(Scena vuota. Luce crepuscolare, all’inizio, poi cangiante da un estremo all’altro dello spettro. Pochi oggetti di scena: una panca, una colonna, fogliame, qualcosa che evochi un bosco, un cimitero, ma senza descrizioni realistiche. Sul fondo di scena, saranno proiettate immagini evocatrici di qualcosa dell’infanzia, del mito, e spesso immagini e forme non comprensibili. Anche la musica seguirà questi passaggi, questi mutamenti, da melodie note e comprensibili a musiche e suoni inauditi. Euridice è vestita all’inizio con un abito neutro, quasi una tunica di tela; poi il suo abito cambia diverse volte, come per un prestigio. Lei parla a Orfeo, vestito di abiti borghesi, che sta sulla scena muto, ad ascoltarla.)
Vieni, entra, accomodati,
è così bello rivederti qui, in questa casa di cemento
immersa nel silenzio, nel crepuscolo, nel verde…
È la prima volta che vieni a trovarmi, e sono emozionata.
Lo so, hai fretta di portarmi su alla vita, tu,
ma io voglio parlartene prima, e ascoltarci a vicenda,
e poi non c’è più fretta.
Qui, tra i morti, il tempo ha il passo lungo delle attese,
quel tempo che da giovani noi tutti abbiam provato
quando c’innamoriamo, la prima volta, ci stendiamo su un prato,
guardando fuori o dentro di noi, nel sole, nel cielo, per ore …
ah sì, l’amore… è così forte e giovane e bello, questo guerriero,
che ogni guerra la dura e la vince,
che umilia la morte o la deride, la disarma
assumendo su se stesso le sue fini strategie.
Anch’io son stata giovane, sai,
mi sono innamorata di te, Orfeo;
per te ero già pronta ad arruolarmi in ogni sfida,
andarmene di casa, vivendo nei boschi,
vedendoti tornare, di giorno, di sera,
sporco di terra, ma limpido e alato;
e quella luce immensa che avevi negli occhi…
quella luce mi portava dove i treni non arrivano,
nell’orto dell’infanzia dove tutto è esaudito
ancor prima che desiderato,
dove gli alberi e i fiori si fondono in nuovissimi archetipi,
profumati e rari…
Eh sì, quando si è giovani e innamorati lo spazio non conta,
non c’è voglia di case, di ville o di poderi;
si sta bene tutto il tempo tra le braccia dell’amato,
sul suo corpo profumato, distesi e soddisfatti,
dentro a una culla per neonati,
di quelle scintillanti di sete e luminarie…
Siediti dunque, ti sento ancor teso,
come se faticassi ad arrenderti all’ignoto di questo mondo.
Sai, quando fui braccata da Aristeo, capii che la mia vita
era finita.
Fino ad allora ero stata una ragazza speciale, innamorata.
Mi perdevo nei boschi, ammirando la bellezza dei fiori,
parlando con gli alberi, giocando a nascondino coi cerbiatti.
Una sorta di ebbrezza mi assaliva di continuo,
potevo sentire più cose di concerto,
amavo chiunque, saltavo sulla corda, nuotavo nei fiumi;
m’importava di dipingere ninfee, fotografare la lince
o i colori della neve.
Soprattutto mi perdevo nel desiderio di te, mio Orfeo,
non vedevo l’ora di incontrarti, perché mi baciassi,
perché mi stendessi sul prato fiorito ed entrassi… dentro di me.
Allora chiudevo gli occhi e un brivido di gioia mi prendeva
così a lungo che svenivo.
E se qualcuno mi avesse detto che potevo morire
per quell’amore gli avrei gridato sì, sì, sì…
non volevo che restare in quel deliquio che ci fa essere
fibre dell’universo, senza per questo tradire lo sposo.
Ero libera di amare, di amarti, di cambiarmi in ogni forma
del mondo,
giocando a quel teatro delle maschere che rende inafferrabili
gli amanti e le favole.
E tu eri lo sposo ideale, così abile alla musica,
così bravo da sedurre uomini e dèi, tutti,
così colto da contendere ad Apollo lo scettro di poeta.
Eri il mio doppio, sbarazzino, coraggioso, irriverente:
non avrei potuto legarmi che a te; eri il sogno di una vita
non dissolta nelle piccole incombenze quotidiane,
l’esempio di un amore non consunto o raggelato,
non mutato nel rimorso di una iena, imprevisto e ferale.
Eri un uomo, un compagno, un amore che non passa,
l’alito che attraversa ogni elemento, ogni idea,
ogni conflitto del mondo e lo compone,
lo riporta a un’unità che ci commuove.
Il sesso con Aristeo mi ha uccisa, obbligandomi ad essere metà,
una sola metà del tutto, soltanto una donna, un’adulta,
una sposa,
fissata come una statua nel ruolo di massaia.
Non mi ha uccisa il serpente.
Poverino, era solo un giocattolo di gomma.
Mi ha ucciso la prospettiva della normalità – come la si intende –
essere un’unica immutabile entità,
vivere la vita per qualcosa, per qualcuno, ma uno solo.
Mi ha uccisa la fame del controllo, del possesso, la totalità
che la vita normale – quella dei vivi – comporta.
Volevo stare al mondo senza definizione, io,
senza sapere chi essere.
Volevo gioire degli altri e con gli altri, con tutti gli altri…
Fossi rimasta viva, con Aristeo o con te, mi sarei trasformata
in una dea, adorata e celebrata, ma morta nell’animo, amputata.
Per fortuna, Persefone ha avuto pietà.
Lei conosce le lacerazioni, le divisioni, le rinunce.
Lei sa cosa significhi essere costrette a transitare
da una parte all’altra, da una maschera all’altra,
a sembrare serene mentre il fuoco e il desiderio ci posseggono.
Mi ha mandato la morte, sua ancella, a salvarmi,
mi ha mandato la sua morte a salvare la mia anima
e il mio amore per te, Orfeo. Anche questo.
Soprattutto questo.
Sai, i sogni non sono così distanti dalle cose da essere al sicuro.
Spesso può capitare di afferrarne qualcuno,
e questo scoppia come un palloncino gonfiato,
di quelli colorati che i bimbi trattengono col filo di spago.
Passare con te la vita ordinaria significa scoppiare,
e allora di quel sogno non resta che la pelle afflosciata.
Io e te diventeremmo soltanto persone, anziché sognatori,
diventeremmo sposi, anziché amanti,
soggetti alle catene del controllo, della moralità,
e del nostro amore, del nostro desiderio che ha fatto storia,
del nostro spirito che le cose del mondo ha animato,
di tutto questo non resterebbe che un rilievo di qualche artista,
sbiadito su un cratere o su una metopa.
No mio Trace, questa pena non vale noi due.
Qui, fra i morti, posso fare ciò che volevo,
fuggire dalla gabbia della coerenza o dell’opportunità
– come diciamo quando deprechiamo il desiderio dell’altro
senza apparire bigotti o invidiosi -.
Ho potuto lasciare libero te, mio amore, e tutti gli altri.
Ognuno degli amici, dei parenti, dei colleghi, dei discepoli,
ognuno è stato libero di scordarmi oppure no,
di andarsene o tornare,
guidato soltanto dalla verità di un desiderio ritrovato.
Non ho legato nessuno a me stessa,
non ho ingabbiato nessuno in un ruolo immutabile,
non ho chiesto a nessuno degli amori di amputarsi,
tanto più se ritenevo di non essere capace
a soddisfare il suo bisogno.
E gli altri defunti, hanno avuto per me lo stesso rispetto
che ho avuto per loro,
hanno condiviso non il possesso ma la molteplicità,
hanno scambiato con me la gioia del corpo,
non il piacere striminzito ed egoistico che appaga chi lo cerca.
Qui – ti dicevo – grazie alla ricchezza dei vissuti e delle forme
con cui restiamo al mondo, ho potuto sentire per te
lo stesso desiderio dei vent’anni.
E tu, sei stato libero di volermi e di sognarmi,
perché assolto dalla vita, dal legame soffocante dell’unità.
Non parlo di fedeltà, parlo di un unico modo di stare al mondo.
Sei libero, capisci? La libertà è l’essenza della vita, della verità,
anche se non della normalità, e certo del desiderio.
Ti permette di venirmi a trovare ed essere qui con me, ora.
Se ti dessi la mano, e di nuovo tornassi alla vita,
la luce ipocrita degli altri, dei giudizi e dei compromessi,
mi spegnerebbe,
spegnerebbe quel desiderio che mi anima e asserena,
che mi spinge a riconoscere il bello anche nel vuoto, nel buio.
Se ti seguissi sarei tua moglie, certo, ma solo questo,
sarei cupa e malinconica per ciò che è da rimuovere,
e i miei occhi si velerebbero di un pizzo di acredine o di colpa.
Tu saresti legato per sempre al mio viso, castrato e insoddisfatto,
proveresti colpa per me, sentiresti di non riuscire
a riparare la ferita,
faresti di tutto per me, ma inutilmente.
Ben presto la colpa e l’impotenza si muterebbero in rabbia,
in odio, e non sapremmo più chi siamo, nessuno dei due.
A quel punto, saresti anonimo, saresti Aristeo;
non ci sarebbe differenza tra te e quel pastore possessivo.
Capisci? Per questo son felice di restare qui altrove.
No mio Trace, questa pena non vale per noi due,
Orfeo e Euridice rimarranno due stelle, saranno galassie,
per sempre ammirate.
Ognuno potrà intravvederci la luce dei suoi sogni.
Per me resterai il compagno di viaggio, stimato, desiderato.
Nonostante le molte forme che la mia esistenza assumerà,
nonostante gli elementi naturali con cui mi fonderò,
sarai lo spirito che non si perde, l’alito che tiene in vita,
la stella a cui rivolgersi.
Ti conosco, Orfeo. Ci conosciamo, siamo uguali io e te.
Per questo, comprenderai.
Qui, la morte s’inchina all’Amore e al Desiderio,
sapendo di non essere all’altezza degli dèi;
qui, la Vecchia non riesce a levarsi più in alto della terra,
e, su tutto, si vergogna di bastare a nessuno,
nemmeno a se stessa.
È una serva, la morte; nessuno è gelosa di lei;
nessuno combatte per averla, non ha fascino, è bruttina,
non ha tempo né pace. Spaventa,
ma è solo questo blocco di cemento, questo scavo nella terra,
questa cassa di legno o di ferro nella quale ci ripongono i vivi,
temendo si rifiuti quell’eterna cerimonia
della veglia e la preghiera,
non sapendo viceversa che noi vecchi stiamo fermi o distesi,
occupando poco spazio, di modo che nessuno si preoccupi di noi…
Perché noi siamo altro, ci dedichiamo ad altro,
siamo liberi di assegnare le giuste parole alle cose, finalmente,
guardando al mondo e a noi stessi poeticamente.
Luci e colori ci accolgono festosi, qui, fra i tronchi dei cipressi,
e noi stessi trasmutiamo, arcobaleni.
Di fresco mattino, al cinguettio dei pettirossi,
il primo raggio di sole ci toglie i calzini,
ci scopre le dita dei piedi, come una geisha accorata e materna;
ci massaggia, ci profuma, si cura delle unghie,
tingendole di smalti sfavillanti ed intensi
– rosso cristallo, verde oceanico, azzurro marzolino -.
A poco a poco il sole si alza sui tetti, svelando i fastidi e i desideri,
creando un florilegio di colori in cui danzare,
ognuna con l’abito più bello che ha sognato,
ognuna calzando le sue parigine,
ognuna aggiustandosi la gonna color crema,
quella che di solito si usa a un matrimonio.
Oh sì, il tempo è lento qui,
è così bello prendersi cura di se stessi mano a mano che il giorno
distende il suo ventaglio, curando nel dettaglio ogni piccola azione,
avendo per mano ogni tinta della terra per truccarsi,
ogni luce del cielo per vestirsi,
ogni vento della rosa per profumarsi.
Ognuno di noi ha la sua ancella servile, la morte,
ubbidiente e preparata a ogni nostro comando…
Ci aiuta a girarci sul fianco di notte,
ad alzarci e passeggiare per questi viali in cui c’è il nostro presente,
i parenti, gli amici, gli amanti,
tutti quelli che vogliamo aver vicino in questo cammino nell’aldilà.
