Clap. Fu l’ultimo suono che udii dietro di me,
il rumore della porta dell’ingresso si chiudeva,
un rumore sordo di colpa, di rimorso,
il passo di qualcuno che ha fretta,
e quel leone dorato sul battiporta, stanco di ruggire e intimidire
– Cos’altro d’altronde? Chi altri arrestare sulla soglia
di questa casa da cui tutti noi siamo partiti?
Io sono l’ultima a restare ancora un pò,
fissa, impalata dietro i vetri invecchiati della finestra,
quella più grande su al piano di sopra, dietro cui mi nascondo
a scrutare dai vetri, a contare le macchie prodotte dalle muffe
simili a briciole di pane o minuscoli fiori;
e allora quelle macchie cominciano a muoversi
riempiendo tutto il vetro,
coprendomi la faccia, le mani, il corpo intero.
Io stessa divento un quadrifoglio,
un asfodelo, un papavero, immerso nella trasparenza
indiscreta della finestra,
a contare chi parte e chi arriva dal fronte dell’estate,
al di là della quale vecchi eserciti in ritirata vengono sostituiti
da nuovi soldati in cerca di felicità –
padri, nonni, madri, zii, cugini -,
ognuno con la sua utilitaria,
con la propria valigia di stoffa o di cartone,
ognuno un corriere di giocattoli ancora innocenti
nella loro infantile utilità (secchielli, palette, palloni di spugna),
tutto l’armamentario per vivere distratti in questa estate che qui,
in questa casa e in questa famiglia sferzata dai venti dell’odio,
ingoiata da un mare invisibile e nascosto al di là delle montagne,
annunciava una saga, e forse lo era.
Io sono l’ultima, dunque, osservo dalla finestra
l’ultimo soldato appena partito dopo un’ultima notte
trascorsa qui nella mia casa,
nella mia stanza da letto, nuda, ancora calda dei corpi,
disfatta, tanto che ancora potresti avvertire il cigolio della rete
arrugginita muoversi su e giù, lentamente, continuamente,
come volendo ancor fare l’amore con un corpo immaginario,
o come i bambini quando si divertono a mimare i vagiti degli amanti.
Quel soldato è stato il mio amore, l’ultimo,
anche se mi vergogno ad assegnare a me stessa una tale fortuna;
l’ho visto vestirsi in fretta, come sopraffatto da un richiamo
inspiegabile, da una sorta di comando interiore,
o da un altro amore,
la giacca di lana verde appena aggiustata sul petto villoso
su cui ho intravisto piccole gemme di sudore,
macchie di sperma o di rossetto, il mio!
L’ho guardato sorridendo, malgrado non avessi avuto
nemmeno il tempo di salutarlo come si deve;
solo un battito degli occhi, un silenzioso addio,
mentre usciva imbarazzato, lui,
saltando le scale a quattro a quattro,
sbattendo la porta dietro di sé, per non scordare,
lasciando pure un guanto di pelle appeso alla maniglia
della porta richiusa in fretta. Clap.
Era l’ultima ombra che volevo osservare e poi lasciare,
l’ombra di un amore e di una guerra che non voglio dimenticare,
sebbene sia così personale, interiore, indescrivibile.
Sono stata una sacerdotessa, io.
Mi piaceva restare intere giornate in quella posa tipica
dei figuranti di scena – il tailleur anni ’30, nero,
il bel cappello a falde strette, le mani giunte a trattenere una pochette,
i piedi immobili e segreti nelle scarpe di vernice a tacco basso -,
addossati a una delle quinte laterali,
confusa tra le pieghe delle tende pesantissime di seta
che i miei piazzavano ai balconi per distendere un fondale,
su cui mettere in scena la guerra quotidiana
nella quale mio padre e mia madre si battevano
senza parlare, urlando proclami assoluti quanto inutili
sulla fedeltà, sui figli, sul dovere di ubbidire al capoclan,
o anche sul bisogno di serbare il vecchio armadio anni ’50.
Oh, com’erano sfibranti e dolorose quelle liti o quelle recite,
nelle quali non c’erano vincitori né vinti, né torti né ragioni.
C’eran solo coltellate che ci ferivano profondamente,
lasciando in ognuno di noi una lama di ferro verticale
che ogni volta, recita dopo recita, ci divideva sempre di più,
al punto che non sapevi più chi scegliere tra te e l’altro,
per chi parteggiare, a chi appartenere.
Eppure, quelle tende di velluto drappeggiato mi piacevano,
mi proteggevano dalla luce impietosa della realtà;
ci permettono di creare nelle nostre stanze
e in ognuna delle nostre vite quell’atmosfera crepuscolare
in cui tutto diventa inconscio,
tutto si confonde con tutto,
l’innocenza con la colpa, la vita con la morte,
e dove tutto è incerto e può arrivare.
Allora ti sembra di sfogliare una margherita,
se mi ama o non mi ama, e tutto può cambiare.
L’uomo che avevi amato diventa un mercenario
che tu hai fatto entrare nel ventre con forza,
per trattenerlo o per ucciderlo.
Piccoli canarini saltellano qua e là,
e ti chiedi se parlino dei frutti ormai maturi –
ciliegi, albicocchi, bei prugni -,
oppure se sussurrino i versi segreti del tuo diario,
quelli più intimi che mai hai pubblicato.
Sì, quelle tende ci riportavano in quella scena
originaria che noi tutti abbiamo condiviso,
e devi chiederti solo se l’ultima carta del cartomante
sarà quella della morte o dell’eternità.
Io, quella recita la guardavo in disparte,
come a dire che ne sorridevo, sapendo bene
che io stesso le assegnavo una forma e un’espressione,
e anzi, le conferivo quella coscienza che nessuno dei miei
aveva avuto.
Confusa nelle pieghe della tenda a me destinata,
passavo il tempo dell’estate a immaginare, allucinare
qualcosa che non avevo, o proprio d’inesistente –
di solito principi o matti cappellai.
Mi piacevano gli oggetti strani, o dismessi.
Una giara di terracotta giaceva da secoli su in cima
alla scala di legno della soffitta.
Nessuno ci aveva mai guardato dentro,
sebbene, in quel pozzo oscuro e senza fondo,
fossero state conservate per anni le ceneri di infiniti
amori bruciati,
e con essi gli oggetti più tipici dei romanzi d’appendice –
lettere, separazioni, baci appassionati,
verità poco vere o svelate après-coup -.
In essa potevi sentire la voce di ognuno di loro,
se solo vi accostavi l’orecchio;
potevi sentire le grida di gioia o disperazione;
potevi respirare il profumo dei loro corpi,
sentire il caldo avvolgerti a lungo,
tanto che mi veniva voglia di calarmici dentro.
Così, spesso mi nascondevo per ore in quell’urna cineraria.
Incontravo tutti coloro che erano morti per amore,
ossia per consegnarci l’attrazione verso l’ignoto e l’insensato.
A cominciare da te, mio principe amato.
Mi sentivo a casa, tornavo a essere invocata, adorata
“Leda, Leda, aspettami amore, ho bisogno di te”.
Immersa in quella cenere potevo rivivere tutta la vita
e la storia già vissuta, in forme diverse, in epoche diverse.
Ero Crisotemi e Ifigenia, Persefone e Euridice;
potevo restare bambina a guardare i bei giorni
nella giusta dimensione della meraviglia.
Immersa nel segreto della giara, mi abituavo a restare morta,
ad essere polvere, e quella sensazione d’indeterminatezza
mi piaceva: potevo diventare una farfalla azzurro e bianca,
impalpabile e luminosa,
sventolare sul mondo un messaggio di fratellanza, di equità.
Mi reincarnavo nella vita di mia madre, così presto scomparsa.
Era la mia regina, la mia sicurezza,
il divano su cui volevo stendermi.
Nella sua camera da letto ci custodiva le foto d’infanzia,
quelle incorniciate in argento fra tutti i parenti e gli amici,
quelle che teneva sulla cassettiera accanto al letto matrimoniale.
E già mi vedevo, in quella foto, bella e paffutella, identica a lei.
Nel grande specchio, mi piaceva imbellettarmi coi suoi cappelli,
così nobili e demodé. E nel grande armadio bianco,
amavo nascondermi per intere giornate,
in modo da rubare i segreti che “i grandi” si scambiano a letto,
al riparo del dovere della serenità da infondere ai figli.
Vicino alla sua casa d’infanzia, scorreva il piccolo ruscello
al cui fianco c’era il vecchio lavatoio.
Mia madre e le altre ci portavano cesta di lenzuola e cenere e sapone
ricavato dai maiali.
Quella cerimonia era una preghiera per me, un rosario,
in cui si alternavano auspici per un futuro di ricchezze
e piccoli rancori su questo o quel marito, quell’amante, quel cornuto.
Di fianco alla parrocchia di sant’Orso, gli uomini si ritrovavano
Nella bettola di Marcel, alticci e straqqui,
come ci immaginiamo i maschi a fine giornata,
capaci di quella leggerezza che noi donne non abbiamo,
così cariche di ricordi, maledizioni, mancati amori.
Tutte quella cerimonia, quella vita, non era la mia:
mia madre mi raccontava di suo zio prete,
del vociare della strada, della fame e la durezza
dei suoi quattordici anni;
non era mia quella vita, eppure là dentro,
in quella giara cineraria, potevo essere lei,
entrare e uscire da una storia, da un corpo,
da un tempo e una città come si entra e si esce da un pensiero,
leggera, eterea,
senza la preoccupazione della coerenza e l’esattezza.
Mi piaceva chiudermi in questa casa, nella mia stanza,
di fronte al balcone spalancato sul terrapieno.
D’estate, nel primo pomeriggio, approfittavo del pisolino
dei grandi e dei fratelli per sognare e desiderare…
Restavo in mutande, distesa sul letto,
a sognare del primo fidanzato – come lo si chiamava prima del ’68 -;
lo desideravo ancor prima di conoscerlo o amarlo,
e quel desiderio senza oggetto mi bagnava davvero,
come fosse già dentro di me…
Il vento caldo della strada, sfuggito agli scuri della finestra,
mi accarezzava come una mano tra le cosce,
stendendo quel nettare sul ventre, sulle labbra, lungo il collo…
Giornate come quelle hanno costituito la trama
di ogni mio racconto;
mi hanno permesso di crescere ed entrare nella vita
con la consapevolezza che sognare è più che ottenere,
desiderare è più che potere,
e forse per questo non ho paura a nascondermi in quella giara,
in quel dominio oscuro in cui mi fanno compagnia
gli amori e gli dèi, gli eroi e i perdenti.
Non sono stata capace di essere una prima donna,
non ho saputo far fuori le altre,
come si dice facciano le donne capaci di soggiogare
un marito – come mia madre -.
Sono stata un’ultima, sono rimasta, come vedi,
in questa casa come nella tua vita,
benché spesso sentendomi sola e desolata.
Ho amato e sofferto in silenzio,
sempre all’ombra dei grandi eroi da celebrare –
mia figlia regina di Sparta e suo padre Zeus -;
mi sono prestata a essere Leda, a interpretare un ruolo,
a custodire le camicie che mi obbligavi a stirare,
(talvolta cogliendo impercettibili macchie sul colletto);
a riporre nel cassetto i troppi rossetti di tua figlia regina,
facendo attenzione a che il tappo non rovinasse la cera;
ho raccolto gli spartiti che voi lasciavate sul tavolo,
contenti di aver guadagnato un altro grado di bravura;
mi accontentavo di farmi bella da sola,
quando voi non c’eravate,
di guardarmi coi tuoi occhi,
di toccarmi con le tue mani, lentamente, la sera,
nell’ora in cui i gatti saltano dai tetti
e la luna ci presta le sue lenzuola più bianche,
mi sedevo di fronte al lavabo, passandomi la crema e il balsamo,
scendendo lentamente lungo i fianchi,
come avrei voluto facessi tu,
per liberarti dall’incombenza di un desiderio intermittente.
E quella maschera di alghe che talvolta mi concedevo
era un gioco, un divertimento,
un modo per non svelare che la maschera,
tra noi due, la mettevo soltanto io, per proteggerti.
Tu invece, mio re, non creavi maschere ma personaggi,
o meglio trasformazioni da incarnare di continuo,
per sedurre e conquistare.
Eppure ti ho amata, qualunque cosa voglia dire questa parola;
la tua inafferrabilità mi ha permesso di continuare a immaginarti
come ti vorrei,
ha impedito che un sogno mirabile d’amore si riducesse
a un marito.
O forse avevo bisogno che tu mi stessi un po’ a distanza,
lasciamelo dire: noi cigni abbiamo il collo fragile
e le piume bianchissime; abbiamo paura di essere divorati
o peggio sporcati da mani da meccanico.
E dunque ti ho amato, e pure lo son stata, amata,
sono rimasta in questa storia che tu hai scritto per questa famiglia,
per me, per tua figlia, per tutti noi,
assegnando ad ognuno un abito e un testo.
Questa recita è stata la vita che abbiamo condotto,
non tanto come falsificazione quanto come pubblicazione,
come rappresentazione di ciò che il fondo di una giara cineraria
può contenere – il vento, il fuoco, la conoscenza,
la contraddizione, la moltitudine, l’instabilità -.
E in questo, la verità e la durata del desiderio,
per quanto un desiderio può durare,
oppure nella forma reale in cui un desiderio può persistere.
In quei pochi gesti d’amore, in quegli occhi lucenti
che in qualche notte mi cercavano,
in quelle pagine in cui mi hai fatta vivere,
ho riconosciuto tutto l’amore che tu mi hai riservato.
Trovarsi a invecchiare con te era la prova che non m’ero sbagliata,
che la costruzione di un vestito sartoriale è cosa da pungersi le dita
mille volte.
Dipingere con te questa casa,
viaggiare sulle tue ali o le tue armi, foss’anche al supermarket,
intorno all’isolato, mi ha reso serena,
mi ha trattenuta in vita, dando un senso di dignità
e rispetto al mio essere ultima.
Mi segui, mio re?
A volte parlo da sola, o forse sempre,
in questa casa di cui custodisco lo spirito dei muri
dei pavimenti, l’alito caldo che dai muri si riversa sui nostri corpi,
quando la sera tardavamo a prendere sonno,
tormentati dall’umidità e le zanzare.
Se sono una statua? Una sacerdotessa?
Oppure io stessa un’allucinazione?
Che importa ormai.
Quell’ultimo soldato mercenario con cui ho giaciuto
in quest’ultima notte eri tu.
Ho riconosciuto il profumo del tuo corpo e del tuo sesso;
ho rivisto la leggerezza del tuo animo, del tuo desiderio;
ho sentito il tu passo veloce correre via, chissà dove,
ancora e ancora. Lo vedi?
Mi hai lasciato il tuo guanto sulla maniglia,
per abbracciarmi ancora,
e io l’ho indossato, mi ci accarezzo, mi consolo.
Mi hai lasciato ancora il peso sulla rete del letto,
e il tuo peso si muove sopra e sotto,
mi fa fare l’amore. E poi, lo so,
hai fatto il giro dell’isolato,
sei rientrato chissà da quale piano di questa casa ormai vuota
ma popolata dai tuoi fantasmi e dai miei desideri.
Lo vedi?
Le tue scarpe di vernice nera – quelle che indossavi
nelle grandi occasioni o nei ricevimenti degli dèi –
sono proprio qui sotto i miei piedi,
in questa plica di velluto rosso addossato alla finestra.
Mi sorreggono, mi sollevano.
Le tue mani mi stringono.
Balliamo il tango che io ho amato tanto,
l’oblivio fa da sfondo ai nostri pensieri,
la musica ci avvolge e ci trasporta, dove nulla più si perde,
in questa casa priva dell’inutile ed effimero.
Le note mi consolano,
le mani tue mi guidano,
il tono di questa musica ci porta lontano, finalmente,
come due novelli sposi, come all’inizio,
quando non c’era che questa casa e il nostro amore.
Mi porta fuori di questa finestra,
volandomi accanto,
dicendomi “ti amo”.
Napoli, 25 maggio 2022
Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione
