poi via via più sereno, come un amore ritrovato. Comincia a parlare a un interlocutore inesistente):
Entra, siediti, accomodati. Finalmente.
Non hai mai saputo farlo tu; non hai mai potuto o voluto accettare un invito.
Ci provo da anni io – quanti anni? Cento, mille? –.
Appena qualcuno ti apre la porta, per accoglierti, tu entri,
ti volti di schiena, per non stringere la mano al padrone di casa.
Il tuo corpo si disseca, s’indurisce, diventa piccolo, più piccolo.
I tuoi piedi disegnano una danza da suora in preghiera;
le tue mani da cucitrice, nervose, vendicatrici, si chiudono davanti alla bocca,
nascondendo il sussurrìo di una bestemmia, contro questo o quell’ospite,
ogni volta contro, ogni volta qualcuno.
E se quello ti sorride, ti invita a sederti, ti offre da bere, diventi di pietra,
cementata a un asse del pavimento e ancora più chiusa,
una statua indurita dall’odio, dal pregiudizio contro le donne, le madri, le figlie:
basta nominarle, che subito la pelle ti si macchia di ruggine, si arrugginisce,
diventa una maschera di rabbia; la bocca ti si chiude,
sebbene sia impossibile nascondere i denti;
questi cominciano a battere, a battere,
si inoltrano al di là della bocca, addentano i piedi, le cosce, le labbra degli ospiti;
tutta la stanza diventa una dentiera battente, minacciosa, angosciante;
non riesci più a restarci, ti senti impaurito, hai voglia di scappare dal divano,
dalle tende, dalla carta da parati.
Tutto assume la tua durezza, il tuo umore cupo, presago di sventure.
I disegni sui quadri della parete prendono corpo, diventano iene, pantere;
si staccano dalle tele, ti rincorrono;
non resta altro che odiarti, colpirle o fuggir via.
Forse è quello che vuoi, che hai sempre voluto,
benché ogni volta che qualcuno ti abbia offerto un pasticcino,
una delizia, un buon caffè,
ti sia sempre nascosta dietro una falsa sazietà,
una garbata assenza di desiderio, una nobiltà ostentata nella privazione.
Ti conosco io. Da cento anni. Da mille anni.
Di sera, dopo aver cenato insieme, sparisci nel sottosuolo.
La luce della luna ci sorprende dalle finestre, allunga le ombre,
la tua ombra ti tradisce, risale le scale, viene a destarmi, ci rivela ciò che fai;
una bocca, grande quanto una voragine, quanto un abisso,
si spalanca: vorresti inghiottire tutto – ogni forma di cibo,
gli animali domestici –, tutto, senza neanche masticarlo.
Ma il cibo inghiotte te, bocca contro bocca,
e non riesci più a sfamarti.
L’ombra si ritira, velocissima, un sicario che si perde nella notte.
Resta sul pavimento un odore di sangue, di lotta per la vita o per la morte,
compiuta per vendetta, tutte le sere, per fame,
una fame ancestrale, una punizione divina.
Un senso di colpa insaziato si stende su di noi,
come se la tua ombra ci fosse rimasta addosso, sulla pelle,
lasciandoci un’accusa di colpevolezza.
Scusami.
Non voglio aggredirti, non voglio offenderti.
Forse la nostra vicinanza mi ha reso timoroso,
e anch’io non riesco a percepire se non fauci spalancate,
latrati, ombre che mi inseguono e mi uccidono.
Non è un sogno, come ben sai; non abbiamo mai sognato noi;
le poche ore di tregua, che gli altri chiamano sogno,
si sono sempre risolte nell’arrivo di tua madre
– ancora più dura e vendicativa di te (se mai sia possibile) –,
oppure nella contabilità matematica delle donne morte,
di quelle appena nate, di quelle da odiare…
ci servivano per giocarcele al lotto, nei fine settimana –.
Adesso sei qua. Lo so, lo so che è ben difficile per te;
ma prova a piegarti, prova ad inclinare almeno un po’
quella colonna rigida come un giudizio divino;
quest’invito non è una prova di fedeltà alla tua vendetta;
Prova ad accettare questo sorriso (il mio, il nostro) che ti si apre.
Scoprirai che i fianchi della poltrona non sono mani lubriche
che ti avvolgono,
né i muscoli minacciosi delle tue ombre.
Siediti, accomodati.
Mi piacerebbe parlarci, raccontarci un giorno almeno, dei nostri mille anni.
Non hai mai avuto voce tu, mai una parola, non dico di dolcezza,
quanto, almeno, di curiosità, di desiderio:
eri troppo impegnata a rifuggire tutti coloro che ti mostrano affetto;
appena qualcuno ti notava ti rinchiudevi dentro,
sempre più dentro,
assediata dai fantasmi sfuggiti dalla tua gabbia scarnificata;
cominciavi a cercarti una rifugio, a nasconderti in casa,
ma la casa si restringeva, inesorabilmente;
le mura diventavano spesse, corte,
impermeabili alle voci dei bambini che ti avrebbero voluta insieme
a loro, fuori,
a preparare i dolci col vino cotto o la frutta sotto spirito;
perfino la porta si trasformava, diventava una specie di botola verticale,
bucata soltanto dalla luce perentoria che filtrava dalla serratura.
