“Stanze di un matrimonio”, di Hans Raimund (Editore Mobydick, Faenza, 1997, a cura di Augusto Debove; prefazione di Gabriella Rovagnati), è un autoritratto. Compiuto, fiammingo. Una di quelle tele ampie, scure, sacrali, dai colori contrastati, pastosi, stagionali.
L’interno di un amore, di quelli che valgono una vita, che stanno al posto del mondo.
A differenza che in altri passaggi poetici, in cui il poeta focalizza e dettaglia la sua casa di Vienna o quella in campagna (Fuggiasco ma con amore, scritti anche su Trieste; Villeggiante a lungo termine; Ventriloqui viennesi), qui la casa in se stessa, l’ambiente domestico reale, non è l’essenziale, poiché il mondo si risolve nell’immaginario di un matrimonio, in ciò che succede nella dimensione delle relazioni, come nel film di Bergman “Sussurri e grida”. In questa pellicola di Raimund, le biografie si intrecciano in una storia che dura da vent’anni; i conti si fanno nella rievocazione narrativa, e il conto è “in pari / Ne è valsa la pena” (“Indebitati fino al collo”); torti e ragioni, rotture e riparazioni si susseguono come in una partita silenziosa e infinita di scacchi.
Nell’aria c’è odore di Schubert, di piani e forti che incedon burrascosi: “Davvero ho un buon orecchio per il Piano Sempre / Il Crescendo graduale con ostinati Sforzandi sincopati / Fino al controllato Forte – inafferrando – Il tre-effe Fortissimo che si rovescia / Nel Piano subito – très doux avec langueur -… così / Seccamente contornato senza pedale” (“…La scarsità delle tue parole”); sequenze e sequele di ambizioni frenate dalla vergogna, dalla pigrizia, dalla colpa.
Qui, il fuori non fa’ che da sfondo alla relazione d’amore, benché questo paesaggio sia animato, sgargiante e rado come le doline. Come Duino, il suo porto, la sua bora che importa odore di salsedine e “un gusto” di nafta, oltreché di pioggia e di erbe. Oltre la finestra, oltre, ci sono “i soli gialli / Dal cuore nero pesanti sullo stelo…” (COS’ALTRO CI RESTA”); c’è il rosso d’una rosa che permane alle stagioni: “E quando il gelo della notte / La vita delle piante già da un pezzo / Ha ucciso risplendono ancora sui pallidi / Scheletrici secchi rami i tuoi frutti vermigli” (“TU SEI COME UNA ROSA”); c’è il verde d’una donna tutta “Verde dalla testa ai piedi così da parte a parte / Verde è tutto di te intorno a te indosso a te / Verde il Paradiso di verde diaspro / Dicono il trono del nostro Dio” (“Il leone Verde”); ci sono tutti i colori di un arabesco composto con cura, dall’interno, non quelli di un arcobaleno, più naif e immediato, ma quelli ricostruiti sulla tela dal pittore, guardando di fuori, rifacendo una natura mai stata propizia o madre.
E sopra, sopra i vetri delle finestre, sopra tutto, un vai e vieni di stagioni rapide, di nubi minacciose, sconforto ed euforia, l’inverno che ricorda ciò che rimane della vita; l’estate che va riacchiappata, perché sta fuggendo.
In questo autoritratto, la vita è dentro; non si compone da congiunture esistenziali; si anima del proprio pulsare affettivo. La casa, la stanza, sono ferme; eppure “Il contatto di occhi orecchie naso mani piedi / Con la persona della casa: i muri che respirano / I pavimenti di legno scricchiolanti gli odorosi / Di cera d’api cassettoni l’armadio tutt’intorno / Di papaveri pinto e dentro / Niente i bicchieri pazienti i piatti sulle mensole / Il fuoco di giornali umidi e ciocchi / Di faggio il calore che così profuma…” (“Di qua non passa mai nessuno”).
Dentro, al centro della tela, c’è il tavolo grande, ch’è insieme tavolo e letto, altare e scrittoio. Luogo della relazione tra lui e lei, della prigionia di lui con lei, perché a quel tavolo si resta seduti; è uno spazio di libertà, perché su quel tavolo regna il disordine, si affastellano i ricordi, i racconti, le risate, le rotture; uva, mele, cioccolato, rotocalchi, funghi porcini: tutto ciò che lui porta da fuori e che lei “mangia finché non s’addormenta”; tutto ciò che lei raccoglie per lui e per loro. E allora, “Che cosa può la mia per giunta solo/ Libresca piccola Ars Amandi contro / tre chili di porcini?” (“NON CACCIATRICE RACCOGLITRICE SEI”); di fronte al raccolto, alla primavera, al mondo, ai frutti, ai fiori colorati e odorosi?
In queste “stanze di un matrimonio”, il tavolo centrale, sacrale, è avvolto dal silenzio, da un velo palpabile; il silenzio che precede una schermaglia, una separazione; quello che segue una conversazione; l’ironia tagliente, il desiderio non condiviso, non raccolto, rimasto nell’aria, sui porcini; la riflessione fugace su quanto abbiamo vissuto – quasi fosse un merito, un fatto di tenacia e non anche questione di fortuna – o quanto ci rimane. Luce di una candela che si consuma o, addirittura, Lei spegne prematura, lasciandoli al buio: ”Vent’anni! LA NOSTRA CANDELA / brucia ancora! – È quasi sempre bruciata / Da una parte sola… […] Tu / disturbato leone nella tua / Pace con forza vi ponesti / Fine […] Spegnesti / Tra due dita bagnate di pianto / Una delle due fiamme” (“Variazione I”).
Lui e lei, intorno al tavolo. Insieme.
È questo l’autoritratto, lui e lei: che poi è uno. È lui, ritratto in lei, “l’uno con l’altro”, “l’uno nell’altro”. Come nel Caravaggio, la luce grigiastra del Carso (della coscienza) attraversa le grate e raggiunge Franziska, metà del suo viso, ne illumina il profilo; un chiaroscuro di donna ch’è insieme il doppio di lui e la metà di lei; l’uno e l’altra, di fronte; lui di fronte a lei: Franzi, “leone” o “elefante”; Hans, “mosca” o “chiocciola”; lei truccata, arruffata, contrastata: un parlare pacato che all’improvviso ti grida contro: “gemiti grida scalpiti furia / Stranamente domate d’un tratto abbassate al minimo / A singhiozzi sospiri immobilità silenzio… “ (“…La scarsità delle tue parole”). Lui dimesso, accanto a lei, rifiutato, abituato al rifiuto. Raccoglie l’ombra, al massimo, “come Nabokov raccoglieva farfalle”. Lei, reale, concreta, in presa diretta; gesti e smorfie da “bambina affaccendata”. Lui riflesso, lento, allenato a “schivare al momento giusto una manciata / Di prese a rovescio di finte preparate allo specchio…” (“Da pazzi stare attaccati l’uno all’altra cos’”)! Lui che ama il vecchio, gli antenati, le nozze d’argento “Ti concedo queste pause volentieri / Dovunque io viaggi viaggio sempre / A casa da te… Tu ami il vecchio l’antico / Gli antenati le nozze d’argento d’oro / Le elegie di Marienbad i pranzi / Su ben apparecchiate tavole… cerimoniale / Vuoto ormai di senso ma ti dà sicurezza” (È solo una questione di ore”); un cerimoniale vuoto che pure da’ sicurezza, per quanto velato di scetticismo e disincanto: “Il fiore senso per me non è mai sbocciato”. S’è invece racchiuso e vissuto all’interno di lei, nel suo bocciòlo, nel suo fiorire tenace di rosa che non si “strappa dal suolo”, che resiste all’inverno del “gelo” (“Tu sei come una rosa”). Eppure, l’ombra nella quale lui sta è il vero suo posto: dietro di lei, dietro la porta, dietro la finestra, dietro la frontiera, lo schermo, lo scrittoio, dietro la nostalgia, del padre, di Vienna, la carriera da musicista. Il posto del desiderio, riposto nell’altra, nell’amata, da cui dipende, quella che da più di vent’anni sta lì da testimone di ciò che lui non sa, non osa sognare o dire. Il posto dell’ombra, affianco a lei.
È il posto della scrittura, dove l’alterità si ricompone senza negare la differenza: “La confidenza con te sempre ancor straniera / L’intima conoscenza dell’altra faccia / Nell’esserci di ogni giorno…” (CON TE AMORE NON è STATO).
La poesia permette di cogliere l’amore al di là dell’apparenza, “sentire il segreto dietro l’assenza di segreto”. La stanza della poesia permette “di “Presagire (non sapere) la realtà dell’apparenza / Di essere l’uno nell’altro, protetti per un poco / E non nei secoli dei secoli…” (Ibidem).
È questo, “Stanze di un matrimonio”.
Un autoritratto dell’altro. La raffigurazione di un amore che muta l’effimero dell’esistenza in verità e unicità. Il senso di un’esistenza ritrovata nella relazione, rinunciando alla difesa della propria individualità, “perché lei non ha nessun nome”.
“Tu sei tutta la metà di me. Mi permetti di essere, davvero”.