La morte ci serve – ti dico -, ci lava, ci medica
se talvolta ci graffiamo con un ramo;
si prodiga per noi di modo che l’Amore non se ne abbia o la ricacci,
impedendole più a lungo di badare a noi altri.
Qui, Orfeo, il potere smette di esistere,
e i forti, i potenti, che soggiogano gli uomini con le armi
e con le azioni,
rimangono nudi, vestiti soltanto di un telo bianco,
per aiutare la morte a servire gli altri,
per imparare come scolari che la gioia dipende dall’altro,
dal suo sguardo mite o accigliato,
dal suo animo accogliente o raggelato.
Questo, i potenti non lo sanno da vivi,
è per questo che gli assegniamo di imparare ad ascoltare,
a curarsi dell’altro, magari uno solo,
aiutandolo a distendersi nel bagno,
strofinandogli le spalle con il guanto di spugna,
inclinandogli la schiena, toccandogli la testa
con le dita e con l’amore che sono dei papaveri
passati tra i capelli.
Eh sì, il potere non esiste qui,
dove lo spazio dei morti è quello dei ricordi
con cui ci richiamate,
dove il tempo dei morti è quello che voi vivi ci dedicate
quando venite a trovarci,
un poco imbarazzati, un poco spaventati,
non sapendo che noi morti non vogliamo altre parole ma presenza,
vogliamo braccia su cui saltare, abbracci tra cui cullarci,
labbra da baciare.
Abbiamo bisogno del vostro corpo qui, con noi,
del vostro animo su cui sederci.
È questa la gioia: ci facciamo trovare puntuali con voi,
ci copriamo degli stessi colori con cui ci vestite, vi rassicuriamo,
vi portiamo in dono il sole, tenuto per mano come un fiore
o un lecca lecca,
lasciandovi sugli abiti la sensazione dell’imponderabile
e della serenità.
Qui, il potere non esiste dunque,
poiché il tempo e lo spazio son quelli che noi vi concediamo,
quando veniamo a trovarvi nei sogni o negli incubi,
o che voi ci concedete, con le vostre preghiere, i vostri ricordi,
i vostri canti, i vostri sorrisi distratti.
Qui, le parole hanno la bellezza dei fiori, la sostanza del vento,
il tempo è un brucomatto che viene a risvegliarci di mattino
facendoci il solletico, leggendoci il giornale davanti a un caldo thè.
E la pioggia, la vedi?
Le gocce saltellano pian piano di tegola in tegola, di ramo in ramo;
gocce azzurre di santità scintillano a migliaia
come costruendo un lampadario,
di quelli magnifici che pendono in hotèl,
oppure un frangiporta di fili di svarovski,
com’è di quei cannilli che un tempo si mettevano alla porta
perché non ci scocciassero le mosche,
o il vento non smuovesse i fazzoletti sulla tavola da pranzo.
Qui, regna la musica, in un modo che nemmeno conosci.
Non abbiamo bisogno della vista per controllare gli eventi.
Li accettiamo con la grazia di chi ascolta ogni moto del mondo,
ogni vibrazione delle cose – il distendersi della pelle,
delle articolazioni, del legno su cui sediamo,
della rugiada che ci raggiunge nel pomeriggio -,
e cambiamo tutto questo in note da suonare,
in fughe, terzine, quartine, vibrati, pianissimi, glissati.
Privi della vista come siamo (ci è mai stata utile, d’altronde?)
abbiamo imparato a tradurre il dettato melodico della natura
in una sinfonia, la cui meraviglia sta nel piacere
di ascoltare insieme, di volare coi ricordi e le emozioni insieme,
immersi in quel flusso di piacere che è l’armonia.
E tu questo lo sai Orfeo, esperto come sei di musica e desideri.
Ma noi, la musica, la produciamo naturalmente,
a differenza dei vivi che usano il tempo per conquistare,
lo spazio per soggiogare, il corpo e gli strumenti per colpire.
Le mani vi ingannano, i pensieri vi sembrano forti;
il vostro corpo lo assecondate, lo proteggete, lo potenziate
come si fa con un cane da guardia,
non sapendo che in questo è il potere della morte,
quando la combattete con azioni e intelligenze
facili da sconfiggere.
Così la morte stravince sui vincenti,
sui dittatori paffuti e patetici, coi loro spazzolini da denti
graffiati sotto il naso,
sulle loro uniformi ingessate dalle lacche,
così rigidi e soli nei loro sarcofagi costruiti nelle piazze,
di modo che tutti li vedano e ricordino.
Che illusione, che delirio!
Pensare di guadagnare l’altezza e la centralità
con qualche scultura, quando invece la morte se la ride,
sapendo che ben presto vincerà, sui bronzi e sui graniti.
Qui, invece, in questo campo fiorito e alberato,
l’altezza la affidiamo a voi altri, alle vostre preghiere,
alla vostra passione di sognare, di sognarci,
sognare al nostro posto.
Qui, nel nostro giardino d’infanzia, si può essere centrali
soltanto accostandosi agli altri, abbracciandosi agli altri
tenendosi per mano, o facendo un girotondo,
come in qualche scampagnata da bambini per pasquetta.
Qui, al centro non c’è una chiesa, un’idea,
non ci sono palazzi o teoremi da ammirare: ne rideremmo!
Qui, al centro, ci sono i ricordi; ci siamo io e te,
quando vieni a trovarmi con un fiore tra i pensieri.
Qui, al centro sta il gioco, il bello, il fuoco,
quando le sere noi morti ci troviamo davanti al gran Teatro
di marmo, seduti attorno al fuoco a mangiare il tajine
oppure ballando, battendo tamburi,
facendo vibrare le foglie degli alberi coi canti e le preghiere
gioiose e serene.
Qui, l’impegno – come diresti tu –
non è pensare ma sentire, non è capire ma comprendere,
non è avere ma condividere.
Ricordi Penelope? Era fedele a Ulisse – come lo ero io per te -,
e quanto l’ha aspettato. Era questo il segno del vero amore?
O forse del possesso, dell’angoscia, dell’abbandono?
Adesso che è qui, Penelope, adesso lei ama Filocrate e Menelao;
ama il telaio e sua madre, ama i figli e la pittura,
il suo sposo Ulisse, lo ama quanto prima e più di prima,
lo copre di desiderio, lo spoglia con gli occhi
ogni volta che s’avvicina.
L’assenza di confini, di spazio e di tempo, non le ha tolto il desiderio,
gliel’ha moltiplicato, lo ha reso più acceso.
E lui, Ulisse, l’ambiguo infedele marinaio – come lo chiamavano -,
è diventato un ospite prezioso che mangia nella mano di Nausicaa,
senza che questo gli impedisca di godere di Penelope!
Qui, la sfida è diversa, dunque; l’armonia è nell’insieme,
perché ogni incontro d’amore ci riempie – anziché svuotarci –
di linfa e di gioia,
grazie alla quale possiamo amare più forte i nostri amanti.
Ti ho stordito amore mio? T’ho stancato?
Beh, non prendertela! Ascoltami come una sorpresa,
come un mistero, una musica nuova,
un nuovissimo primo sogno.
Quello che senti qui, attraverso di me, è più della vita,
anche se tu non la chiami più vita.
La vedi la cinciallegra che salta e si nasconde su quel larice?
Lei ride e svolazza anche se non tu non la vedi,
e canta per te, anche se non la comprendi;
e quella siepe di pitosforo e di arancio? La senti?
Il suo profumo ti avvolge copioso, ti intride le vesti,
il ricordo del futuro, qualunque cosa diventerai;
e questa luce di mezzogiorno, alta, avvolgente,
calda e comune come una scuola primaria, la vedi?
Ci scalda, ci ristora, ci prende per mano, ci porta a passeggio.
Ne sentiamo sulla faccia i bei raggi,
e questa percezione ci guida all’incontro con gli altri,
come il vento che spinge la nave.
Che questa luce ti giunga attraverso la terra
o dal vetro dipinto della cappella, o anche sulla foto di ceramica,
tu impari comunque a acchiapparla,
di modo che i raggi ti guidino lontano.
Non abbiamo bisogno degli occhi per vedere, quindi
– quelli d’altronde li abbiamo donati già ai vermi,
come pure tutto il resto -;
Non abbiamo bisogno di scrutare per avere o legare qualcuno.
Abbiamo imparato che c’è sempre un bel suono, una luce,
una qualche molecola del mondo che ci tocca, ci riguarda,
ci viene a chiamare, ci porta in vacanza, ci invita a cena,
ci fa desiderati e amanti.
Di sera, nelle notti d’estate, frammenti di stelle
riemergono dal suolo e saltano sui tetti, sugli alberi, come Elfi.
Siamo noi che giochiamo a rincorrerci,
sapendo prima o poi che in un’altra versione del tempo
sott’un’altra figura del reale, ci troveremo a baciarci,
seduti sul balconcino del castello di biancaneve
o su qualche altro balcone del mondo su cui una lampada
stia accesa.
E i profumi, li senti?
Queste note di agrumi, di aldeidi, di eriche e mughetti:
queste note sono il richiamo di Elène per Paride;
la sento, la conosco, la conosci anche tu:
si specchia davanti ai vasi di fiori che ornano le tombe
truccandosi con cura, coprendosi di essenze inaudite,
cogliendo cedri e giacinti e legnetti stagionati
che sappiano di bosco, di foglie, di cuoio e di castagne…
Ricordi il suo rossetto? Il misterioso ombretto?
Li senti i suoi richiami? Anche lei ha fatto la nostra scelta:
rinunciare ad una vita regolata, per continuare ad essere amata
in ogni forma e pulsazione del mondo.
Qui la storia è dovunque, e tu sei dovunque,
sei la fibra del legno su cui riposi,
la seta del marmo su cui t’addormi,
sei l’aria che ti avvolge e ti attraversa; sei qua e sei là,
sei l’alito che sale dal corpo e infonde il desiderio;
sei polvere che sale dalla terra e si posa sul bottone
della camicetta – quella d’organza – ricordi?
me l’hai regalata per l’ultimo compleanno -;
sei il corpo che sublima nell’aria,
nella splendida e calda bell’aria agostana;
e quest’aria di campo, di ogni campo del mondo,
sei tu che ritorni dalla storia, dalla materia,
e prosegui dappertutto.
Questa luce di mezzogiorno, questo incenso di arance,
questo volo di rondini, quest’incontro di elementi;
questo essere nel mondo diffusi,
in un ramo di gelso, una radice, una molecola del vento,
tutto questo aldilà non esiste da vivi,
non è storia o teoria, e non è religione.
Non devi capirlo, non esiste, non devi crederci.
Devi costruirlo, piuttosto, giorno per giorno,
come si fa col sogno, con l’amore,
come si costruisce un oggetto interiore.
Incontro dopo incontro, perdita dopo perdita,
potrai costruire questo modo di stare nel mondo diffusi e differenti,
al di là delle linee già note dell’esistenza.
Devi provare, provare a sentire che ogni cellula,
ogni parola, ogni emozione, ogni pensiero per quelli che amiamo
è un composto di forme e di sostanze senza principio,
che non posso decifrare ma che pure esistono,
e sorpassano il presente,
come una sinfonia lo spazio che la contiene.
Per questo, amore mio, torna pure di sopra, alla vita,
al dispendio di forze e sentimenti per guadagnare un altr’anno,
un livello di carriera, un margine più alto di certezza.
Ti ringrazio per avermi invitata a seguirti di sopra,
per avermi proposto la vita, di nuovo.
Preferisco restare di qua, dove sono.
Lasciami dovunque, a ogni cosa, a ogni tempo.
E non angosciarti se non vedi o non mi tocchi.
Fidati. Ci sono più di prima. Ti amo più di prima.
La vedi quella splendida farfalla, nero e arancia?
Brilla, si avvicina… è mio padre, viene a prendermi…
Mi porta al ristorante, sotto il lume delle stelle,
mi dona le carezze che ho mancato nella vita,
mi porta le carezze che tu mi hai regalato;
mi canta le parole che tu mi hai dedicato.
Chiudi gli occhi, preparati anche tu, adesso.
Ti aspetto.
(La musica e le luci si attenuano e divengono stranianti, per qualche minuto, durante il quale Euridice scompare lentamente nel fondoscena. Dopo, la scena, tutta, diventa un interno di casa, nel quale rimane solo Orfeo, a biascicare qualche parola senza senso).
Napoli, 10 – 19 maggio 2022
Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione
