Entra, siediti, accomodati.
Così a lungo sei rimasta nel serraglio
ch’è quasi un miracolo vederti ancora viva.
Qui puoi sederti, e temere più niente.
Qui non ci sono più guerre tra maschi e femmine,
non più figli da crescere o madri da far vivere.
Non ci sono mariti da far schifo.
Tutto si è trasformato in questi anni, fuori di noi e dentro,
come se un cataclisma ci avesse trasmutati
al punto tale da averci ibridati.
D’altro canto, non è questo il destino di tutti?
Non è la metamorfosi – impensabile all’inizio -,
a cui siamo dannati?
Anche la tua mutazione è stata profonda,
mi pare, che quasi mi hai scioccato sulla porta,
quando sei arrivata.
Anche tu, amore mio.
Quando ti ho conosciuta mi presentasti subito,
una foto che mostrava Ifigenia,
una giovane bellissima e vera, così inquieta dietro la maschera,
e così allegra e ventenne fuori,
una soubrette televisiva tipo Carrà.
E come potevamo non incontrarci, noi, così simili
così destinati a ruotare attorno ai nostri tormenti,
alle nostre famiglie, al nostro asse?
Come potevano due stelle come noi non collidere?
Stelle, o forse satelliti dovrei dire,
perché non abbiamo mai avuto la dignità di corpi autonomi;
siamo stati vincolati alle nostre rivoluzioni,
tanto inutili quanto necessitate,
ai nostri pianeti familiari, così giganti e instabili
da esercitare su di noi un vincolo simbiotico.
E tu avevi già il tuo pianeta familiare,
quando ci conoscemmo.
Ricordo il tuo sguardo, la prima volta che arrivasti
da me in reparto.
Il tuo portamento sembrava quello di una sacerdotessa
segnata da anni di accudimento a una Dea.
Il tuo corpo era forgiato nel marmo,
una di quelle statue nella quali riconosci la perfezione
e la tristezza che c’erano prima, quando la statua era una bimba
e avrebbe potuto correre e gridare, gioire e amare… e invece,
eccola là, immobile, tenuta nel museo di una famiglia,
o forse in un tempio, vestita di quella fissità immota
che rende le statue e le donne, benché prive d’abiti,
più coperte e soffocate di una suora.
Malgrado quella posa compassata, in te riconoscevo i segni della vita,
una rianimazione possibile, purché fossi riuscito ad estrarti
da quel abito familiare che ti aveva pietrificata.
Così sei stata, per anni, triste, svalutata, confusa.
Dicevi di te stessa di essere brutta, ma gli uomini sbavavano;
dicevi di essere una tosta ribelle e scatenata,
ma dentro eri bloccata;
dicevi di amare i Philosophes, e Sartre e Simone,
ma dentro, dietro la foto coi capelli a caschetto
e lo sforzo di sorridere, avresti pianto, avresti invocato qualcuno
per fuggire lontano.
Ti rifugiavi in discoteca, in qualche angolo,
mentre le compagne di classe esibivano la propria giovanile
spudoratezza. Tu invece dormivi o ti dolevi, da sola,
nella sala da ballo.
Mio Dio, amore, com’eri severa con te stessa.
Dentro di te bollivano i desideri di una ragazza che s’affacci
alla bellezza, al desiderio, alla cultura,
ma a te tutto questo era interdetto.
Potevi soltanto correre in un angolo di casa e ascoltare Nevermind.
Potevi finger di ballare in discoteca, ma solo per guardare
da lontano, sopra un trespolo.
E quando un giovane inviato dal Fato era giunto per rapirti,
non hai potuto che innamorartene.
Così è successo. Davide ti aveva stregato, e tu ti sei lasciata
conquistare completamente al vostro amore, al suo desiderio.
Immagino i giorni felici, le corse per vederlo,
la tua passione per l’eroe che aveva sfidato la madre.
Immagino l’eccitazione e il desiderio di fare l’amore,
la prima volta, a casa sua. Ti eri vestita scegliendo con cura gli abiti,
gli stessi da togliere in fretta, da lanciare per aria non appena
la sua mano su quel letto così bello…
L’amore ti era apparso sotto una luce mai vista.
Lui era l’amore del primo giorno.
Era il corpo che si bagna, se solo ti guarda.
Tutto di lui ti attraeva,
quel modo di portare le spalle diritte, quel modo di parlarti
come si parla a una ragazza mentre si gioca su un ring
a tirar pugni per finta, per gioco, perché la sola verità
è che ti amava e tu l’amavi, e mai più avresti smesso.
Che bello quell’amore, luce di primavera, e che bello quel corpo,
quel legame reso forte dal desiderio.
Non fosse per l’adolescenza capricciosa che tutto confonde,
quell’arciere bellissimo l’avresti sposato.
Ma a quel tempo eri giovane
e ancora te stessa, diversa.
Lui cominciò a diventare bizarro, ad essere duro;
Tu cominciasti a essere isterica, a imporgli la tortura.
Le liti e i finti ricatti per farti rincorrere
erano il tuo grido d’aiuto perché non ti lasciasse.
Era troppo turbato, lui, per provare a comprenderti.
Eri troppo angosciata tu, per sfidare il divieto
e lasciarti afferrare.
I pensieri di una Dea vendicativa si insinuarono dentro di te
E tu cominciasti a mutare consistenza, diventando più dura.
La punizione doveva essere esemplare, perché la trasformazione
in sacerdotessa, e poi in statua, fosse accelerata e completa.
Gli occhi però ti furono lasciati,
per essere guardata e specchiarsi.
Così, quando arrivasti al Servizio nel quale lavoravo,
eri perfetta, fasciata di bianco, un esempio di compostezza.
E quanto ci ho messo per innamorarmi di te?
Poco, pochissimo, Chiara.
Eri seduta con la schiena vero l’ingresso del day hospital.
Di te vedevo soltanto la divisa, il caschetto,
biondo, ieratico, sixtheen. Nient’altro.
Non sentivo e non sapevo niente altro.
Ma gli occhi si muovono, col desiderio, si spostano,
ci vengono a cercare.
– Sei tu amore? Sei tornato? Sei proprio tu, mio Zeus?
Allora guardami, sono io, Chiara, la tu sposa,
Qui mi chiamano così, in questo tempo, in questo posto.
Mentre non c’eri, ho dovuto accettare di fare la brava;
Sono stata ubbidiente, ho fatto sport insieme a mio padre,
ho giaciuto con un uomo che non amo,
ho fatto l’infermiera per stare sempre a casa.
Perdonami amore, comprendimi.
Comprendi quanto è dura trasportare quella maschera di marmo
sulla faccia, per non vedere, per non baciare;
portare quel filo di ferro passato all’uncinetto tra le labbra,
infibulata, inibita, pietrificata.
Lo so che mi ami, lo vedo nei tuoi occhi che non mentono,
nella voce tua che trema, nelle lettere che scrivi.
Portami via di qui, senza preavviso, senza esitare.
Rapiscimi, non lasciarmi in questo gorgo di tristezza
in cui i lineamenti si vanno inaridendo.
Tirami fuori da queste sabbie in cui sono costretta.
Voglio viaggiare, sognare, correre e baciare;
voglio amare e desiderarti, essere amata e desiderata;
voglio spogliarmi, libera, esser presa,
voglio fare l’amore con te, per sempre.
Non so se il desiderio mi rimane, non so dentro di me
cos’è sepolto, ma portami via.
In cambio ti prometto la fedeltà, ti dono i miei occhi,
affinché tu possa guardare più a fondo la tua follia;
ti dono il mio corpo, affinché tu possa tradirlo e ritrovarti,
pure la giovinezza, ti dono,
così che tu possa arrivare all’infanzia, fino all’infanzia,
a una bimba, a una figlia, se solo giochiamo a quel gioco
del cavalluccio, uno-due-tre… – ricordi ?-,
quello in cui mi salti sulle spalle e finisci nel futuro
in cui tu scrivi di noi tutti, nostra figlia ci incanta col violoncello,
e io mi lascio trasportare tra le braccia, nelle vostre valigie,
ovunque vogliate -.
Così è stato.
Mi sono innamorato di te, di schiena, senza vederti,
perché il dolore, il tuo dolore bianco come una garza
volava nell’aria. Non avevo bisogno di comprenderlo dagli occhi.
Era antico il mio cercare gli abbracci spezzati, i cuori infranti.
Facevo il terapeuta, io; coglievo cocci di anfore rotte
e poi li rincollavo, ricomponevo la bellezza,
il loro valore, la loro unicità.
Tu eri il mio vaso François, che da sempre cercavo,
la giara della vigna in cui giocavo da bambino;
eri la bellezza e la rivoluzione anni ’70,
la libertà di pensiero, la cultura, l’impegno,
eri la Grecia, l’Italia, la Svezia.
Quando le tue colleghe ti avvertirono che ero arrivato
tu ti voltasti per presentarti, ma io ero già perso,
già preso da te…
Ti ho rapita come fa Zeus, camuffandosi da povero;
ti ho incantato con la lira di Apollo, con la poesia,
ti ho trascinato lontano da Aosta
come nessuno avrebbe fatto,
in quella casa in cui mai eri stata libera di essere e fare.
Essere filosofa, fare l’analista, a Siena, a Pisa, ovunque sia.
Ti ho portato a Roma, nella casa di Via Alessandria,
dove tutto è esploso, del nostro amore, del desiderio.
Mai più scorderò quei paesaggi assolati e folli
delle estati romane.
Ricordi mia stella? Ero stregato dalla tua bellezza.
Ero drogato. Non riuscivo a farne a meno.
La tua bocca mi chiamava a baciarti a perdifiato,
a esplorare quelle labbra così ampie e oscene.
Ci puòi far tutto con quelle labbra… – mi dicevano gli amici
di biliardo -, mentre io ti fissavo le cosce,
appena intraviste da quella gonna verde scuro,
E il culo, che si mostrava così tondo e sodo appena ti piegavi
maliziosa sul biliardo…
Quel culo mi drogava, mi consumava…
e la tua rosa, così bagnata, così pronta alla gioia…
Ricordi? I nostri viaggi per l’Italia, nella Tipo di mio padre?
Stavi seduta accanto a me, poggiata di schiena sulla spalla;
ti spogliavi completamente; ti coprivi le cosce col cappotto,
e io ti carezzavo per ore. Chilometri e chilometri,
orgasmo dopo orgasmo, ci guardavano dai camion, ci suovanavo
col clacson, ci fermava la Polizia, sorridendo di quell’amore sfrontato.
Ci perdevamo, in quei viaggi.
Sul tuo viso scendeva la pace e lo sfinimento, la gioia.
Avevamo percorso tutta l’Italia di notte,
le mie mani dentro te – ti prego amore, continua, non smettere,
ho voglia delle dita che mi cercano, mi trovano, mi appagano,
e io ero bagnato, con te, insieme a te,
disfatto, venuto, stordito…
Ricordi? La vedi quella foto lì, sul mobiletto?
Eravamo a piazza del Popolo, tra i giovani ribelli Girotondi.
Ci eravamo tuffati in quella mischia.
Avevo sul collo un fazzoletto annodato, color blu;
tu avevi messo un vestitino di cotone, smanicato, molto corto,
che lasciava intravvedere tutta la tua… bellezza;
a un certo punto ti ho sollevata su un muretto,
perché vedessi meglio il concerto della sera,
ed è stato uno spettacolo…
Mai potrò scordarlo! Non avevi messo le mutandine,
eri nuda e bagnata… ti ho sollevata, t’ho aperto le cosce
reggendoti da sotto, e mi son perso…
La tua viola era pazzesca, non volevo che baciarla e succhiarla.
Come d’altronde si faceva di sera e di mattina,
in ogni luogo, in ogni angolo del mondo…
Ricordi quel pomeriggio da zio Cosimo? Eravamo soli,
noi due, la moquette e il divano.
Ci eravamo desiderati con gli occhi, ci siamo rotolati per terra,
nudi ancor prima di spogliarci. Ti ho presa in braccio,
t’ho adagiata. Tu hai alzato le braccia dietro la testa,
perché fosse più chiaro che volevi essere presa…
Hai spalancato le ginocchia, io sono scivolato di sotto,
ti ho preso le cosce sulle spalle e ho cominciato baciarti,
poi son venuto sopra di te, dentro di te;
mi sono tolto, ho ripreso coi baci, col sesso, senza sfinimento,
perduto nella gioia della tua magnolia, così morbida e larga
che alla fine, per scherzare, l’abbiamo misurata!
Era il gioco di noi bimbi. Il sorriso della gioia…
Non avevo mai visto una rosa così vasta…
Abbiamo riso, un po’ ti sfottevo, larghissima e bagnata,
come l’inconsapevolezza e il desiderio di quegli anni,
come l’amore che ci univa e ci avrebbe unito,
come la felicità e il dolore di tutte le cose che avresti
causato e curato – figli, tradimenti, aborti, malattie – .
Ma il nostro amore era quel gioco,
io e te non facevamo che giocarlo tutto il tempo.
Ricordo Novelletto, un sogno memorabile portato al mio analista:
cercavo di entrare negli occhi di mia madre,
senza riuscirci; cadevo per terra e mi rotolavo a fare l’amore con te.
Era il modo di calmarci, di ritrovarci, di assicurarci che mai
t’avrei perduta o mi avresti perduto.
E quella volta – ricordi? – mi venne voglia di legarti
con lo spago sul tavolo di legno della sala.
Mi lasciavi fare, tu; ti lascivi trasportare nell’ignoto,
per amore, perché il divieto degli adulti era lontano,
Eri libera di gioire, di fumare, trasgredire…
Ti annodai i polsi e le caviglie ai piedi del tavolo,
perché restassi spalancata…; ti sollevai i lombi con un cuscino
e cominciai a carezzarti con le dita, seguendo la rima delle labbra,
scendendo nelle pieghe, cercandoti il piacere,
coprendoti di baci, di amplessi, dovunque…
Tutto di te sapeva di sesso, di noi, del nostro amore…
Eravamo sfiniti e diveriti, eravamo innamorati.
Mi perdonavi la mia vita parallela con un l’altra,
perché era chiaro che ero perso per te, per il tuo corpo,
immerso nei tuoi occhi profondi, nelle labbra;
con te dappertutto, sapevi che sarei rimasto,
che il desiderio, quello, era tuo soltanto.
Mio dio, amore, quanto è lunga la nostra storia,
quanta passione ci ho messo per amarti,
quanta passione e dedizione ci ho messo per tenermi.
Ero sempre dislocato, sempre lontano, da qualche parte.
ma tu mi prendevi la faccia tra le mani,
mi scuotevi da me stesso, mi avvicinavi al tuo viso,
mi sorridevi. Mi baciavi a lungo. E allora, prestissimo
tornavo da te, con te, dentro di te;
tornavo tuo, tornava la passione, il sesso, il godimento.
Ci hai messo il corpo e l’anima per stare insieme,
per tenere uniti i pezzi, miei e tuoi;
c’è riuscito il tuo corpo, desiderio che permane,
che trascende tutti e tutto.
È stata dura, la nostra storia, difficile.
Certe volte ci siamo persi nella foresta; c’è venuta paura
che saremmo rimasti soli, che la notte ci avrebbe divisi,
che il freddo, i cinghiali, i lupi, i fantasmi
ci avrebbero ammazzati, di nuovo…
Credevamo che avremmo pagato per la gioia di quegli anni
come una colpa da espiare, senza sapere che indietro si torna
sempre, che il tempo è ciclico, è curvo, è perverso;
che l’amore ha il disamore,
che il desiderio è il respiro della vita che sale e scende,
che apre e chiude le porte del corpo, lo spazio per l’altro,
e occorre traversarlo questo mistero,
occorre accettarlo, magari scrivendone,
magari portandosi avanti col viaggio.
Ti ho scritto mille volte coi testi delle canzoni;
Ho lasciato mille lettere di te nella mani degli amici;
ho messo la vita in poesia insieme a te, spesso per te,
malgrado le cesure, le intermittenze.
una sola lunghissima poesia d’amore.
Chiara, mia stella, con te ho viaggiato fino al limite estremo
di mettere al mondo una figlia, Elène,
di scrivere l’intera vita di una regina.
Ma questa è un’altra storia, di cui riparleremo, se vuoi.
Adesso ci sei tu, invece, solo tu.
Per questo ti dico, entra, siediti, accomodati.
Non puoi non riconoscermi, sono l’uomo che ti ha colta,
sono il bimbo con cui giocavi a cavalluccio,…
Siamo gli aquiloni volati lontano,
per fare l’analista, tu, e curare il dolore di tua madre e il tuo,
per fare il poeta, io, e scrivere di noi, di questa storia di amanti
che si trovano, si rinnovano,
dopo Orfeo e Euridice, Ginevra e Lancillotto, dopo Zeus e Leda.
Entra, accomodati. E sorridi!
Non perderti per sempre dietro la maschera di gesso della durezza.
Della tristezza. Sei viva, amore,
non porti la colpa della vecchiaia di tua madre, del suo dolore,
non perderti per lei, non aggrapparti al suo sguardo.
La vita è questo vento che va e ritorna,
che sperde le ceneri ma porta la memoria.
Tua madre si perderà – come tutti, nel tempo -,
E tu l’hai amata fin tanto, fino allo spasimo.
La vita continua anche per lei,
nessuno sa quanto, e tu ci sarai, sempre,
anch’io ci sarò sempre, accanto a lei.
Ma adesso è necessario che tu ti sieda, ti accomodi un poco.
Vieni, ti faccio un thè verde al limone, che tu adori tanto,
ti porto una pastetta, magari di quelle che prendemmo a Polignano,
fragranti e gustose, con quella crema all’amarena. Vieni, ascoltami.
Adesso ti vedo, da vicino finalmente.
Vedo i tuoi occhi cerchiati di nero, così stanchi che si chiudono.
Sono ancora bellissimi. Ho bisogno di quegli occhi,
neri e immensi, per navigare, per ritrovarmi,
per sapere che il tempo che ci attende è quello dell’estate,
che la rotta è serena.
La morte non spaventa se tu mi guardi,
se tu mi riconosci, amore.
Ho bisogno del tuo sorriso, ne ho bisogno di continuo.
Ti do la vita in cambio, il gioco, la fedeltà che finora
ho disdegnato;
Ti do le case che insieme ricostruiremo;
i viaggi in Africa o a Tokyo.
Ti dono le poesie che ancora dovrò scrivere;
ti dedico l’amore e il tempo che ancora porto dentro;
ti amo, ti bacio. Faremo l’amore.
Ma tu devi sorridere, sorridermi, sorridermi.
Il tuo sorriso è il nutrimento,
Il tuo sorriso è l’ebbrezza, la follia.
Il tuo sorriso mi fa vivere e volare, mi fa vivere e sognare.
Senza il tuo sorriso – lo sai – divento cupo, violento,
cattivo. Torno a combattere la Sfinge,
corro verso la perdita, la divisione, la falsità.
Per questo, ti prego, sorridimi sempre.
Ti renderò gioia per amore, sorriso per fedeltà,
sorriso per abbraccio, preghiera, poesia.
E poi ho bisogno del tuo desiderio.
Non importa se destinato per me soltanto.
Ho bisogno del tuo desiderio.
Eravamo ad Ascoli – ricordi? Molte estati fa. Giovani.
Dormivamo al piano di sopra. La porta era chiusa,
il mondo lontano, la notte alta.
Frastuono di cicale, resina di pini, e noi sudati, sudatissimi.
C’è bastato guardarci… mi sei salita sopra,
m’hai fatto entrare dentro. Eri bagnata già prima di iniziare.
Mi hai danzato sopra con la forza e il desiderio d’una marea.
I tuoi capezzoli si gonfiano, il tuo seno ch’esplodeva di piacere
sotto la lingua.
Ti sei lasciata amare, distesa sul letto, la schiena inarcata.
Ti son venuto sopra, e dentro.
Abbiamo respirato; viaggiato insieme,
ci siamo trovati insieme, abbiamo gridato insieme.
Ho chiamato il tuo nome, amore.
Hai chiamato il mio nome, amore.
Per questo, dicevo, ho bisogno del tuo corpo, del desiderio.
Ho bisogno di sentirti bagnata.
Non conterò i giorni o i mesi, ma il tuo profumo è vita,
il tuo sapore mi rende felice, il desiderio mi tiene unito,
un solo corpo, un solo uomo, una sola parte del mondo.
Voglio restare da questa parte con te,
attendere come i girasoli che si alzano stupiti e che ruotano
alla luce, a nostra figlia, al nostro amore.
Ho bisogno che la strada sia fatta fianco a fianco,
labbra su labbra.
Lasciamoci la storia alle spalle.
La storia e la realtà ci uccidono, ci rendono statue.
Ci servono le favole.
Ci serve una favola, una fiaba solo nostra.
Qui il tempo è un indovino che sale e scende per i fianchi
di un vulcano. Intorno è l’estate.
Il grano è trebbiato; le pesche e le albicocche profumano.
Ciò che doveva maturare è pronto al raccolto.
Tutto ciò che non è nato, non nascerà più.
Io sono l’indovino che sul culmine del monte
lambisce il cratere in cui si può rinascere o cadere.
Ti trovo per caso, mia sposa, ma tu a stento mi guardi.
Hai il dolore nel petto, ti manca il fiato,
la scarpata, tutta, nel passo.
Ti porto una lettera. La tengo aperta
perché tu possa leggerla.
Ti ringrazio per avermi aspettato,
per avermi dimostrato fedeltà.
Ma le frasi cominciano a sparire, rapide,
le lettere scolorano, il testo è senza senso.
Allora mi guardi, confusa…
Mi tolgo l’abito, sto nudo. Fai lo stesso pure tu, come atto di fede.
Sei nuda, ti lasci baciare. Non basta.
Ti chiedo il desiderio. Chiudi gli occhi finalmente.
In alto, il nuovo giorno si colora di luce.
– Indovina, amore mio – ciò che voglio non è scritto
nella lettera ma in queste rughe della pelle,
in questo viaggio che ho fatto per raggiungerti fin qui.
Se mi abbracci lo capirai: le rughe dei nostri corpi
diventano una clematys, le mani e i piedi diventano radici.
Poco a poco i nostri sguardi si sciolgono nel desiderio,
nel bacio d’amore vero.
Il tuo profumo nell’aria si leverà, e poi sverremo.
Sorridimi, abbracciami, baciami.
Ti renderò gioia per gioia,
per fedeltà -.
Napoli, luglio 30 luglio 2021 – 31 maggio 2022
Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione
