Il contadino giù nel cortile ha abbattuto l’albero
di fichi – un albero bellissimo, maestoso,
avrà avuto cent’anni -.
È un tipo pratico lui, risoluto;
indugia sulle rape, così buone, terra terra,
mentre abbatte senz’indugio quell’intreccio di profumi,
di sapori, di freschezza.
L’inquilino del terzo piano s’era lagnato,
gli toglieva la vista sull’arteria commerciale – dice –
dove la gente, a piccoli passi, brulica nel minimarket,
ignara degli slanci, delle altezze, dei ripari.
Vieni a prendermi se puoi,
sono solo, ho bisogno di te.
Vieni a prendermi se puoi.
La cena si fredderà, la mangeremo così;
la gita programmata la faremo più avanti,
quando le stagioni si saranno già aperte.
È il tempo della privazione, questo.
Gli alberi si stanno spogliando per andare a letto.
I fiumi si ritirano nel letto, filiformi ed invisibili.
Io e te ci tocca affondare nella neve,
tracciare una strada per la nuova primavera,
dedicarci alla speranza.
Avevo aperto la porta, sovrappensiero.
Nella stanza pochi oggetti: tavoli, sedie, cose del genere.
Uno in particolare, un paio di occhiali
appartenuti a qualcun altro, privi di una lente.
Gli avevano ricordato qualcosa.
Anni prima, li aveva fotografati per gioco,
accostati a una rosa sul tavolo di una terrazza.
Un particolare gli aveva rivelato tutto il vuoto del mondo.
Una sola lente. Un’enorme mancanza.
Il giardiniere ha notato una lucertola,
piccola piccola,
dimenarsi sulla soglia della cucina.
Ha urlato, per spaventarla.
Poi l’ha schiacciata, senza finirla.
Io ero distante, ho sentito le urla;
sono corso anch’io, d’istinto,
con tutta la poesia, la cultura e l’umanità
che mi ritrovo.
Anch’io sono corso, per finirla.
Soltanto l’uomo profondamente solo può viaggiare
nel treno di notte, senza prender sonno,
passando le ore a guardarsi nello specchio,
andare avanti e indietro nel vagone letto,
sobbalzando ad ogni scambio di rotaie,
e quando è l’alba scivolare in silenzio dal finestrino,
inghiottito fra cielo e mare
Ho incontrato un uomo per strada.
Era una di quelle giornate in cui la terra ti impaurisce,
nuvole nere, un vento basso, freddo, che spezza i virgulti.
Era solo, ero solo anch’io.
Cosa abbiamo appreso oggi – gli ho chiesto -?
E cosa abbiamo disperso invece?
Mi sembra di essere rimasto solo – ha biascicato -.
Gli uomini, in masse, hanno lasciato i villaggi, tralasciando i mali.
Sono andati altrove, per costruire una Babele
e finirla con la follia.
Qui c’è rimasta soltanto l’ombra, che è ricordo, poesia, malinconia,
la dimensione di una perdita totale.
Io sono rimasto a completare l’opera, affinché non rimangano tracce.
Ho seppellito mia moglie, bruciato la casa; ho tagliato anche le piante,
tutte, per non avere rimpianti.
Ho lasciato in piedi il vecchio ulivo, per impiccarci i cani.
Certe sere passano a correggere poesie già scritte,
così, tanto per restare fedeli al mestiere. Succede,
quando non hai nulla da dire ma non sai rinunciare a dire.
Certe vite passano a riparare gli errori commessi,
le perdite subite o inflitte,
giusto per mestiere, senza un orizzonte, senza desiderio,
senza apprendere niente.
Si va avanti per abitudine, senza il coraggio di smettere.
Come da un grandangolo.
Un ragazzo africano è in primo piano, a sinistra.
Magro, malandato, cammina su una bici innocente, quasi fermo.
Più in lontananza, verso il centro dello sguardo,
uno spazio che si perde all’infinito,
un campo di grano deserto, desolato,
un borgo silenzioso, cadente, disabitato.
Il vento smuove le cose, solleva polvere,
fa sbattere imposte, ma tutto in silenzio, in silenzio.
Stavo passando di lì in macchina, coi miei pensieri.
L’ho sorpassato da destra, lentamente.
Come filmando un ciclista,
la sua fatica, il respiro stanco, la sua faccia scioccata.
Dal finestrino, andando veloce, ho guardato prima di lui,
e ho avuto paura.
Ho visto lo spazio perdersi a vista d’occhio,
la sua solitudine tragica, assoluta,
l’abbandono della casa per andare verso il nulla.
Ho avuto paura, tanta paura.
– È tutto da percorrere, e lui non lo sa ancora -.
Adesso dormi.
Domani faremo il resto.
Ci sarà tempo per sistemare le carte,
dividere le pentole,
decidere dei figli.
Troveremo la strada per finire.
Le senti le carezze?
Sono andato già avanti.
A domani.
La bella estate è finita.
Come finisce uno sguardo, un sorriso, un bacio
prima dell’addio;
come si spegne il televisore sul mondo in festa,
come si chiude una finestra, silenziosa, dietro le spalle.
La bella estate dei ritorni dal mare,
degli amori vecchi e nuovi, dei ricordi inventati.
Se mai un giorno ritorneremo vivi
dovremo cercarle le parole,
per raccontare cos’è stata questa felicità e questa perdita,
dopo la quale non sei più com’eri,
in piedi nel primo mattino del nuovo inverno.
L’autunno comincia quando dormi da un’altra parte.
Dici che hai i dolori, e ce li hai,
che nel sonno t’inseguono i fantasmi, che lei russa,
oppure che la bimba si mette di traverso.
L’autunno dell’amore, intendo, quando ti separi dal branco,
presentendo che sei vecchio, sei diverso, sei di troppo.
Loro – madre e figli – sono giovani e concordi,
si ritrovano su tutto.
Sei tu l’eccezione, la variabile indesiderata,
l’insoddisfazione da espungere.
Dal buio è emersa quest’alba fredda, immobile,
questo grigio che si stende sul mondo come una tela trasparente.
Ci su muove cauti, privi dell’orientamento del sole o delle nuvole.
Quest’oggi si tratterà di sopravvivere – penso -;
ciò che doveva morire è morto,
ciò che la vita ci ha dato l’ho raccolto ormai.
È tempo di attesa, questo.
Non abbiamo altro da fare, nessuno da invocare;
restiamo piegati sul pozzo.
Il nostro viso ci spaventa, immobile, freddo, ci paralizza.
L’abbiamo guardato, purtroppo.
È tempo di desolazione, questo.
Sentimmo bussare alla porta.
Non aspettavamo più nessuno,
nessuno ci aspettava più, da anni.
Ci guardammo, chiedendoci chi di noi
avrebbe dovuto rischiare la vita, e aprire la porta.
Toccò all’ospite il compito ingrato.
Il vento sembrava cieco, disorientato, infreddolito.
Nonostante l’arcana paura,
nonostante il nostro terrore umano,
il vento ci chiedeva riposo, si mostrava nudo,
ci implorava il perdono.
L’ospite, lo straniero,
gli aveva offerto una vela da gonfiare.
L’aveva invitato ed accolto.
Quando uscimmo all’aperto, gli altri se n’erano andati.
Avevamo tutti la sensazione di qualcosa di sospeso,
o forse d’incompleto.
Era il tempo, il tempo passato, ridotto ad osso, a vestigia.
La compagnia di giro era transitata anni prima,
lasciando sulla battigia qualche maschera di cartone.
Qualcuno ne raccolse un pezzo, se lo mise in volto,
cominciò a ballare mimando Dioniso,
a recitare la parte di se stesso prima della catastrofe.
Doveva essere bello.
Qualcun altro si avvicinò alla vite, lentamente,
mimando il gesto della vendemmia.
Improvvisamente la mano gli si staccò.
Un guanto di cartapesta, posato sui tralci
forse per spaventare i passeri.
Non aveva guadato con attenzione.
Tutto il suo braccio, tutto il suo corpo,
forse anche il sorriso, era stato maschera, un tempo.
Si incamminarono al mattino presto, prestissimo.
La notte era fonda.
La baia da traversare estesa, pericolosa, profonda.
Il mare li sommergeva quasi.
Non c’erano guide, né rotte sicure.
Nessuno ci aveva ancora provato.
Camminavano lenti, ciascuno con le proprie angosce,
col proprio minuscolo uomo da trasbordare.
Camminavano in silenzio, ciascuno da solo con se stesso.
Avevano cercato tutto, tranne la felicità.
Avevano trovato tutto, tranne l’amore.
Nel giardino che coltivo da anni,
il conto tra la vita e la morte è ampiamente dispari.
Per ogni pianta che resiste, due ne sono morte.
Il freddo, il vento della neve, i parassiti e la caducità
hanno strappato moltissime piante.
Ho dovuto raccogliere il corpo dei fiori che avevo più amato,
uno dopo l’altro, e seppellirli, coprirli di terra, proprio loro,
i fiori, che per terra hanno le gambe,
che per terra si nascondono a metà, la metà dimenticata,
quella che non profuma, ch’è difficile da amare.
Nonostante mi sia chinato sull’erba per molto tempo,
il diario di un giardiniere è il racconto di una perdita,
di un vuoto non colmato,
di un conto pareggiato solamente in primavera.
Camminavano per le strade silenziose della sera.
Neve, neve, neve. Dovunque un bel tepore natalizio
una bianca coperta distesa sulle case, per consolare.
Guardavano le finestre illuminate per la festa,
lì nel borgo medievale;
dentro, persone serene, indaffarate le une con le altre.
Non c’era tristezza nei loro occhi, ma disincanto, perdizione.
Non sapevano dove andare,
non sapevano che senso dare alla loro ammirazione
per quelle vite viste così, dalle finestre,
riscaldate, rassicurate, lente.
Non sapevano più nulla da molto tempo ormai.
Erano rimasti gli ultimi a sognare qualcos’altro.
Così si compie l’inverno,
come una luce spegnendo sul buio della notte,
come un sipario sul tuo e nostro amore,
sulle cose, le illusioni che di solito sogniamo
di fronte alle angosce.
L’inverno del cuore,
un suono che si perde dentro una litania,
una poesia da cui il senso fugge via,
il punto in cui silenzio prelude alla morte.
L’inverno del tempo
quand’è tempo di campare giorno dopo giorno,
scrivendo del presagio o del tramonto,
volendo esorcizzare.
Resta a casa, riposati,
concediti di attendermi senza più ansia.
Arriverà il tempo in cui la paura sarà scomparsa,
la paura di restare da sola, di perdersi per strada,
la rabbia d’aver steso la mano per un po’ di vicinanza.
Arriverà quel tempo,
arriverò io stesso a rincuorarti, a riprenderti e giocare,
a dirti che ti amo, che l’infinità è nostra,
che siamo lontani persino dal presagio della morte,
e che se mancano i presagi allora siamo salvi.
L’uomo che si incammini dentro se stesso,
o che sia condannato a farlo, deve sapere che dentro di sé
c’è un mondo di persone amate odiate con cui ci mascheriamo,
ci fondiamo, ci perdiamo;
dev’essere conscio che quel cammino è costellato di morti
che fanno male, di ceneri che sembrano neve;
che passeggiandoci si sentirà più solo – non meno solo -;
si pentirà d’aver cominciato.
Sappia, lo sfortunato, che non c’è gloria in tutto questo,
c’è poco merito, nessun ringraziamento,
e che si vive più soli, si muore più soli.
Dopo tanti anni di reciproco silenzio
lei gli dice che avrebbero dovuto cambiare strada,
prendere e partire verso un mondo lontano,
di modo che si possa riprendere una vita più vicina.
Lei intende che così com’è diventata la loro storia
sembra un film muto,
e forse pure quello ha paura che finisca.
Di qui la svolta, la remissione dell’ignavia e il nuovo inizio.
Non importa se è tardi, se tutto ciò che li animava s’è spento,
se la morte nell’anima di lei e di lui
– così ricercata per scongiurare l’infedeltà –
è ormai visibile dai visi, tirati e conformi, come sarcofaghi.
Dopotutto, cambieranno i calendari sul muro
per aggiornare il tempo,
i mobili di casa per aggiornare lo spazio,
e il tipo di materassi per aggiornare l’amore.
Ogni giorno che tolgo al nostro tempo,
mia stella adorata,
ogni ora sottratta a restare con te,
è un cielo buio nel quale ricado, una tristezza.
E non c’è niente, proprio niente che possa fermarmi.
Scivolo inerte tra la gente che svanisce.
Un armonio, poche note che si volgono alla fine.
C’è solo da rimpiangere d’averti lasciata,
c’è solo da rimpiangere la vita scambiata
per le cose più futili, e tornare da te, amore mio,
e non farlo mai più.
Ho percorso di notte i tornanti di montagna
che conducono a casa.
Volevo godermi le poche ore di serenità prima del sonno,
dopo una giornata di lavoro.
La neve cadeva copiosa contro il vetro della macchina,
stancamente, silenziosa.
Mi sono fermato, ho considerato la sua traiettoria
obliqua, rallentata.
Ho provato amarezza e disincanto
per tutte quelle vite così fragili ed effimere
da essere visibili soltanto nell’ultimo metro
prima dell’asfalto.
Aspettami sottovento.
Sarà più facile passeggiare, o almeno camminare insieme.
Lo so, non l’abbiamo mai fatto noi due,
abbiam sempre faticato contro l’opinione comune,
e spesso, molto spesso, abbiamo perso.
Per cui adesso è come camuffarci,
come inventarci daccapo, così, senza ombrello,
senza impermeabile,
tenendoci per mano tra i giardini a Notre Dame.
La dimensione della perdita, poesie 2002-2016.
Crocetti Editore, Milano 2016
