Aiace


(Scena vuota. Buia. Appena una luce sulle cose e sulle azioni. Aiace è vestito bene, in abito scuro e cravatta. È deceduto appena un giorno prima – la sua morte è stata celebrata pubblicamente -, ma adesso è di nuovo in scena, presente. È steso su una poltrona, di tre quarti rispetto al pubblico. Ascolta. L’altro, Ulisse, è sopraffatto dalle emozioni per questo ritorno dell’amico. Si muove lentamente, comincia a parlare rivolgendosi all’altro e chiamandolo indifferentemente con l’uno o l’altro dei suoi due nomi: Aiace/Alfonso. Musiche diverse accompagnano o intervallano il monologo.)



Vieni entra accomodati,
sei così bello con quell’abito nero con cui ti abbiam vestito
la cravatta sì elegante, quegli occhi azzurro mare,
e quel viso sorridente e così bello…
A quest’ora del giorno, in quest’ora di fine marzo,
la pioggia cade lentamente,
come riflettendo sul dolore capitato.
Gocce di cristallo rimangono, appese alle ringhiere,
formando un lampadario di case aristocratiche
in cui anche la morte appare affascinante.
Vieni, vieni dentro, ritorna,
ho bisogno del tuo coraggio che m’ha sempre consolato,
quando si lottava tra bande rivali
o quando accadeva di scendere in cantina
a prendere dell’olio o del vino, una forbice da pota,
una panca, e i ragni, sospesi per un piede,
ci attendevano sul varco per prenderci in giro…
Allora ti afferravo per il braccio perché m’ascoltassi
“sbrighiati Alfò, tuo padre ci aspetta”.
Ma in fondo era lo sguardo a rendermi sereno,
non la guapparia con cui mostravi il petto.
Oh, mio dolce fratello bellissimo e forte e buono,
coraggioso e aitante, sei tornato meno male!
Che spavento!

Qui da noi, il cielo promette l’estate.
Il primo mattino si tinge di topazio, di grano,
la bruma sottile ci chiude le palpebre, portandoci nel sogno,
di fronte a quel mare lungo il quale vanno i bimbi
sui gonfiabili a giocare,
sul balcone di Vieste dove più volte ci siamo svegliati
felici di stare insieme, di stare vivi a goderci l’estate,
spaccando l’anguria, succhiando amarena,
facendo colazione con l’avena dei biscotti,
e quella cremacaffè che tu preparavi con fare da generale…
Quanto mi piacevano quei giorni d’estate!
E come sono contento che tu sia tornato,
meno male! Che spavento!

L’altro giorno eravamo insieme – ricordi?…
…il cardiologo, il buio, l’ecografo.
C’era silenzio, avevi paura ma stavi attento.
Il giudice temeva che tu stessi male,
che l’attesa tua di vita fosse minima.
Sembravi spaventato da quell’oscuro male
che voleva sfottere te, il prode, l’impavido,
l’amico più forte tra noi tutti,
come una mosca sull’occhio di Zeus seminatore di fulmini,
ignara del potere di quel dio.
Allora t’ho afferrato con lo sguardo, come si usava da bambini
quando uno dei due scivolava in un pozzo
e l’altro l’acchiappava per la mano.
Ti ho portato di nuovo in superficie, alla luce, alla speranza.
Fammi posto – Alfò – sul lettino,
c’è da battersi, e noi ci batteremo,
c’è da viaggiare e noi lontano andremo, pure su Marte,
per farci curare.
Non spaventarti, ci sono e ci sarò, come sempre ci son stato.
D’altronde, siamo stati inseparabili
nelle nostre estati ad Ascoli – ricordi? –
Di mattina, stavo a spiare tra i cannilli quando chiamarti,
e tu, già pronto alla battaglia – scarpette, racchetta,
e la fionda immancabile –
aprivi la porta al mio richiamo, col sorriso così largo
– Ciao Enzù, jemeccinne -.
Eppure stavolta. Tanti anni più tardi, hai sorriso di nuovo.
Il tuo viso s’è disteso; ho rivisto quello sguardo
del fanciullo sulla porta, pronto a lottare.
Un raggio di sole ha colorato le tue guance,
appena filtrato dalle persiane dell’ambulatorio;
la stanza intera s’è riaccesa di vita,
il cuore ha rallentato, potendo abbandonarsi…
Siamo usciti dall’ospedale, che felici!
Abbiamo raggiunto i bambini che aspettavano impazienti
su un bel prato, a prometterci le stelle
– ciao Enzù, non devo dirti niente, ti chiamo per telefono -.
Anch’io son ripartito, nel cuore la dolcezza di una festa,
una comunione, la primavera
ché il tempo della vita è sempre più breve dell’amicizia,
e forse per questo gli amici muoiono presto,
potendo affidare all’amico le cose più belle di sé stesso,
perché l’amico ha il tempo lungo che la morte non ha.

E noi, di tempo ne abbiamo avuto.
Ci siamo detti amici quando il nome più giusto era fratello
compagno, amore, insieme fin dalla nascita,
gli stessi calzoncini, la stessa racchetta, la stessa partita.
Come si fa ad elencare tutte le foglie di un pioppo,
tutti i petali di un di una magnolia;
come si fa ad assemblare le perle di una collana,
tutti i fatti, che abbiamo vissuto, Alfò, – ti ricordi quella volta?
Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi…
e appena abbasso gli occhi,
mentre cammino per strada o mi siedo sul divano,
risento quella voce dell’autista che invitava a sbrigarsi
– “Amma chiude li porte, stem’ partenn” -;
rivedo noi due fieri, nel primo mattino, seduti vicini nel pulmann
gioiosi di partire per Foggia a comprare una racchetta,
oppure da Leone, per scegliere il binocolo
con cui scrutare i Dauni dalla nostra capanna sopra Pompei.
Dai finestrini, le case sfilavano una dopo l’altra
– quelle rosse, cantoniere, così belle nel loro abbandono,
quasi fossero papaveri issati nel grano –
insieme a quei luoghi che avrebbero segnato le nostre giornate
da uaglioni impertinenti: la jumara, dove andavamo a pescare
qualche pesce d’argento, o meglio a fare finta di pescare,
perché la gioia, la vera gioia è giocare,
schizzarsi con l’acqua, tirarsi di pietre o pallonate,
raccontare le gesta di noi futuri eroi:
– “Enzù, ieri mi sono fidanzato con la più bella di tutta Foggia,
madonna mia, non ti posso dire… e che menne! -.
E noi altri che invidia! Chi l’aveva mai vista una ragazza,
se non in qualche processione patronale,
quando litigavamo per stabilire chi dovesse portare
la Croce o la navetta… Ti ricordi, Alfò?

Vedi, ci provo testardamente, ad assemblare una dopo l’altra
le cose, – le pietre, le fionde, le palline, le musicassette,
la nostra amata Vieste, la nostra Margherita,
dove ogni volta l’estate finisce e comincia.
Qui, su questo tavolo di legno che equivale alla terra,
c’è steso il mondo, il nostro mondo e il nostro tempo,
e a me tocca la memoria,
come l’ultimo archivista che sistemi i suoi papiri,
sperando che un bel giorno qualcuno s’appassioni.
Io sono l’archivista, che prova a unire i pezzi,
come temendo di disperder l’essenziale
– un segnale, una chiave, la chiusura di una collana –
sebbene, lo sai, qualcosa sfugge sempre,
sottraendosi alla nostra memoria
prima ancora che alla nostra comprensione,
e noi dobbiamo benedirla questa perdita, che permette
di colmare la memoria, di unire i pezzi,
di inventare o raccontare le storie più pazze, le più sciocche…,
– questa foto, la vedi, sul pavimento? –
Eri appena diventato “lupetto” e iniziammo a girare
per i borghi della daunia con gli Scouts.
Ti piaceva raccontare quella volta in cui a Orsara
ti eri prestato a uno di quegli scherzi goliardici
che segnano la vita dei più forti:
mettere il dentifricio sulla bocca del più scemo
di modo che al mattino lo sfortunato non potesse
nemmeno guardarsi allo specchio, tant’era gonfiato
il suo muso da “braciola”!
Oppure quando, diec’anni più tardi, da militare,
hai trovato un Maggiore che voleva umiliarti,
e l’hai minacciato di prenderlo a calci,
sprezzante come sempre di rischi e conseguenze!
Storie come queste hanno forgiato il tuo mito di impavido,
Aiace, il più forte, prima ancora che la trama
dei nostri racconti e le nostre esistenze.

Per noi, l’infanzia è stata una sfida per essere stimati
dai padri; una sfida continua per esser memorabili.
Si facevano gare di calcio sull’asfalto,
giochi violenti con le fionde e con le frecce;
si affilavano canne sulle Murge, si facevano radiette in terra cotta;
si sparavano battute a cent’all’ora sul portone delle suore;
si alzavano aquiloni di carta velina comprata da P’trina;
si scalava la facciata del convento per salire sopra il tetto
e star fermi in equilibrio.
Oddio, Alfò,
l’abbiamo fatto davvero? Siamo stati così crudi in battaglia?
Abbiamo preso a fiondate i nemici del nascondino?
Abbiamo accoppato i lampioni di Santa Maria?
Abbiamo sfasciato le finestre del Santuario sulla via del Cimitero?
O forse questa è storia,
quella che abbiamo intessuto e narrato per noi due,
davanti alla legna che crepita in casa?
La storia da contare agli amici,
perché nulla è più bello del racconto di Aiace e Ulisse,
di queste pages d’Odyssée che un giorno avremmo letto.

Ecco lo vedi, ci casco ancora, sto ancora ricordando.
Il mare è negli occhi, nello stomaco.
Respira e si calma, ruggisce, minaccia di scagliare cavalloni,
ma noi siamo bambini che altro non aspettano a tuffarcisi dentro.
Sto ancora cedendo alla tentazione del flusso ininterrotto,
dell’album senza fine;
non posso pensare che tu te ne vada,
proprio adesso che sei tornato dalla morte,
proprio adesso che siamo qui, con te, a piangere di gioia….
Lo so, ti stiamo stancando coi nostri ricordi,
come fanno i vecchi che giocano a carte,
e ripetono le cose cento volte…
D’altronde, sei questo tu, la nostra memoria, il nostro sorriso.
Noi vogliamo toccarti, fare quello che non facciamo mai,
varcare la soglia del desiderio, adesso che sei qui, vivo,
in mezzo a noi;
varcare la soglia che abbiamo superato solo quando
ti abbiamo lavato e vestito da morto;
solo allora ci siamo concessi di accarezzarti,
scoprire ogni tua piega della pelle delle mani delle cosce,
chissà te ne sei accorto, malandrino!
Sempre pronto a girarti per le donne…; Ah mostr’!
Figurati se non le hai sentite le nostre carezze,
‘ste mani impertinenti con cui ti abbiam vestito
con l’abito buono da cerimonie – il matrimonio, la comunione,
la prima casa, la prima guerra, la prima morte -.

Ora quell’abito voglio cambiarlo;
io voglio, Letizia vuole, Giulia tua figlia e Matteo,
spogliarti con la stessa cura con cui ti abbiam vestito
perché sei vivo e sei tornato, e noi ti guardiamo
dal cristallo delle lacrime che più non arrestiamo;
Io voglio, noi vogliamo
mangiarti di piacere, mangiarti avidamente
succhiare il tuo bel nettare di miele di sorriso,
sfamarci della forza del coraggio, mangiarti e trattenerti.

Ecco, vieni tra noi, sei tornato dopo un giorno dalla morte.
Chissà che cos’hai visto, se hai avuto paura?
Potevi respirare? Il buio t’ha angosciato?
E tutto quel silenzio? Hai parlato con tuo padre?
La formica s’è infilata nei calzoni? –
Chissà se ci sentivi gridare e disperarci, di là dello stagno
con cui chiudiamo i morti, pensando che quelli siano immobili.
E invece se la ridono! Se ne vanno, quelli,
senza rumore, come lo spirito, il desiderio,
gironzano pei campi, s’aggrappano ai ciliegi, ne fanno scorpacciate,
e cantan le canzoni che ripassano alla radio,
si sfottono coi figli, che sembrano felici,
si godono la notte tra le cosce delle donne!
Ah, i morti! Leggeri e immorali,
violini, violoncelli, rondini a primavera, irrequieti,
proprio come noi, che felici correvamo
sulle sponde della Villa,
stendendo le mani per toccare la ringhiera,
o afferrare nel buio qualcuna delle lucciole
nascenti e misteriose, che sfiorano in silenzio,
levandoci al segreto di un mondo sconosciuto.

Lo vedi? Parlo dei morti come dei vivi.
Ma tu, vivo, sei sempre stato, nel senso di vitale, vivace, gioviale
per noi che ti seguiamo per vigne e per mare.

Sono sicuro che hai sentito, mentre piangevamo
davanti alla tua tomba, angosciati dalla mancanza,
perché sappilo, amico mio, la notte della tua morte
anche noi siamo morti, ci siamo perduti.
Il nostro viso si è fatto di cenere,
le nostre orbite più scure, le sclere sono iniettate,
la voce era un singhiozzo col quale abbiam pregato.
D’improvviso, la casa s’è sbriciolata,
i mattoni rossi di Pompei sono scomparsi,
i pini freschi del Boschetto non c’erano più, come dissolti,
e ognuno dei passanti sembrava un sacerdote da interrogare.
Allora sono corso a cercare la mia casa;
ho gridato per vedere se sotto le macerie qualcuno c’era
– mio padre, mia zia, il mio barboncino -,
ma niente, tutto sparito. Sono corso a chiamare te,
ma lì dov’era il tuo cortile s’era messo un venditore di fumo,
col suo banchetto di ferro tagliente,
la sua stufa di ghisa, e i pezzi di legna spaccati a cuneo,
tra cui potevi scegliere l’essenza che volevi,
ulivo o castagno, noce o mandorlo, o pino.

Che senso avrebbe avuto tornare più ad Ascoli?
Cosa avremmo festeggiato?
Di cos’altro avremmo sorriso? Con chi altri avremmo giocato?
Per questo ti abbiamo chiamato, ognuno con la sua voce,
col proprio bisogno inespresso che tu solo puoi colmare,
da allenatore, commercialista, da contadino,
da padre, da figlio, da marito, da amico.

Sono sicuro che tutto abbia sentito,
che in fondo ti sia piaciuto vedere quella folla
assiepata attorno alla bara,
tutti quegli uomini stipati nella piazza che t’acclamava,
gli applausi al tuo passaggio, come fuochi d’artificio.
C’eran tutti al tuo funerale, ammiratori e invidiosi.
Mani giunte nella preghiera e mani strette come tenaglie,
mani chiuse nelle tasche, intrecciate le une alle altre.
Finalmente sei tornato, adesso,
o almeno così sembra a guardare il tuo sorriso, che pare sazio,
le tue scarpe pien di sabbia, e il coltello ancora rosso per l’anguria…
Mettiti comodo qui, in mezzo a noi,
su questa spiaggia di Margherita dove abbiamo trascorso
le ore più liete.
Ci son sempre i tuoi figli che corrono nell mare
e ti chiamano a giocare con loro;
c’è sempre Enzuccio che fa il mattacchione col cellulare
sul “sacro mare di Margherita”;
e poi ci sei tu, che aspetti pigramente di alzarti dalla sdraio,
di aggiungerti in acqua a noi che ti invochiamo,
un poco sbadigliando, atteggiandoti a duce…

Mettiti comodo dunque. Adesso lo sai,
passare per la morte, anche se un giorno, fa spavento.
Non sappiamo cosa pensare, non sappiamo cosa dirai.
Forse abbiamo paura che tu ci dica la verità sulla tua morte,
che in fondo quella morte tu l’abbia preparata –
per vedere l’effetto che fa, e se t’abbiamo rimpianto -,
o che adesso tu dica che vuoi restare morto, finalmente
comodo nei nostri cuori, nei ricordi, nei pensieri,
che tu preferisca sentire il desiderio che proviamo di te,
filtrato da un velo di marmo, e quindi più vero.
E poi temiamo che tu dica la verità sulla vita,
sul ritorno alla vita, e su di noi.
Abbiamo paura che tu ci riveli chi siamo veramente,
non dico per te – almeno quello, speriamo… -,
ma proprio le verità nascoste dell’anima,
se facciamo germogliare il grano o seccarlo,
se siamo veri o falsi, creativi o banali,
se l’ombra che ci segue è più lunga della nostra morale;
abbiamo paura della vita e della verità.
Diciamo di volerti tra di noi, parliamo del mare, di vacanze,
di passione, di viaggi e di progetti per i figli,
ma in fondo abbiamo paura di riaverti in carne ed ossa.
Non siamo sicuri del nostro desiderio, della sua tenuta.
Non siamo sicuri di avere qualcosa di importante nel cuore,
un notturno che appassioni, una rovescio in Coppa Davis,
uno stretto di Barents d’attraversare.
Abbiamo paura della vita.
Temiamo che tu ci obblighi a vedere ciò che rimuoviamo,
il nostro amore, il nostro desiderio,
ovvero la mancanza dell’uno e dell’altro.
Forse preferiamo che tu sia ricordo o allucinazione,
quand’anche non l’ammettiamo.

La rimozione ci protegge dall’angoscia della perdita,
anche se, in tal caso, la vita diventa il cammino di un bruco
costretto a strisciare,
col rischio che una scarpa qualunque ci calpesti,
col rischio di averlo sognato soltanto, il volo delle lucciole.
La trasformazione mette paura.
Tu invece sei tornato, il giro l’hai fatto,
eri un uomo e sei un angelo, eri corpo e sei alito.
Eri il tempo di un orologio dimenticato,
e adesso sei l’affetto che gira, che gira e ritorna.
Sei il vuoto che si empie di acqua sorgiva, del bene;
sei la notte che fa giorno, sei sole, sei luce.
Sei il tramonto e l’aurora, le stagioni che succedono,
l’inverno e la primavera, il buio, la vita vera.
Per questo stenditi, accomodati, lasciati andare.
Vogliamo sapere dell’ignoto che comporti;
vogliamo sapere cos’hai visto della morte,
e apprendere a pensarla, apprestarci a incontrarla.

Lontano, un violoncello suona l’hamabdil,
le note ci struggono e ci esaltano,
ci rimettono in contatto col dolore e la speranza
che in fondo nascondiamo, di perderti e di perderci.
Che tu sia vivo o morto, carne o spirito, delirio o realtà
non importa adesso. Non più come prima.
Ciò che conta è che tu resti, che tu non vada via,
che in questo girotondo di giostra per ciascuno, tu ci sia.
Cosa vorrebbe tua figlia?
Forse vorrebbe suo padre vestito da principe,
con cui mangiar la pizza dopo scuola,
a cui svelare tutto del primo bacio, del primo figlio.
E cosa vorrebbe tuo figlio?
Forse vorrebbe che tu restassi vicino a lui, davanti alla tele,
a guardare la Domenica Sportiva,
sei il suo migliore amico, l’allenatore, l’istruttore.
E cosa vuole tua moglie? Lei ti ama, ti ama ancora –
per quanto la perdita fissa sempre il rovescio
dei nostri sentimenti, l’invidia, la rabbia,
trasformandoli in dipinto mirabile, in pala d’altare -;
lei ti vuole qui ed ora, carne e ossa,
vorrebbe che tu giacessi con lei tutta la notte
sotto le lenzuola di cotone profumate con cui c’hai rivelato
il passaggio tuo nel cielo;
vorrebbe la portassi più avanti nel tempo,
in una di quelle storie mitiche che tu leggevi sempre,
quella in cui Zeus riconosce gli amanti
e li trasforma in due alberi, Filemone e Bauci.

E io, amico mio, fratello, mio cuore, mio ricordo,
io voglio che tu torni.
Voglio che tu faccia la magía più grande del tuo repertorio,
portare la poesia sugli occhi miei costretti a guardare nel nulla.
Voglio vedere quel nastro che registrammo vent’anni fa,
quando la sorte ci mise tra le braccia un filosofo napoletano,
e con lui ci avventurammo in quell’estate sul Gargano!
Voglio rivedere quel nastro di vent’anni, le facce di giovani
appena sbocciati, incantati,
le ali di piuma ancora spiegate sulle spalle;
anzi, voglio uscire da quel nastro e viverla di nuovo,
quell’estate d’amore e d’amicizia,
tra la zuppa di pesce e la chianca amara,
la cena etnica e il Vela Velo,
tra l’abbraccio dell’amicizia e la coscienza
che qualcosa si stava compiendo.

Vorrei che in questo giorno tu mi portassi in quell’infanzia
nella quale ho attraversato il cielo dell’incanto,
dell’attesa senza angoscia, dell’allegria.
Anche se l’infanzia è come la morte – non trovi? -,
una discesa nel buio di se stessi,
dal quale non torni più indietro, non torni lo stesso,
o forse peggio della morte, perché lo sai, Alfò,
nulla è più difficile da vivere che la profondità,
nulla è più del mare, difficile da traversare.
Tutte le corse, le sfide in bicicletta, le fionde, le pallonate
“addret’ a l’edifizio”,
i gavettoni ai fidanzati, le partite “a palline” sotto le scale,
tutto questo, le strade di Ascoli, questo caldo di grilli, d’estate,
tutta quest’infanzia per noi è una condanna e una delizia.
Ci ha abituati a viaggiare a ritroso, a tornare indietro,
a desiderare l’imponderabile di un bacio, di un figlio;
ci ha obbligati a vivere due vite parallele,
ad essere padri e scapestrati, compagni e amanti,
dottori e dissennati.
Ci ha reso tristi nella felicità, felici nella tristezza,
capaci di nascondere e scoprire due metà di una mela
pronta a spaccarsi, pronta a riunirsi.
La tua amicizia per me è quest’infanzia, lo è ancora.
Tutto ciò che colora di bello i nostri giorni.
Tutto ciò che dà senso ai nostri progetti,
agli album, agli impegni.
E se a volte ho pensato, da Ulisse, che io solo potessi
bastare per tutto,
tu ci sei stato, mio Aiace, a combattere le battaglie
che da solo avrei perduto:
riprenderci Elène, la nostra regina di Sparta,
rimetterla in viaggio sulle navi per la Grecia,
e tornarcene insieme per Vieste e Margherita,
Sorrento e Positano, per Napoli e per Ascoli.

Ho parlato troppo? Ti abbiamo stancato?
Perdonaci, avevamo bisogno della tua morte
perché le nostre emozioni, i nostri amori diventassero autentici;
avevamo bisogno di perderti per ritrovarci.
Avevamo bisogno del tuo passaggio per l’ignoto
per distinguere il vero dal falso,
l’amore promesso da quello mantenuto.
Avevamo bisogno della tua morte per prepararci a una vita più ricca,
e credere all’invisibile, affidarsi alla speranza.
Così, la pena profonda della scomparsa diventa sensata.
La tua mancanza diventa presenza, scavata in noi stessi,
togliendo parole al silenzio, lasciando le poche che contano
– l’amore, la rivoluzione, la poesia –
parole che a pronunciarle riecheggiano il tuo nome e la tua voce.
Avevamo bisogno della tua morte per sapere che questa discesa
nel buio l’avresti fatta per primo,
perché tu sei il più forte. Sei fiero e coraggioso.
Sei vero. Sei Aiace.
Il primo nella sfida, nella battaglia.
Il primo da chiamare se siamo sconfitti.
Il primo che accorre, il primo che soccorre.
Chi poteva partire per primo, se non tu?
Il tuo viaggio da esploratore ci ha donato la sicurezza
che a casa si possa tornare.

Se tu ci aspetti, non viene paura.
Se tu l’incontri, la morte, nessuno la incontra
Nessuno si spaventa, nessun’altro.
Il tuo conto è preciso. La tua mano è da fabbro.
Se tu incontri l’ignoto, allora l’ignoto è vissuto e sconfitto.

Per questo abbiamo bisogno di te, tangibile o impalpabile.
Potrai andare o restare, morire o rivivere.
Essere corpo o delirio.
L’importante è che tu ci sia, qui, con noi, tra di noi.
L’importante è poterti pregare, seguire, aspettare,
sentire le tue storie di guerre, di eroi,
di feste, di matrimoni, il tuo vino, il tuo olio, la vigna.
Sei il padre che sostiene e rasserena,
il fratello e l’amico che affianca e si siede.
Sei la mano che schiude il piacere,
il piede che segna il sentiero che ancora non c’era.

Adesso che sei morto una volta, e tornato,
non c’è nulla che possa sparire e confonderci. Non più.
Noi ti vogliamo, ti amiamo.
Vogliamo sentirti in ogni dimensione del tempo e del sogno,
in ogni forma della materia.
Ti vogliamo presente, qui a fianco a noi, e poi dentro di noi,
raccontarti della prossima vacanza, del prossimo liceo,
della prossima vendemmia.
Vogliamo giocare con te, in ogni tempo.
Soprattutto, vogliamo sognare.

Vieni qui, resta, accomodati,
fatti baciare e poi stringere forte.
Vicini come siamo, dopo la morte, dopo il ritorno,
possiamo giocare seriamente.
Possiamo stare insieme tutti,
io, te, mogli, figli, amici, eroi, ricordi.

Ogni cosa che facciamo ci porta da te.
Ogni lettera che scriviamo per te
è una storia d’amore.
Adesso che invero ci sei,
resta con noi, qui, per sempre.




(Le luci si abbassano. La musica diventa un tango, una milonga. Gli altri personaggi del poema escono in scena, cominciano a ballare, insieme. Anche Aiace balla con loro, anche se non sai se lui sia un uomo in carne ed ossa o un semplice vestito di scena, un manichino. Sfumata la musica, si odono in sottofondo le voci degli amici, registrate tanti anni prima, su una spiaggia, forse a Margherita, in una calda giornata d’estate…)


per Alfonso Benedetto
Napoli, 25 marzo – 1 aprile 2022

Poemi d’amor perduto, di prossima pubblicazione

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