Quella luce ti seguiva, ti perseguitava,
ti impediva di nasconderti del tutto – a chi d’altronde?
Forse, alla tua vergogna per i piccoli, continui,
patetici furti che commettevi dovunque venissi invitata –.
Ma poi, anche quella luce si indeboliva;
diventavi uno di quei bambini nati mostruosi,
nascosti negli scantinati dalle nobili famiglie di un tempo,
sepolti per occultarne la sofferenza, il peccato, l’estraneità.
Ti perdevi a rovistare nei cassetti dei tuoi lugubri armadi,
quei sepolcri familiari appartenuti a tua madre, a sua madre, a sua nonna.
Lì dentro, prigioniera di quella camera oscura,
passavi le ore a riordinare i pezzi del corredo,
quelli destinati a una delle mogli o delle figlie che hai sempre detestato;
quelli che avresti voluto per te, per essere donna
e provare piacere, almeno una volta.
Una folla di gesti, ripetuti, incomprensibili, perversi.
Un giorno, riuscii a cogliere un frammento di quella coreografia del peccato.
Avevi dimenticato di serrare completamente le persiane
– oppure l’hai fatto apposta, affinché io ti guardassi –.
Avrò avuto quindici anni.
Mi arrampicai dall’esterno del caseggiato, fino alla finestra;
mi misi ad osservare quei tuoi rituali enigmatici,
illuminati dalla luce della serratura.
Due dita si muovevano, operose e precise,
come le zampe di un ragno quando annodano una tela. La tela cresceva.
Tirasti fuori dai cassetti la federa di un cuscino, una camicia di raso, non so.
Stavi inginocchiata al centro della stanza, come in procinto di confessarti.
Portasti l’orlo di quella camicia sul viso, sulla bocca, sugli occhi,
senza consapevolezza, annusandola, respirandoci dentro,
carezzando quel peccato inesplorabile, destinato alle altre.
Il grande specchio dell’armadio di tua madre ti sorprese.
I grappoli di uva ricamati a pizzo, colorati e umidi, ti coprivano il viso;
dietro quella maschera di stoffe potevi fuggire
dalle grate della clausura a cui eri destinata;
diventavi un’odalisca, danzante nel buio, discinta.
Bisognava sorprenderti in uno di quei momenti
per comprendere che forse, anni prima anche tu eri stata una bambina;
forse anche tu avevi desiderato ricevere un bacio, sentire una carezza,
raccogliere lo sperma con le dita, tra le gambe…
Dopo un po’, qualcosa sbattè alla finestra.
Un colpo di vento, forse; un albero di pino col suo collo da giraffa;
un passerotto, illuso di poterti rallegrare.
Rimasi ancora un attimo, con l’occhio alla persiana,
la punta dei sandali conficcata nei fori della piccionaia.
Era bello scoprire che sotto la sazietà esibita ad ogni invito,
sotto la maschera di legno del tuo viso – non smossa da alcun piacere –
sotto la virtù glorificata della castità, del sacrificio, del ritiro,
tu fossi, o fossi stata, tutt’altra, sensuale, timida, golosa di vita
– almeno da piccola, almeno nel buio di una stanza,
almeno nell’allucinazione del ricordo, del desiderio, dello specchio –.
Avrei voluto raggiungerti lì dentro, come un vento che sussurra;
dirti “Guarda, guardati, sei donna anche tu, i tuoi occhi sono belli,
la tua bocca è per un bacio; il tuo fremito è legittimo”.
Avrei voluto spegnere tutte le luci e le voci del mondo, per lasciarti proseguire.
Non ci riuscii, ad essere con te, a cessare le campane di mezzogiorno.
Ti accorgesti di qualcosa. Di me.
All’improvviso, il nastro di luce che attraversava la stanza si riavvolse,
scomparendo nell’occhiello della serratura;
lo specchio del grande armadio richiuse le palpebre, amareggiato;
il tuo viso, il tuo corpo, il tuo desiderio, il tuo portamento,
tutta intera diventasti di nuovo vecchia, una statua di legno,
di quelle erette nei cimiteri per celebrare una vergine ammazzata dai nazisti.
I grappoli di pizzo tornarono ad essere ricami,
nel marmo impreziosito dei conventi di clausura, ed esser ripiegati.
Uscisti da quella stanza come da un tempo e da un luogo lontanissimi.
Eri di nuovo tu.
A quel punto, il passerotto si ritirò davvero dal davanzale.
Io scesi dalla mia postazione. Avevo paura della luce
– come te d’altronde –, sebbene la luce, come dicono,
ci insegni a riconoscere noi stessi,
ad assumere la maschera più adatta per ogni circostanza.
Abbiamo sempre preferito il buio, noi, l’intravisto, il chiaroscuro,
l’allucinazione di qualcosa che è proibita ma che pure vuoi vedere.
Ti ricordi quella estate, la mia prima da adolescente?
La prima trascorsa da te?
Mi ero chiuso in bagno, da solo, e disteso nella vasca –
lo facevo spesso: avevo bisogno di tempo, per prendere confidenza
col mio corpo nuovo –.
A quel tempo il balcone di casa già arrivava fino al bagno e alla sala.
Avevamo le zanzariere alle finestre, e i vetri spalancati per il caldo.
Avevo appena litigato con mio padre, e avevo bisogno di ritrovarmi.
Spesso ci capita che il sesso ci permetta di raggiungere una dimensione onirica,
e allora una corda rossa, di seta, sembra uscire dal ventre;
ne prendiamo un capo, lo tiriamo, quello si svolge sorprendentemente,
rivelando a poco a poco tutti i nostri desideri, quelli sconosciuti, inconfessabili.
Cominciai a toccarmi, lentamente, ad occhi chiusi,
fino a sporgere quel nastro.
Lo presi tra le dita, me ne avvolsi la testa, i capelli;
me lo misi sopra gli occhi, tra le labbra; ci giocavo.
Tu eri lì, impietrita ma non mossa, attaccata alla zanzariera;
avevi guardato tutta la scena
– era il tuo modo di chiedere e desiderare;
non potevi farlo che così, di nascosto, rubandolo agli altri,
godendo attraverso gli altri o nel nome degli altri –;
e io ero lì, a soddisfare il tuo piacere di madre,
sapendo bene che quel piacere l’avremmo nascosto entrambi,
tu ed io, agli occhi luminosi di mia madre.
Hai sempre vissuto così, dietro una finestra o nascosta da un vetro,
a guardare a rubare, ad ascoltare.
Non te stessa naturalmente, ma gli altri;
certe volte, mentre mi facevo la barba sovra pensiero,
mi accorgevo di non avere più lingua, di aver perduto un occhio;
altre volte mentre mi pettinavo
avvertivo il pettine scivolare da solo tra i capelli;
certe volte ancora mi sembrava di cercare un fazzoletto
per asciugarmi le labbra,
o di non trovare l’accappatoio, la canottiera, i pantaloni appena smessi;
poi mi giravo, e mi rendevo conto che il fazzoletto ce l’avevo,
me l’avevi messo in tasca tu, silenziosamente;
mi accorgevo che l’accappatoio, o la canottiera
mi eran stati puntualmente già lavati,
oppure che quel pantalone l’avevi nuovamente stirato
e mess’a posto nell’armadio.
Eri sempre lì, a scrutare nel tuo specchio ingranditore
– quello specchio che amavi tanto e che portavi tutto il tempo nella borsa –;
ti perdevi nelle sue deformazioni a guardare il mio occhio,
la mia pelle, – ecco dov’erano finiti! –;
a controllare che mi fossi lavato i denti, che non avessi fumato troppo,
a indagare se fossi davvero andato a lavoro, o non mi fossi perso,
piuttosto, tra i cuscini di un’amante.
Le sere in cui nostro padre e nostra madre non tornavano a casa,
per impegni di lavoro, tu eri felice,
felice di poterti abbandonare alla tua brama di controllo,
di poterti sostituire a nostra madre.
Non riuscivo mai a cenare da solo, a guardare la tivù,
a leggere un libro o a stendermi nel letto in santa pace: tu eri lì,
incollata a me, dietro di me, in piedi,
a scrutare nel piatto se per caso non avessi lasciato qualcosa di immangiato;
eri lì con me, sul divano, a leggere sottovoce la mia stessa pagina,
la mia stessa frase, la mia stessa parola;
eri sempre lì vicino, con me, accanto a me, dietro di me o davanti,
e se avessi potuto infilarti con me sotto le lenzuola, chissà,
l’avresti fatto.
Sì, l’avresti fatto, come hai fatto quando ero bambino
e per anni hai liquidato ciascuno dei contendenti,
stabilendo che il mio posto a letto era con te, nel divano letto della sala,
di fronte al televisore: ricordi?
Quanti anni abbiamo dormito insieme?
Quante volte ti ho sentito respirare accanto a me,
vegliare sul mio sonno, piegarti sul mio corpo…
Sei sempre stata così, vecchia pazza bisbetica, malata d’amore,
insolente pettegola velenosa, ladra, bugiarda, appiccicosa,
sempre lì a guardare in un buco della serratura, del culo, della figa,
della bocca, della porta del bagno, della camera da letto.
Appena t’accorgevi di una serratura ti prendeva una sorta di violenza incontrollabile;
dovevi aprirla, guardarci dentro, sputarci dentro, per sporcarla,
perché nessun’altro potesse possederla dopo di te.
Mia madre aveva una scatoletta di metallo,
di quelle piccole casse forti da armadio nella quale credo
non conservasse altro che qualche collanuccia, o un libretto sanitario.
Andasti a prenderla, a scovarla, approfittando della sua assenza,
spostando un indumento dopo l’altro.
Non riuscendo ad aprirla con qualcuna delle tue chiavi,
ti mettesti a percuoterla e sfondarla.
Dentro c’era una vecchia foto ingiallita di mia madre,
giovane, bellissima,
ritratta nel momento della prima comunione;
ti infuriasti, la facesti a pezzi, a piccoli pezzi.
Al ritorno dal lavoro, di sera, quando i miei scoprirono l’effrazione,
avesti il coraggio di accusare me:
“È stato il bambino; voleva pazziare e ha rotto la scatola”.
Sei sempre stata così, vecchia pazza, ladra, meschina, sfortunata.
Sfortunata.
Avevi desiderato da sempre una vita normale, anche tu;
una casa, un marito e una famiglia;
ma una madre più pazza di te, una madre crudele ed ottusa,
aveva stabilito che sua figlia sarebbe stata dedicata alla famiglia,
ad assistere lei, la parassita, la violenta dagli occhi di ghiaccio:
da bambino mi spaventavano perfino le sue fotografie;
quella schifosa aveva stabilito che tu le dovessi fare da balia per tutta la vita,
che tu avresti fatto da balia a tutti i tuoi fratelli e sorelle.
Per questo, hai trascorso la vita vivendo di elemosine,
raccattando le briciole degli altri, del piacere degli altri;
passando di casa in casa, randagia, senza una stanza, senza un armadio;
indossando i cappotti dismessi degli altri, le vestaglie delle altre,
le pantofole buttate;
rovistando sulle tavole degli altri, nelle stanze degli altri;
pulendo i cessi degli altri, accettando le limitazioni e le condizioni degli altri,
subendo lo scherno di quelle più belle, più giovani, di quelle con i figli;
obbligata ad accettare solo ciò che rimane del calore di una cena,
di una festa, di una stufa;
mandata a letto come un’orfana, da sola,
a recitare le profezie, da sola, con l’angoscia di non essere tenuta,
di venire abbandonata, senza infanzia, senza giovinezza,
senza mai mai mai aver avuto un solo bacio.
E quando l’artrosi e la vecchiaia ti hanno impedito di piegarti,
di lavarti da sola, di pulirti dal piscio, sei rimasta sporcata,
come un cadavere, un crocifisso, una lapide imbrattata,
senza che nessuno ti desse una mano,
tu stessa incapace di chiedere aiuto, di chiedere perdono, di gridare.
Nessuno si è mai preso cura di te.
Forse la tua rabbia ci ha fatto comodo,
ci ha permesso di designare in te quella cattiva, velenosa, da buttare.
Certo, eri così, ma nessuno si è mai preso la premura di guardare più oltre,
di comprendere più a fondo se mai vi fosse stato un tempo
e una bambina capace di amare,
se non ci fosse ancora qualcosa da amare,
al di là della tua maschera pelosa e aggressiva.
È stato comodo per tutti.
Abbiamo trovato il nostro tornaconto.
La tua distruttività ci ha permesso di considerarci buoni, totalmente buoni;
la tua perversa attrazione per gli orifizi ci ha permesso
di non soffrire in noi stessi le nostre perversioni;
la tua velenosa zizzania ci ha permesso di negare le voragini
delle nostre relazioni già bell’e sfasciate.
Mai nessuno si è soffermato a considerare quanto sei stata sola,
tutta la vita;
quanta vergogna hai dovuto subire quando le più giovani,
quelle incinte, le ultime arrivate si spogliavano,
sottolineando di fatto la tua vecchiaia e la tua mancanza di femminilità.
Non ci siamo mai chiesti quanta umiliante sofferenza ci sia
nell’accettare di venire ospitata in una casa straniera,
da un ospite straniera che ti ospita per pena,
per sottrarti al dormitorio, per amore del marito…
Quante rinunce hai dovuto accettare? Quante perdite?
Quante amputazioni?
Mi piacerebbe parlare di questo, parlare di te, sai?
Sarebbe bello, ci avvicinerebbe. Non l’abbiamo mai fatto.
Soltanto una volta hai aperto un cassettino del tuo secretaire,
accennandomi qualcosa di tanti anni prima:
“Quando ero piccola, avevo dieci anni o quasi, stavo diventando signorina. Mia madre mi prese da parte e mi parlò a lungo. Mi disse che dovevo rinunciare a correre appresso ai ragazzi, come facevano le mie sorelle, dovevo seguire i miei fratelli – tuo padre soprattutto, che si sarebbe trasferito a Napoli con tutta la famiglia. Si mise a piangere; poi mi disse ancora: ‘Se te ne vai anche tu, chi rimane ad assistere me?’ Io le dissi che mi sarei occupata comunque di lei, ma che volevo uscire anch’io, come le mie sorelle. Non volle sentire ragioni; ribadì che dovevo rimanere per sempre al suo fianco. Se quella stronza mi avesse lasciato fare la mia vita non avrei dovuto fare la serva a tua madre e a quei porci dei miei fratelli…”.
Un bel raggio di sole era entrato tra di noi,
ci aveva permesso di scoprire per la prima volta i tuoi occhi di bambina,
la tua voce timida e gentile che chiede aiuto, che chiede amore,
che sa domandare;
quel raggio ci aveva riportato a quel momento terribile,
quando tua madre,
col viso suo da Gorgone, ti aveva condannato a morire per sempre.
Chissà, se quella luce non si fosse spenta subito avremmo potuto
sognare un’altra vita,
ritrovare qualcosa di vivo, ancora, di vivo e di materno
sotto la tua maschera di legno; ma tu non hai potuto.
Ci sono dei momenti archetipici che cambiano per sempre
la nostra storia e noi stessi.
In quel momento, tua madre aveva cambiato per sempre la tua storia,
e tu l’avresti cambiata a mia madre e a tutti noi.
Quando vi trasferiste a Napoli – tu, mio padre e tutti i tuoi fratelli –,
a casa nostra, avvenne qualcosa di incredibile.
Un giorno mia madre tornò dal lavoro, di sera tardi – come tutte le sere –.
Si levò il cappotto di lana beige tagliato a mano
(ho una foto in cui sembrava Haudrey Hepburn);
si sedette sorridendo, si sbottonò la camicetta di cotone che indossava
per allattarmi.
Tu ti fiondasti su di lei, le scippasti il bambino dalle braccia,
gridandole che proseguire l’allattamento mi avrebbe provocato
una “febbre” pericolosa.
Da allora in avanti ci avreste pensato tu e tua sorella ad allattarmi,
col biberon.
Mia madre rimase sbigottita.
Forse la colpa di esser stata una madre, di amare suo figlio,
le impediva di reagire, di rivendicare per sé, ancora, quel piacere erotico,
quel gioco sensuale del contatto con la pelle.
Di fatto, le avevi sottratto violentemente la maternità,
l’avevi amputato anche a me quel seno.
Me lo hai detto tu stessa.
Ci tenevi a raccontarmi com’erano andate le cose.
In realtà, ho idea che ognuno di noi conservi la profonda memoria
di ciò che si aggiunge o si sottrae al nostro corpo.
Io sentivo che la bocca stava vuota, e che ogni giorno
si ingrandiva ancor di più, cercando altro,
cercando di nuovo quel seno che una volta aveva avuto.
Il tuo biberon, infilato maldestramente dentro di me,
mi arrivava nella gola, nel respiro, negli occhi:
mi sentivo paralizzato. Potevo solo piangere.
Quel biberon divenne ogni giorno più denso, più duro, più freddo;
e quella cosificazione si estese rapidamente alla mano,
al tuo braccio, all’intero tuo corpo;
diventasti a tua volta minacciosa e inaccogliente.
Anche quando, magari, avevi in animo di ridere,
sul tuo volto compariva un’espressione di sdegno,
di squalificazione, una specie di ghigno;
e quando ti protendevi per accogliere qualcosa tra le mani
– chessò un fascio di fiori, una scatola di cioccolatini, un lenzuolo nuovo –,
i tuoi muscoli si contorcevano istintivamente,
producendo un gesto stizzoso di rifiuto, di espulsione, di rabbia.
Avevi soffocato la riconoscenza per chiunque,
proprio come tua madre aveva soffocato, dentro di te l’entusiasmo,
il sorriso, la grazia. Eri diventata una minaccia.
Ricordi l’estate del ’78? Avevo tredici anni.
Eravamo tutti insieme in vacanza, la solita sacra allargata famiglia;
io ero partito in campeggio con i boy scouts;
voi passavate le giornate chiusi in casa, a seccare la frutta,
a tostare le mandorle.
Uno di quei giorni, uno dei tanti, cominciaste a litigare.
Mia madre camminava per casa come una creatura del primo paradiso,
innocente, quasi nuda, ignara della propria bellezza,
senza intenzioni sessuali o provocatorie;
voi cominciaste ad apostrofarla “puttana”; mio padre la insultò,
dicendo che voleva “attirare” gli uomini sotto casa, e tuo fratello,
quell’ottuso maiale, forse raccogliendo il vostro odio e il vostro intento,
le mise le mani addosso, la spinse sul tavolo, le stracciò i vestiti.
Lei reagì, colpendolo con un piatto, e tu la feristi tagliandole
un braccio con la forchetta.
Io ero in campeggio – come ti dicevo –; stavo facendo un girotondo,
quando vidi arrivare due vigili urbani che chiesero di me al capo scout.
Mi sentivo angosciato e imbarazzato davanti ai miei compagni.
Mi portarono via.
All’arrivo, vidi una calca di persone urlanti, guardare verso casa.
Mi feci spazio.
Dall’angolo del balcone cadevano gocce di sangue sulla strada.
Cose così ci insegnano che l’invidia, la ferocia, il male sono ineludibili;
ci piegano per sempre al nostro destino, spesso così diverso
dalla nostra natura o dalle nostre aspirazioni;
e il meglio che possiamo fare è prenderne coscienza.
In quegli anni della nostra vita familiare
io presi coscienza che i miei legami sarebbero sempre stati cordoni ombelicali,
e per ciò stesso indissolubili.
Mia madre prese coscienza della violenza compresa nel ruolo suo di vittima,
ruolo che le era stato assegnato da altri ma che lei indossava con accuratezza.
Tu prendesti coscienza – o avresti dovuto –
di quanta follia c’è nel rincorrere tutta la vita una donna, una madre
o un amante da liquidare,
quando l’unica che avresti voluto veramente ammazzare era già morta,
lasciandoti in destino la disperazione di non volere
e non potere ammazzare che te stessa.
Nei nostri anni di vita familiare, il destino che ti era stato assegnato prendeva forma, giorno dopo giorno.
Passavano le sere, gli anni, le stagioni; diventavi sempre più odiata,
sempre più dura, violenta. Sembravi perfino rimpicciolirti,
una malata di Parkinson, paralizzata in una smorfia di dolore o di disgusto.
Ti guardavo sottocchio, la sera, dal mio tavolo da studio;
rimanevi sola, aspettando che tutti gli altri fossero a letto,
per metterti a frugare.
Le tue dita sembravano scivolare l’una sulle altre per la frenesia e la voracità,
per la fame e la vergogna di venire scoperta a rubare.
Ti nascondevi dietro la tenda, ché nessuno vedesse,
a mangiare gli avanzi della cena;
sembravi un cane randagio che divori voracemente, furtivamente,
un pezzo di cotenna ritrovata tra i rifiuti.
Oppure ti chiudevi nella camera d’ingresso,
per sottrarre quegli oggetti senza senso che tu ritenevi preziosi
– un pezzo di stoffa, un quadro senza valore, un paio di forbici –;
li avvolgevi meticolosamente in uno straccio,
li infilavi di nascosto sotto la vestaglia,
poi correvi a seppellirli da qualche parte, in casa,
bestia affamata che atterra il suo bottino.
La gente ti odiava, ti evitava, ti allontanava.
L’avevo visto succedere laggiù, al tuo paese,
con tutte le tue amiche di famiglia e tutti i parenti, uno dopo l’altro;
li liquidavi considerandoli minacciosi,
e loro ti ricambiavano mettendoti da parte.
E lo vedevo succedere ancora, sotto i miei occhi, in casa nostra.
Ti preparavi a una rottura che avrebbe diviso mia madre da mio padre,
te stessa da me stesso,
e il torto dalla ragione, l’intelligenza dal sentimento.
Dopo l’ennesima stagione di liti, dopo quindici lunghissimi anni,
mia madre vi buttò fuori di casa.
Ricordo che andaste a vivere al Vomero,
in un appartamento che tua sorella aveva comprato per voi,
presagendo la fine di una convivenza mai veramente cominciata.
Mio padre era distrutto.
D’un colpo, era stato strappato dalle braccia della amata sorella
e tutta l’atrocità della storia, raccontata tante volte in casa nostra,
tutta quella memoria diventava nuovamente attualizzata,
un Male che si ripete, evidente, assoluto, banale.
Da un giorno all’altro, una madre e un figlio venivano divisi per sempre.
Ero anch’io un figlio, un figlio tuo,
e non mi importava più la conta dei torti e delle ragioni.
Tu eri sola, stavolta, senza fratelli,
privata finanche del tuo ruolo sventurato di badante.
Eri lì da sola, in una casa spoglia come mai ne avevo viste,
mancante di mobili, di tavoli, di letti, di cuscini.
Non avevo mai visto e sentito tanto dolore.
Finito il lavoro, mio padre veniva a trovarvi, ogni sera, alle 19.00.
Scelse me per accompagnarlo; mia sorella aveva sempre avuto
una sola madre, e non era la designata.
Io lo seguivo con angoscia; non dicevo una parola,
non un respiro, mentre alla tivù ridavano Happy Days…
Fummo noi a trasportarvi quattro sedie;
un piccolo tavolino da thè su cui cenare, un servizio di piatti;
portammo delle reti, materassi, qualche coperta;
l’essenziale per sopravvivere;
c’era un solo fornellino a gas, di quelli da campeggio,
per scaldare una minestra, una sola, per cena.
Tutte le sere, non vedevo l’ora che mio padre ritornasse per venire da te.
Ci fermavamo mezz’ora, mezz’ora soltanto.
Non potrò mai dire il dolore che provai, in quella stagione della vita.
Quella casa così spoglia, bianca, privata di tutto,
era il Guernica che la nostra famiglia aveva rivissuto,
e che adesso vedevo, con evidenza, davanti ai miei occhi.
La luce fioca emanata da una lampada d’alluminio;
la spalla di un animale squartato, lasciata sul davanzale della finestra;
i tuoi occhi ingigantiti, terrorizzati;
la tua bocca straziata ed aperta; i denti squadrati e ingialliti,
tutto ciò era la cosa più bella e terribile che avessi mai visto.
Tu e il tuo viso che non potrò dimenticare, diventaste il segno della sconfitta,
del dolore patito crudelmente, in nome e per conto dell’uomo,
di ogni uomo spogliato della dignità.
Lì, in quella resistenza muta, in quella assenza illuminata dalla lampada a gas,
cominciava la bellezza e la storia che avrei raccontato,
un giorno, da grande, tra mura scrostate e visi straziati,
tra i silenzi interminabili durati per anni.
Cominciai da allora, credo, a considerare la bellezza delle parole misurate,
abbandonate tra gli oggetti derubati alle vittime, ai profughi,
come tu sei e noi eravamo;
cominciai a considerare quanta ingiustizia c’è nell’esecuzione
di una condanna, di un atto, di ogni atto,
foss’anche di giustizia, di liberazione, di riscatto;
e come può mutare rapidamente la storia e il destino dell’umanità,
di una famiglia e dell’amore,
quando le cosiddette vittime colgono l’occasione e il gesto ferino
per essere carnefici,
anch’essi, dimentichi dell’orrore subito e denunciato!
Dalla croce non si scende – lo apprendevo a tue spese;
in quelle sere, in quel confino, tu diventavi una vera mater dolorosa,
e quella che un tempo lo era stata davvero ritornava ad essere
una madre, soltanto, una madre sola.
Tutti i torti, tutta la crudeltà e la miseria che avevi vissuto e conficcato
si scioglievano nei colori silenziosi e più sfumati di quella tela tragica
che io, da bimbo, ero stretto ad ammirare,
e dalla quale sarei uscito, un giorno, raccontandola,
in modo da restituirti l’onore della comprensione,
del conto pareggiato
la gratitudine per avermi insegnato a ritrovare l’amore
anche nel gesto di rifiuto;
a sentire la sofferenza anche in coloro che gridano vendetta;
a ritrovare la ricchezza anche nelle briciole di un pasto,
di una stufa, di un sorriso.
Alla fine di quella mezz’ora, quando tornavo a casa di mia madre,
happy days era finito. Avevo per sempre due madri e due lingue.
Le avremmo avute tutti, per sempre, due lingue.
Vedo che sei stanca adesso. Lasciati andare;
mettiti qui, sul divano, stendi la schiena e le gambe;
metti i piedi su di me: ti aiuterà a sentirti più distesa,
a conquistare lo spazio e il contatto con le braccia,
quello spazio che non ti sei mai permessa.
Perfino dopo la perdita dei tuoi adorati fratelli
– il tuo Cosimo, il suo amatissimo Ubaldo, la tua gemella Carla –,
dopo la morte di tutti,
quando ormai i riflettori erano puntati su di te, unica superstite
di quel lungo ciclo miceneo ch’è stato la nostra famiglia,
perfino allora hai scelto di occupare poco spazio.
Sei ritornata a vivere da sola, in una stanza sola
– la stessa dalla quale noi bambini scrutavamo il cielo
prima di partire per il mare –, ma più lesionata adesso, tralasciata.
Un museo dei ricordi, nel quale ogni oggetto
– le boccette di profumi, il vecchio pianoforte, un calendario anni ‘70 –
aveva ripreso il suo ruolo di cosa,
come accade forse all’inizio di tutto, e come accade alla fine dei giorni,
quando la dimenticanza ci divora, e ogni cosa torna a risplendere
per i suoi colori, per le sue forme, la sua vicinanza.
Eri diventata così anche tu, oggetto tra gli oggetti,
stipata in poco spazio, al buio, sulla dondolo di vimini.
Negli ultimi tuoi anni, non ti era più necessaria l’apertura, o la libertà –
tutte cose che connotano l’essere vivi,
ma che diventano dannose in vista della restrizione progressiva
del corpo e dello spazio, della morte.
Eri più saggia di noi tutti; lo eri diventata;
avevi accettato quella solitudine che un tempo era stata la tua condanna,
l’elemosina lasciata dagli altri,
e che adesso vivevi con dignità, senza piagnistei.
Eri tu, ancora tu, con la tua maschera di legno, la tua amarezza,
ma più rispettabile ormai, del tutto rispettabile.
Negli ultimi anni, quando venivamo a trovarti, laggiù, ad Ascoli,
ci accoglievi come non avevi mai fatto, a braccia aperte,
col viso più disteso:
una padrona di casa, finalmente, regale, solitaria;
io ti stimavo per quella dignità, per quel contegno nell’esprimere un desiderio.
Pure quando si trattava di passare un Natale, una Pasqua
o una vacanza insieme,
tu aspettavi che qualcuno lo chiedesse,
che io o mia sorella venissimo a prenderti.
L’alterigia e la presunzione di un tempo avevano lasciato il passo
al disincanto
per l’amore che può essere e non è.
E quel farsi invitare, quell’attendere l’invito, era una civetteria
da vecchia nobildonna,
la garanzia di non essere di peso, una garanzia necessaria dopo tutto
per sorridere un poco,
per essere più liberi di fare una passeggiata, di prendere un dolcetto.
Una civetteria, sì. È strano, te ne accorgi?
Eri stata, per un secolo e oltre, l’emblema della durezza,
un corpo senza pelle, senza fisionomia, reattivo ad ogni alito di vento,
e adesso stavi attenta perfino alla giacca da abbinare,
alle scarpe lucide, alla gonna nuova.
Se qualcuno ti proponeva di metterti il cappello per il freddo
tu rispondevi – stizzita adolescente – che ti avrebbe rovinato i capelli.
Forse, la morte di ognuno dei tuoi cari,
la solitudine di chi rimane ultimo,
la convivenza quotidiana con la morte ti rendeva libera dalla colpa,
dallo sguardo degli altri, di tua madre soprattutto.
Non c’era più nessuno, adesso, a tenerti “dentro”
– tranne la tua fragilità; e pure di quella te ne fregavi,
come se un’altra possibilità, in quel momento
(a pochi mesi dalla fine) fosse diventata ineludibile
– un bisogno di aria, di luce calda, di sensazioni –.
Non che non fosse già nella tua natura.
Sei sempre stata una ginnasta infaticabile,
ti prendevamo in giro proprio per questa tua istancabilità,
non stavi ferma un attimo; pranzo, cena, piatti, pavimenti,
scendere le scale, salire le scale, scendere, salire, scendere, salire…
Sei sempre stata così, da giovane.
E negli ultimi tempi, eri diventata ancor più “vagabonda”
– come dicevi tu, scherzando di coloro che viaggiano –;
uscivi tutti i giorni, per fare la spesa – cinque euro, mi raccomando,
soltanto il latte, la pasta e il pomodoro –,
per andare a messa, per recarti al cimitero, tutti i giorni, al mattino.
Quella devozione ai tuoi fratelli, a tutto il tuo mondo,
era una preparazione, la promessa di un incontro,
di un incontro rinnovato con l’amore.
Ancora di più, quando stavi con me, ed io ti sballottavo per l’Italia,
a visitare i monumenti e le chiese,
ti si illuminavano gli occhi per tutto quel mondo,
per tutta quell’aria respirata insieme.
Avrei voluto restare con te, allontanare da te ogni interferenza,
restituirti una stagione intera di assoluta emozione, sì,
l’emozione della felicità,
della giovinezza, non più stemperata dalla resistenza del corpo.
Una luce, un sorriso, un suono, un profumo, che giungesse
nel profondo dell’anima; la carezza di un bambino.
A volte per sfotterti ti davo un bacio,
e tu ti ci opponevi, tirando indietro la schiena,
chinando il capo per nasconderti a qual bacio: mi dicevi che ero “scemo”,
col sorriso mal celato di chi desidera il contrario.
In quei momenti, sentivo tutta la solitudine che hai patito,
e che mai nessuno può comprendere o emendare.
Bisogna essere stati vivi,
aver desiderato un bacio, una carezza, un amplesso,
una corsa nel grano, una lotta corpo a corpo;
bisogna essere stati scorticati, privati di ogni contatto,
per sapere cos’è la morte, o la felicità.
La vera angoscia è vedere sul viso degli altri il disgusto quasi,
l’indifferenza nel toccarci, accarezzarci, o abbracciarci,
nel prenderci per mano quando scendiamo le scale.
Forse per questo le statue sono sole, così dimenticate;
i loro visi hanno sempre quell’espressione accigliata e sofferente;
o forse è per questo che la sola possibilità di morire senza disperazione
sarebbe restare a lungo ricoperti dalle mani di coloro che amiamo,
le loro mani, le braccia, le labbra, avvinghiate al nostro corpo.
Questa era la felicità che ho sempre voluto darti, negli ultimi tempi.
Per questo ti ho detto, stenditi su di me;
ti tengo io; chiudi gli occhi, dimentica, o forse no: ricorda,
ricorda questo contatto tra di noi;
scrivi sulla tua pelle di questo amore riconosciuto;
incidilo nelle cartilagini, nei muscoli,
nascondilo sotto le sopracciglia, o tra i capelli;
tienilo tra le labbra; conservalo negli occhi;
adesso ci prepariamo, entrambi, per un’altra dimensione,
più profonda, più nostra… Ci riesci?
E io, ci riesco a farti essere una bimba finalmente coccolata?
Ti ho ritrovato quello specchietto magico,
quello che ingigantiva e deformava i nostri visi, ricordi?
L’ho messo qua, proprio sul tavolo, di fronte a noi…
No, non preoccuparti, non ci serve per scoprirci
– perché dovremmo d’altronde? –;
non ci è più necessario restare a scrutare la vita degli altri,
e neppure indirizzare in modo obliquo il nostro desiderio:
siamo entrambi bambini, ormai – ce lo dicono tutti,
con quell’espressione che ci piace così tanto, infantili –;
possiamo entrambi permetterci di vedere le cose più profonde
– una sirena, che dorme di fianco sul fondo del mare;
una forchetta arrugginita, appartenuta a chissà chi;
una cassaforte sfondata dalla quale è riemersa una penna stilografica –,
senza doverle recuperare, catalogare o assegnare a questo o quel proprietario;
alla fine, ognuno può considerare le proprie aberrazioni,
le colpe, le affinità vissute o inflitte, o ritrovate negli altri.
No, non preoccuparti. Mi pace tenerlo lì, di fronte a me;
mi piace, mentre rimango sul divano, con te accanto,
a perdermi in quella superficie deformante in cui le linee del corpo
si stondano,
i visi si allargano, i corpi si allungano,
e pare di esser come noi desideriamo;
distendo un braccio e questo si piega, mi abbraccia;
apro una mano, lentamente, fino al punto in cui le dita si intrecciano alle altre,
due mani, una nell’altra…
Scivolo appena sul divano, muovo una gamba, la vestaglia si apre;
due curve si avvicinano, due gambe, una sull’altra, due corpi, caldi, morbidi,
due corpi, uno nell’altro; e quel viso, che meraviglia…
Accenno un sorriso, e pare che la bocca si dilati,
che gli occhi s’ingrandiscano, diventan luminosi, luminosi,
le labbra si avvicinano alle labbra, le tue…
piego appena la testa, ti raggiungo, ti bacio…
penso alla notte, che pare stellata, la dolce notte, la buona notte.
Dormi, mia fragile, altera mater. Le parole non servono più.
Puoi dormire adesso, puoi dormire.
Ci sono io, qui vicino, per sempre.
Napoli, Ascoli Satriano, Aosta, dicembre 2012 – febbraio 2015
It Was, poemi 2010-2015, La Vita Felice, Milano 2017
