Chiara



Entra, siediti, accomodati.
Così a lungo sei rimasta nel serraglio
ch’è quasi un miracolo vederti ancora viva.
Qui puoi sederti, e temere più niente.
Qui non ci sono più guerre tra maschi e femmine,
non più figli da crescere o madri da far vivere.
Non ci sono mariti da far schifo.
Tutto si è trasformato in questi anni, fuori di noi e dentro,
come se un cataclisma ci avesse trasmutati
al punto tale da averci ibridati.
D’altro canto, non è questo il destino di tutti?
Non è la metamorfosi – impensabile all’inizio -,
a cui siamo dannati?
Anche la tua mutazione è stata profonda,
mi pare, che quasi mi hai scioccato sulla porta,
quando sei arrivata.
Anche tu, amore mio.

Quando ti ho conosciuta mi presentasti subito,
una foto che mostrava Ifigenia,
una giovane bellissima e vera, così inquieta dietro la maschera,
e così allegra e ventenne fuori,
una soubrette televisiva tipo Carrà.
E come potevamo non incontrarci, noi, così simili
così destinati a ruotare attorno ai nostri tormenti,
alle nostre famiglie, al nostro asse?
Come potevano due stelle come noi non collidere?
Stelle, o forse satelliti dovrei dire,
perché non abbiamo mai avuto la dignità di corpi autonomi;
siamo stati vincolati alle nostre rivoluzioni,
tanto inutili quanto necessitate,
ai nostri pianeti familiari, così giganti e instabili
da esercitare su di noi un vincolo simbiotico.
E tu avevi già il tuo pianeta familiare,
quando ci conoscemmo.

Ricordo il tuo sguardo, la prima volta che arrivasti
da me in reparto.
Il tuo portamento sembrava quello di una sacerdotessa
segnata da anni di accudimento a una Dea.
Il tuo corpo era forgiato nel marmo,
una di quelle statue nella quali riconosci la perfezione
e la tristezza che c’erano prima, quando la statua era una bimba
e avrebbe potuto correre e gridare, gioire e amare… e invece,
eccola là, immobile, tenuta nel museo di una famiglia,
o forse in un tempio, vestita di quella fissità immota
che rende le statue e le donne, benché prive d’abiti,
più coperte e soffocate di una suora.
Malgrado quella posa compassata, in te riconoscevo i segni della vita,
una rianimazione possibile, purché fossi riuscito ad estrarti
da quel abito familiare che ti aveva pietrificata.

Così sei stata, per anni, triste, svalutata, confusa.
Dicevi di te stessa di essere brutta, ma gli uomini sbavavano;
dicevi di essere una tosta ribelle e scatenata,
ma dentro eri bloccata;
dicevi di amare i Philosophes, e Sartre e Simone,
ma dentro, dietro la foto coi capelli a caschetto
e lo sforzo di sorridere, avresti pianto, avresti invocato qualcuno
per fuggire lontano.
Ti rifugiavi in discoteca, in qualche angolo,
mentre le compagne di classe esibivano la propria giovanile
spudoratezza. Tu invece dormivi o ti dolevi, da sola,
nella sala da ballo.
Mio Dio, amore, com’eri severa con te stessa.
Dentro di te bollivano i desideri di una ragazza che s’affacci
alla bellezza, al desiderio, alla cultura,
ma a te tutto questo era interdetto.
Potevi soltanto correre in un angolo di casa e ascoltare Nevermind.
Potevi finger di ballare in discoteca, ma solo per guardare
da lontano, sopra un trespolo.
E quando un giovane inviato dal Fato era giunto per rapirti,
non hai potuto che innamorartene.
Così è successo. Davide ti aveva stregato, e tu ti sei lasciata
conquistare completamente al vostro amore, al suo desiderio.
Immagino i giorni felici, le corse per vederlo,
la tua passione per l’eroe che aveva sfidato la madre.
Immagino l’eccitazione e il desiderio di fare l’amore,
la prima volta, a casa sua. Ti eri vestita scegliendo con cura gli abiti,
gli stessi da togliere in fretta, da lanciare per aria non appena
la sua mano su quel letto così bello…
L’amore ti era apparso sotto una luce mai vista.
Lui era l’amore del primo giorno.
Era il corpo che si bagna, se solo ti guarda.
Tutto di lui ti attraeva,
quel modo di portare le spalle diritte, quel modo di parlarti
come si parla a una ragazza mentre si gioca su un ring
a tirar pugni per finta, per gioco, perché la sola verità
è che ti amava e tu l’amavi, e mai più avresti smesso.
Che bello quell’amore, luce di primavera, e che bello quel corpo,
quel legame reso forte dal desiderio.
Non fosse per l’adolescenza capricciosa che tutto confonde,
quell’arciere bellissimo l’avresti sposato.
Ma a quel tempo eri giovane
e ancora te stessa, diversa.
Lui cominciò a diventare bizarro, ad essere duro;
Tu cominciasti a essere isterica, a imporgli la tortura.
Le liti e i finti ricatti per farti rincorrere
erano il tuo grido d’aiuto perché non ti lasciasse.
Era troppo turbato, lui, per provare a comprenderti.
Eri troppo angosciata tu, per sfidare il divieto
e lasciarti afferrare.
I pensieri di una Dea vendicativa si insinuarono dentro di te
E tu cominciasti a mutare consistenza, diventando più dura.
La punizione doveva essere esemplare, perché la trasformazione
in sacerdotessa, e poi in statua, fosse accelerata e completa.
Gli occhi però ti furono lasciati,
per essere guardata e specchiarsi.
Così, quando arrivasti al Servizio nel quale lavoravo,
eri perfetta, fasciata di bianco, un esempio di compostezza.
E quanto ci ho messo per innamorarmi di te?
Poco, pochissimo, Chiara.

Eri seduta con la schiena vero l’ingresso del day hospital.
Di te vedevo soltanto la divisa, il caschetto,
biondo, ieratico, sixtheen. Nient’altro.
Non sentivo e non sapevo niente altro.
Ma gli occhi si muovono, col desiderio, si spostano,
ci vengono a cercare.
– Sei tu amore? Sei tornato? Sei proprio tu, mio Zeus?
Allora guardami, sono io, Chiara, la tu sposa,
Qui mi chiamano così, in questo tempo, in questo posto.
Mentre non c’eri, ho dovuto accettare di fare la brava;
Sono stata ubbidiente, ho fatto sport insieme a mio padre,
ho giaciuto con un uomo che non amo,
ho fatto l’infermiera per stare sempre a casa.
Perdonami amore, comprendimi.
Comprendi quanto è dura trasportare quella maschera di marmo
sulla faccia, per non vedere, per non baciare;
portare quel filo di ferro passato all’uncinetto tra le labbra,
infibulata, inibita, pietrificata.
Lo so che mi ami, lo vedo nei tuoi occhi che non mentono,
nella voce tua che trema, nelle lettere che scrivi.
Portami via di qui, senza preavviso, senza esitare.
Rapiscimi, non lasciarmi in questo gorgo di tristezza
in cui i lineamenti si vanno inaridendo.
Tirami fuori da queste sabbie in cui sono costretta.
Voglio viaggiare, sognare, correre e baciare;
voglio amare e desiderarti, essere amata e desiderata;
voglio spogliarmi, libera, esser presa,
voglio fare l’amore con te, per sempre.
Non so se il desiderio mi rimane, non so dentro di me
cos’è sepolto, ma portami via.
In cambio ti prometto la fedeltà, ti dono i miei occhi,
affinché tu possa guardare più a fondo la tua follia;
ti dono il mio corpo, affinché tu possa tradirlo e ritrovarti,
pure la giovinezza, ti dono,
così che tu possa arrivare all’infanzia, fino all’infanzia,
a una bimba, a una figlia, se solo giochiamo a quel gioco
del cavalluccio, uno-due-tre… – ricordi ?-,
quello in cui mi salti sulle spalle e finisci nel futuro
in cui tu scrivi di noi tutti, nostra figlia ci incanta col violoncello,
e io mi lascio trasportare tra le braccia, nelle vostre valigie,
ovunque vogliate -.

Così è stato.
Mi sono innamorato di te, di schiena, senza vederti,
perché il dolore, il tuo dolore bianco come una garza
volava nell’aria. Non avevo bisogno di comprenderlo dagli occhi.
Era antico il mio cercare gli abbracci spezzati, i cuori infranti.
Facevo il terapeuta, io; coglievo cocci di anfore rotte
e poi li rincollavo, ricomponevo la bellezza,
il loro valore, la loro unicità.
Tu eri il mio vaso François, che da sempre cercavo,
la giara della vigna in cui giocavo da bambino;
eri la bellezza e la rivoluzione anni ’70,
la libertà di pensiero, la cultura, l’impegno,
eri la Grecia, l’Italia, la Svezia.
Quando le tue colleghe ti avvertirono che ero arrivato
tu ti voltasti per presentarti, ma io ero già perso,
già preso da te…
Ti ho rapita come fa Zeus, camuffandosi da povero;
ti ho incantato con la lira di Apollo, con la poesia,
ti ho trascinato lontano da Aosta
come nessuno avrebbe fatto,
in quella casa in cui mai eri stata libera di essere e fare.
Essere filosofa, fare l’analista, a Siena, a Pisa, ovunque sia.
Ti ho portato a Roma, nella casa di Via Alessandria,
dove tutto è esploso, del nostro amore, del desiderio.

Mai più scorderò quei paesaggi assolati e folli
delle estati romane.
Ricordi mia stella? Ero stregato dalla tua bellezza.
Ero drogato. Non riuscivo a farne a meno.
La tua bocca mi chiamava a baciarti a perdifiato,
a esplorare quelle labbra così ampie e oscene.
Ci puòi far tutto con quelle labbra… – mi dicevano gli amici
di biliardo -, mentre io ti fissavo le cosce,
appena intraviste da quella gonna verde scuro,
E il culo, che si mostrava così tondo e sodo appena ti piegavi
maliziosa sul biliardo…
Quel culo mi drogava, mi consumava…
e la tua rosa, così bagnata, così pronta alla gioia…
Ricordi? I nostri viaggi per l’Italia, nella Tipo di mio padre?
Stavi seduta accanto a me, poggiata di schiena sulla spalla;
ti spogliavi completamente; ti coprivi le cosce col cappotto,
e io ti carezzavo per ore. Chilometri e chilometri,
orgasmo dopo orgasmo, ci guardavano dai camion, ci suovanavo
col clacson, ci fermava la Polizia, sorridendo di quell’amore sfrontato.
Ci perdevamo, in quei viaggi.
Sul tuo viso scendeva la pace e lo sfinimento, la gioia.

Avevamo percorso tutta l’Italia di notte,
le mie mani dentro te – ti prego amore, continua, non smettere,
ho voglia delle dita che mi cercano, mi trovano, mi appagano,
e io ero bagnato, con te, insieme a te,
disfatto, venuto, stordito…
Ricordi? La vedi quella foto lì, sul mobiletto?
Eravamo a piazza del Popolo, tra i giovani ribelli Girotondi.
Ci eravamo tuffati in quella mischia.
Avevo sul collo un fazzoletto annodato, color blu;
tu avevi messo un vestitino di cotone, smanicato, molto corto,
che lasciava intravvedere tutta la tua… bellezza;
a un certo punto ti ho sollevata su un muretto,
perché vedessi meglio il concerto della sera,
ed è stato uno spettacolo…
Mai potrò scordarlo! Non avevi messo le mutandine,
eri nuda e bagnata… ti ho sollevata, t’ho aperto le cosce
reggendoti da sotto, e mi son perso…
La tua viola era pazzesca, non volevo che baciarla e succhiarla.
Come d’altronde si faceva di sera e di mattina,
in ogni luogo, in ogni angolo del mondo…
Ricordi quel pomeriggio da zio Cosimo? Eravamo soli,
noi due, la moquette e il divano.
Ci eravamo desiderati con gli occhi, ci siamo rotolati per terra,
nudi ancor prima di spogliarci. Ti ho presa in braccio,
t’ho adagiata. Tu hai alzato le braccia dietro la testa,
perché fosse più chiaro che volevi essere presa…
Hai spalancato le ginocchia, io sono scivolato di sotto,
ti ho preso le cosce sulle spalle e ho cominciato baciarti,
poi son venuto sopra di te, dentro di te;
mi sono tolto, ho ripreso coi baci, col sesso, senza sfinimento,
perduto nella gioia della tua magnolia, così morbida e larga
che alla fine, per scherzare, l’abbiamo misurata!
Era il gioco di noi bimbi. Il sorriso della gioia…
Non avevo mai visto una rosa così vasta…
Abbiamo riso, un po’ ti sfottevo, larghissima e bagnata,
come l’inconsapevolezza e il desiderio di quegli anni,
come l’amore che ci univa e ci avrebbe unito,
come la felicità e il dolore di tutte le cose che avresti
causato e curato – figli, tradimenti, aborti, malattie – .
Ma il nostro amore era quel gioco,
io e te non facevamo che giocarlo tutto il tempo.

Ricordo Novelletto, un sogno memorabile portato al mio analista:
cercavo di entrare negli occhi di mia madre,
senza riuscirci; cadevo per terra e mi rotolavo a fare l’amore con te.
Era il modo di calmarci, di ritrovarci, di assicurarci che mai
t’avrei perduta o mi avresti perduto.
E quella volta – ricordi? – mi venne voglia di legarti
con lo spago sul tavolo di legno della sala.
Mi lasciavi fare, tu; ti lascivi trasportare nell’ignoto,
per amore, perché il divieto degli adulti era lontano,
Eri libera di gioire, di fumare, trasgredire…
Ti annodai i polsi e le caviglie ai piedi del tavolo,
perché restassi spalancata…; ti sollevai i lombi con un cuscino
e cominciai a carezzarti con le dita, seguendo la rima delle labbra,
scendendo nelle pieghe, cercandoti il piacere,
coprendoti di baci, di amplessi, dovunque…
Tutto di te sapeva di sesso, di noi, del nostro amore…
Eravamo sfiniti e diveriti, eravamo innamorati.

Mi perdonavi la mia vita parallela con un l’altra,
perché era chiaro che ero perso per te, per il tuo corpo,
immerso nei tuoi occhi profondi, nelle labbra;
con te dappertutto, sapevi che sarei rimasto,
che il desiderio, quello, era tuo soltanto.

Mio dio, amore, quanto è lunga la nostra storia,
quanta passione ci ho messo per amarti,
quanta passione e dedizione ci ho messo per tenermi.
Ero sempre dislocato, sempre lontano, da qualche parte.
ma tu mi prendevi la faccia tra le mani,
mi scuotevi da me stesso, mi avvicinavi al tuo viso,
mi sorridevi. Mi baciavi a lungo. E allora, prestissimo
tornavo da te, con te, dentro di te;
tornavo tuo, tornava la passione, il sesso, il godimento.
Ci hai messo il corpo e l’anima per stare insieme,
per tenere uniti i pezzi, miei e tuoi;
c’è riuscito il tuo corpo, desiderio che permane,
che trascende tutti e tutto.

È stata dura, la nostra storia, difficile.
Certe volte ci siamo persi nella foresta; c’è venuta paura
che saremmo rimasti soli, che la notte ci avrebbe divisi,
che il freddo, i cinghiali, i lupi, i fantasmi
ci avrebbero ammazzati, di nuovo…
Credevamo che avremmo pagato per la gioia di quegli anni
come una colpa da espiare, senza sapere che indietro si torna
sempre, che il tempo è ciclico, è curvo, è perverso;
che l’amore ha il disamore,
che il desiderio è il respiro della vita che sale e scende,
che apre e chiude le porte del corpo, lo spazio per l’altro,
e occorre traversarlo questo mistero,
occorre accettarlo, magari scrivendone,
magari portandosi avanti col viaggio.

Ti ho scritto mille volte coi testi delle canzoni;
Ho lasciato mille lettere di te nella mani degli amici;
ho messo la vita in poesia insieme a te, spesso per te,
malgrado le cesure, le intermittenze.
una sola lunghissima poesia d’amore.

Chiara, mia stella, con te ho viaggiato fino al limite estremo
di mettere al mondo una figlia, Elène,
di scrivere l’intera vita di una regina.
Ma questa è un’altra storia, di cui riparleremo, se vuoi.
Adesso ci sei tu, invece, solo tu.
Per questo ti dico, entra, siediti, accomodati.

Non puoi non riconoscermi, sono l’uomo che ti ha colta,
sono il bimbo con cui giocavi a cavalluccio,…
Siamo gli aquiloni volati lontano,
per fare l’analista, tu, e curare il dolore di tua madre e il tuo,
per fare il poeta, io, e scrivere di noi, di questa storia di amanti
che si trovano, si rinnovano,
dopo Orfeo e Euridice, Ginevra e Lancillotto, dopo Zeus e Leda.

Entra, accomodati. E sorridi!
Non perderti per sempre dietro la maschera di gesso della durezza.
Della tristezza. Sei viva, amore,
non porti la colpa della vecchiaia di tua madre, del suo dolore,
non perderti per lei, non aggrapparti al suo sguardo.
La vita è questo vento che va e ritorna,
che sperde le ceneri ma porta la memoria.
Tua madre si perderà – come tutti, nel tempo -,
E tu l’hai amata fin tanto, fino allo spasimo.
La vita continua anche per lei,
nessuno sa quanto, e tu ci sarai, sempre,
anch’io ci sarò sempre, accanto a lei.
Ma adesso è necessario che tu ti sieda, ti accomodi un poco.
Vieni, ti faccio un thè verde al limone, che tu adori tanto,
ti porto una pastetta, magari di quelle che prendemmo a Polignano,
fragranti e gustose, con quella crema all’amarena. Vieni, ascoltami.

Adesso ti vedo, da vicino finalmente.
Vedo i tuoi occhi cerchiati di nero, così stanchi che si chiudono.
Sono ancora bellissimi. Ho bisogno di quegli occhi,
neri e immensi, per navigare, per ritrovarmi,
per sapere che il tempo che ci attende è quello dell’estate,
che la rotta è serena.
La morte non spaventa se tu mi guardi,
se tu mi riconosci, amore.

Ho bisogno del tuo sorriso, ne ho bisogno di continuo.
Ti do la vita in cambio, il gioco, la fedeltà che finora
ho disdegnato;
Ti do le case che insieme ricostruiremo;
i viaggi in Africa o a Tokyo.
Ti dono le poesie che ancora dovrò scrivere;
ti dedico l’amore e il tempo che ancora porto dentro;
ti amo, ti bacio. Faremo l’amore.
Ma tu devi sorridere, sorridermi, sorridermi.
Il tuo sorriso è il nutrimento,
Il tuo sorriso è l’ebbrezza, la follia.
Il tuo sorriso mi fa vivere e volare, mi fa vivere e sognare.
Senza il tuo sorriso – lo sai – divento cupo, violento,
cattivo. Torno a combattere la Sfinge,
corro verso la perdita, la divisione, la falsità.
Per questo, ti prego, sorridimi sempre.
Ti renderò gioia per amore, sorriso per fedeltà,
sorriso per abbraccio, preghiera, poesia.

E poi ho bisogno del tuo desiderio.
Non importa se destinato per me soltanto.
Ho bisogno del tuo desiderio.
Eravamo ad Ascoli – ricordi? Molte estati fa. Giovani.
Dormivamo al piano di sopra. La porta era chiusa,
il mondo lontano, la notte alta.
Frastuono di cicale, resina di pini, e noi sudati, sudatissimi.
C’è bastato guardarci… mi sei salita sopra,
m’hai fatto entrare dentro. Eri bagnata già prima di iniziare.
Mi hai danzato sopra con la forza e il desiderio d’una marea.
I tuoi capezzoli si gonfiano, il tuo seno ch’esplodeva di piacere
sotto la lingua.
Ti sei lasciata amare, distesa sul letto, la schiena inarcata.
Ti son venuto sopra, e dentro.
Abbiamo respirato; viaggiato insieme,
ci siamo trovati insieme, abbiamo gridato insieme.
Ho chiamato il tuo nome, amore.
Hai chiamato il mio nome, amore.
Per questo, dicevo, ho bisogno del tuo corpo, del desiderio.
Ho bisogno di sentirti bagnata.
Non conterò i giorni o i mesi, ma il tuo profumo è vita,
il tuo sapore mi rende felice, il desiderio mi tiene unito,
un solo corpo, un solo uomo, una sola parte del mondo.
Voglio restare da questa parte con te,
attendere come i girasoli che si alzano stupiti e che ruotano
alla luce, a nostra figlia, al nostro amore.
Ho bisogno che la strada sia fatta fianco a fianco,
labbra su labbra.
Lasciamoci la storia alle spalle.
La storia e la realtà ci uccidono, ci rendono statue.
Ci servono le favole.
Ci serve una favola, una fiaba solo nostra.

Qui il tempo è un indovino che sale e scende per i fianchi
di un vulcano. Intorno è l’estate.
Il grano è trebbiato; le pesche e le albicocche profumano.
Ciò che doveva maturare è pronto al raccolto.
Tutto ciò che non è nato, non nascerà più.
Io sono l’indovino che sul culmine del monte
lambisce il cratere in cui si può rinascere o cadere.
Ti trovo per caso, mia sposa, ma tu a stento mi guardi.
Hai il dolore nel petto, ti manca il fiato,
la scarpata, tutta, nel passo.
Ti porto una lettera. La tengo aperta
perché tu possa leggerla.
Ti ringrazio per avermi aspettato,
per avermi dimostrato fedeltà.
Ma le frasi cominciano a sparire, rapide,
le lettere scolorano, il testo è senza senso.
Allora mi guardi, confusa…
Mi tolgo l’abito, sto nudo. Fai lo stesso pure tu, come atto di fede.
Sei nuda, ti lasci baciare. Non basta.
Ti chiedo il desiderio. Chiudi gli occhi finalmente.
In alto, il nuovo giorno si colora di luce.
– Indovina, amore mio – ciò che voglio non è scritto
nella lettera ma in queste rughe della pelle,
in questo viaggio che ho fatto per raggiungerti fin qui.
Se mi abbracci lo capirai: le rughe dei nostri corpi
diventano una clematys, le mani e i piedi diventano radici.
Poco a poco i nostri sguardi si sciolgono nel desiderio,
nel bacio d’amore vero.
Il tuo profumo nell’aria si leverà, e poi sverremo.
Sorridimi, abbracciami, baciami.
Ti renderò gioia per gioia,
per fedeltà -.





Napoli, luglio 30 luglio 2021 – 31 maggio 2022

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Elna



I. LA SCOPERTA

Elna, memoria del corpo, memoria dell’infanzia,
respiro che distende, si stende, che si apre finalmente
sul bordo del piacere;
battito del cuore che accende al tuo sorriso
se solo ti vedo passare in una stanza;
Elna, sorriso che spalanca, sorriso che distende il viso e l’anima,
sorriso che diffonde su di ogni carezza, parola, promessa
sfiorata sul corpo;
Elna, voce di farfalla, di grazia, soffiata,
serena, sì lieve, gentile, avvolgente
come il tuo sguardo, che mette imbarazzo,
che porta desiderio,
che induce all’abbandono, limpido e buio,
ordine e caos, topazio,
vulcano che inghiotte, gioia infinita e dolore,
dolore che cambia per sempre nel corpo e l’anima;

Elna, di seta liscia, veste del mare su cui la mano scende e sale,
eterna carezza che cerca il mistero, il sesso intenso,
e il ventre profuma e si spalanca, antro dell’infanzia,
gioia di prenderti per ore, per giorni;
luce che filtra nella camera dal mare,
alito che corre sulle cosce e sulla schiena,
mani e poi dita che scrutano vogliose, trattengono, separano,
perché tu possa riprendermi e accogliermi più dentro,
accogliermi per sempre sul brivido dei gemiti
che corrono nel corpo sfinito di piacere,
e il viso che si stende sul bordo del tuo letto,
si stende a questa vita che stiamo vivendo;
le labbra che si chiudono si sfiorano si cercano si uniscono
all’unisono respirano lo spasimo l’unisono ti amo;
Elna, mia stella, mattina adolescenza, pazzia ritrovata
dolcissima infanzia verace, schiarata
la fiaba in te avvera, s’incarna;

Elna, sudata, bagnata da me, per me, insieme,
due anime che scoprono l’amore a prima vista
la vera mai vista e esposta nudità,
per quanto il giorno cada nel tramonto,
e il buio del ritorno, a casa, il pentimento;
Elna nuda infanzia infinita, fammi entrare dentro te
dove morte non arriva, dove amore s’avvera,
tienimi la mano sul ventre, la bocca sulle labbra,
e il corpo sul corpo,
dammi la gioia di prendere il volo, morire perfino
se tu te ne vai da questa vita straziata e segreta,
dammi la forza a seguirti nel vuoto di un salto
nel buio d’un ospedale,
portami con te, amore totale ferita mortale;

Elna, profumo di Chanel unica Chance che penetra
nel buio della vita in cui mi perdo,
privo di te, dolcezza infinita, cos’altro mi resta?
Cosa diranno i nostri demoni, gli idioti che sempre
ci attendono al varco,
diranno son pazzo, diranno sei pazza,
diranno puttana, adultera madre indecente,
madre che lascia perfino i suoi figli;
Elna, compagna, il giudice condanna, tu stessa ti condanni
ti infili un fil di ferro spinato tra le labbra per non parlare più,
per non gioire più, per non cercarmi più,
per non toccare più l’oceano dei corpi bagnati;
ti cuci pure gli occhi per non guardarmi più,
mentre piango e ti ringrazio, ti conosco, unica vita;

Elna la pazza, asservita e ribelle,
Elna, adorata, memoria dei sensi,
Elna futuro che deve tornare,
non ti scordare che io ti sto amando,
malgrado quel volo spiccato sul baratro,
malgrado le maschere – e quante – di scena,
non ti scordare di questa stagione
ch’è stata spezzata, violata, stuprata,
proprio adesso che sul corpo di fata la bestia infierisce;
Elna, adorata, aspettami lontano, nel buio dell’anima,
in cui gli altri non arrivano e il mostro non può scendere,
dove un tempo m’hai pregato di restare,
Elna, non ti scordare che molto t’ho amata,
che ancora ti amo, e che adesso, da qui, ricominciamo.




II. LA CAMERA SUL MARE

L’avevi già detto al telefono l’amore, mia Elna,
tornare felici soltanto per un giorno, eterni bambini eterni
che al telefono già dicono non dicono promettono s’accendono…
t’immagini mio amore… mi tocchi sui capezzoli…
e un po’ me ne vergogno,
l’amore non l’ho fatto, l’amore quello vero…
t’immagini mio amore, bagnati già al telefono,
perché la voce s’incendia, m’incendia e mi bagna,
e me ne torno a casa stordita, ubriaca,
nel bagno mi richiudo, per terra, mordendomi le labbra,
mi accascio contro il muro, mi siedo, mi tocco lungamente…
così vorrei sfiorarti domani, nel nostro piccolo antro
e il blu è un fondoscena, e il mare una distesa di lino
profumata… -.

Così s’è cominciato, d’un tratto, all’improvviso,
non rito d’adulto, non mossa di teatro… mi sono inginocchiato,
tu stavi adagiata sul bordo del letto, me solo attendendo,
ti ho tolto le scarpe di nera vernice borchiate,
i tacchi da bambina che gioca a far la donna,
mi sono piegato e mi hai detto, – per vezzo -,
ti piacciono le unghie? Le ho fatte red cristal come desideravi -;
Elna, mio amore, di te mi piace tutto,
perfino quella polvere sterrata sui talloni,
perfino il cinturino che stringe alle caviglie
gonfiate da quel sole sotto il quale ti precipiti vogliosa,
truccata al primo mattino,
dopo un rapido sott’occhio timidissimo al concierge…

E togli via le scarpe, togliamoci la gonna, le calze,
togliamo la camicia di cotone, quella bianca, quella azzurra,
quell’azzurra come il mare che intanto ci consola…
Così rapidi, e poi nudi, di fronte al primo amore
ma già rigenerati da mille e mille baci,
segreti confidati su quel che mi dispiace o piacerebbe…
– vorrei che lo sentissi Chanel o Terre d’Hermès,
l’ho messo su per te…, vorrei salissi sopra,
vorrei scoprissi tutto ma tutto proprio tutto di me…
di te l’ho già sentito da un pezzo, il respiro,
lo vedo dai tuoi occhi, mi piace stare sopra… -;
allora vieni sopra, inarcati e poi strusciati,
e bagnami sui lombi col nettare divino,
e tienimi le braccia schiacciate sopra il letto,
tienimi le gambe spaccate sopra il letto, e muoviti, e danzami,
e cercami, vicino, vicinissima… ci sei quasi… oplà,
m’hai vinto, catturato, sciulato nel tuo lago,
a lungo hai respirato, chiamato il mio bel nome, amore,
goduto ad occhi chiusi, goduto ad occhi aperti…
abbiam buttato via la cima della nave…
l’amore non finisce, non sopisce,
l’amplesso sale e scende come un flutto,
fino all’alba, fino a sera, fino a notte;
la nostra prima volta, sfinita ed infinita
volevi raccontarla di sera ad una cena
o solo per scherzarci tra di noi,
per dire che alla fine l’abbiam fatto sette ore,
l’amore, quello vero, l’amore, cento orgasmi,
e iscriverlo per sempre nel diario della vita.

Elna, mia dolce, ho tutto il tuo sapore sulle labbra
sulla pelle, e tutta la tua pelle sa di sesso, la mia pelle;
cambiamo le parole, mia stella bell’aprile,
la nostra prima volta è ancora da scoprire…
Sei stato un pazzo amore, ed io son la più pazza,
son stata tutto il tempo lì a danzare su di te,
l’hai visto che mi piace chiuder gli occhi e farti entrare,
respirare e farti entrare,
Elna, mia stella, la schiena tra le mani sui fianchi
sul tuo vitino-vespa, sul tuo culotto morbido
che adagia su di me, la notte, il desiderio,
lo sguardo sul tuo seno, e poi l’uno nell’altra, distesi,
di fianco, di fronte a questo mare.






III. IL BOSCO DI CAPODIMONTE

La veste era leggera, una maglietta rossa,
la borsa da picnic, e poi la gonnellina dipinta da Andy Wharol,
la gonna scampanata, su gambe disvelate…
E il Bosco era un’estate d’aprile, profumata,
giocosa, spensierata…

Passeggiavamo lieti, la mano nella mano,
il braccio intorno al braccio, più stretti, più protetti…
passeggiavamo lenti, dicendoci ti amo,
dicendomi sono pazza, mio principe, di te.

Così ce ne andavamo, cercando un nostro antro
in cui poterci stare, cercare, e trovar l’anima.
Che è quello che cercavi, ch’è quello che cercavo,
sul piccolo spiazzetto nascosto tra li rami
sommerso dalle voci dei passanti, qua e là,
distesi su quel telo di gomma dechatlòn,
distesi e sorridenti di fremiti e parole,
aperti sulla vita, la vita che sorprende – ti ho tolto le scarpette,
baciato le caviglie di terra appena sporche,
di menta, appena fresca,
t’ho stesa lì di fianco per mettermi di dietro,
di dietro alla tua schiena,
t’ho alzato quei capelli lunghissimi a nascondere
il tuo e il mio respiro,
e intanto con la mano salivo per le cosce,
e intanto con la lingua seguivo la tua rima…
e tu che all’improvviso, “amore, che ne dici, ci vieni dentro me…”,
ed io che proprio quello da sempre m’aspettavo,
qualcuno che vedesse, scorgesse e m’invitasse,
battendo la vergogna lo sguardo dei passanti…
ho alzato la tua gonna, che tutta eri bagnata,
balzato sul tuo corpo fremente che aspettava,
e insieme abbiamo spinto,
insieme abbiam gridato, gioito, volato…

Elna, sorpresa, che ancora mi stupisce
l’ingenua tua follia, follia che non indugia,
mia piccola monella che più non sa rigare, diritta, ricordi?
Già prima, in quel di marzo, lo spiazzo del Leroy,
mi afferri per la mano l’infili tra le calze
mi vuoi fare vedere le nuove brasiliane… Mio Dio,
quanta impazienza, che fretta, che imprudenza…
mi hai stretto la mano serrata senza muoverti
bagnandoti, bagnandomi,
facendomi volare sul miele dell’amore che ognuno
all’improvviso apprende al primo bacio
felice, beato, ammaliato in mezzo al Bosco…

Ci siamo sollevati, levati inappagati;
Ci siamo guardati negli occhi e poi baciati
facendo ancor l’amore con gli occhi dentro gli occhi,
perdendoci e trovandoci ancora dentro gli occhi.
Ci siamo rialzati, perduti, stupefatti.
Son contenta – mi hai detto -, che poi ci ritorniamo,
promettimi, promettilo.





IV. Il PRIMO ABBRACCIO

Nascevi dalla spuma del mare, come Venere,
nascevi nell’amore, mia Elna, da sempre…
Sei giunta come un’onda imprevista, una scoperta.
Ti lascio un libro mio, con sopra quella dedica
“per Elna, trasporto e conoscenza”.
E tu ti sei lasciata portare da quell’impeto
che già da tempo avevi sentito dentro te.
Mi stavi già osservando da un anno – dicevi -…
La “casa delle bambole” adesso aveva luce;
la danza dell’infanzia metteva le scarpette.
Indietro son tornato per prendere il telefono.
Ho chiuso la tua porta, guardando a testa bassa,
mi sei saltata al collo, stringendomi fortissima.
L’abbraccio, chi lo scorda!
C’è forza e c’era incontro, in quella prima stretta,
c’era anche la sorpresa di chi trova l’infanzia
e prende, s’intrattiene, si fa cogliere e baciare.
Non c’era un solo giorno in cui non m’abbracciavi…

Entravi nella stanza, saltavi tra le braccia,
come un adolescente, mostrando forza e gioco,
coraggio e verità;
m’abbracci ad occhi chiusi, mi baci e io ti bacio,
ti sfioro sotto gonna sotto veste
mi bagno di quel nettare che annunci così buono,
dolcissimo e copioso…

I giorni ci sorpassano, mio amore, ci rincorrono,
io corro a ritrovarti per gli angoli di strada, di vita, di città,
per ogni santo giorno che Dio ci ha permesso.
Ricordi quei mattini, quell’orzo, i biscottini,
con gli occhi nei miei occhi, cerchiati dall’eye liner
perché non si vedesse del mare la tristezza…
Quel mare in cui scendiamo talvolta di nascosto,
a amare e consolarci.





V. LA FIAT 500

Seguimi mio amore, perdiamoci di fuori
del tempo, fuori strada. Fermiamoci qui sotto,
la puzza e l’abbandono di questo asse mediano,
che poi chissenefrega…
ho voglia di restare, di stare insieme te.
Fa presto, monta in macchina, abbracciami poi baciami,
questi occhi voglio chiuderli sulla mia vita orribile,
ho voglia di scordare, non piangere, sognare.
Stringimi, e abbracciami, e baciami poi baciami, –
ti piacciono le labbra? Sono morbide, son belle?
Per te sono speciale? -.
Ma certo, sei speciale, sei sole e meraviglia.
– Per te me le son fatte ste labbra, questo filler -.
Baciami, e abbracciami, e spegnimi le angosce.
Ho voglia di te, ti prego, rapiscimi, poi toccami,
mi stringo alla tua mano che cerca fino a dentro,
mi perdo nel tuo vivido profumo desiderio.
Le calze, le unghie rosse, così nere le tue ciglia,
e poi quei tacchi così alti piantati nella porta,
le cosce spalancate, la gonna bianca e rossa, fiorita,
sollevata sullo scandalo, gli slip abbandonati,
le mani che mi spingono più dentro, le dita che s’insinuano,
e il tuo respiro sale, ed io e te che sale, insieme,
bagnati, per ore, mi senti ancora amore?
Bellissimo, continua… e tu lo senti amore, lo senti come sto?
Mi fai venire sempre, continua, che ti amo,
non smettere non smettere non smettere ancora.
E gli occhi che si chiudono, le bocche che si aprono,
si baciano, ti adoro.
La vita è in questa macchina, i ponti, l’autostrada.
La vita è solo questa, e tu mi fai sognare,
mi levi dal mio piombo, mi porti più lontano.
La vita è questi baci, in queste dita, è in te che scendi,
mi cerchi, mi carezzi, e stella mi fai essere…
L’amore è stato un sogno, per me. Un lungo sogno.
Per me tu sei Tesèo, l’amore che ho rapito.
Io sono la tua Elna, che a te si lascia andare.
Lontano. In questa nave.


VI. LE TELEFONATE

Son sempre così lunghe, le tue telefonate.
Mi cerchi di continuo. Chiamate su chiamate,
mattino e poi di sera, il tempo ch’è possibile.
Le nostre chiacchierate, son belle, sono allegre,
giocate, sorprese, i bimbi, i sacrifici,
le pene, le speranze, le promesse.
Le nostre chiacchierate, ricordi?

Nel bagno ti chiudevi, nascosta, sussurrando,
ti voglio mio bel principe, quand’è che ci vediamo?
La camera d’albergo, ho voglia dell’amore…
Ti piacciono i Foo Fighters? Ascoltati Everlong.
Ci ho pianto. È proprio bella.
E senti Chris Cornell, ascolta Like a Stone,
bellissima anche quella;
ascolta bene Thank you, per te, amore mio…
La sento nella macchina quando mi metto in viaggio,
l’ascolto di continuo; tu senti i Negramaro, è bella, fa tremare
e “mentre tutto scorre” -, ti mando un’astronave,
ti mando la Presenza l’eterna di Pessoa;
ti ho scritto una poesia, l’ennesima…
l’ho letta amore mio, lo dico a bassa voce,
sto in macchina coi bimbi, lo sai che io ti amo, ti prego
ancora un attimo, stasera e poi stanotte;
lo sai che m’addormento nel letto col telefono,
aspetto di sentirti, non riesco a stare senza,
ma tu mi fai impazzire, con tutto questo amore…
Elna, le nostre chiamate dal mare, dal piazzale,
dal buio del garage, le nostre chiacchierate così lunghe,
e ricercate sul lavoro, dentro casa, per le sere…
le nostre sussurrate, bagnate dalla voce
che è gioia lingua e sesso, che incanta e che spalanca,
che induce a accarezzarsi.
La tua chimera voce, che chiama a far l’amore,
mia stella così bella
– domani ci vediamo, la nostra cameretta
facciamo tutto il giorno l’amore, tutto il tempo…
che bello, tutto il tempo -.



VII. L’OSPIZIO DEI POVERI

La camera all’ospizio, l’amore tuo continuo, mai visto,
gli amplessi, gli orgasmi, a ondate su ondate
di baci su baci…

Elna, bel corpo, mia stella adorata,
ricordi ogni bagliore di quelle mattinate?
La camera nell’ombra di fronte a quell’ospizio,
immersa nel calore dell’estate,
vocìo dei commercianti e delle strade.
Apri il ventilatore, le tende son farfalle,
il letto chiama a sé le sue odalische…
Mi piacciono le unghie, mi piace accarezzarti,
mi piaccion le caviglie, le scarpe di vernice
nerissime e buttate per aria come vele,
le gonne già sfilate, bagnate dall’inizio
le nuove brasiliane, confetto rosanero…
cercavo quegli sguardi, l’attesa, il desiderio…

Già persi ci eravamo già prima di trovarci;
e quella cameretta per noi era un passaggio
tra il prima ed il domani, l’immenso ed il profondo mai visto,
che gli altri poi ci invidiano, gli Dei pure ci invidiano…
Elna, bambina, buttata su lenzuola di organza, la pazza,
le gambe appena schiuse, le mani sul mio corpo
– posso toccarti amore? E posso accarezzarti…
…baciare il tuo bel sesso, finora non l’ho chiesto per vergogna,
ma adesso ne ho più voglia, adesso ho più coraggio -,
Elna, mia amica, mio cuore, vieni sopra,
vieni dentro, resta dentro, mia Elna, mia stella…
mio principe, di schiena, e toccami, poi aprimi, poi baciami,
poi prendimi davanti, poi prendimi da dietro,
e prendimi, e leccami, e prendimi dovunque,
dimmi le parole che ti vengono alle labbra,
fammi quelle cose che ci donano piacere,
fa’ come i primati che si leccano i capezzoli, i genitali;
fa come un amante che l’ha fatto a mille donne.
Ti aspetto. Tutto è bello del tuo mondo, mi dà gioia;
ti apro il cuore mio e il corpo mio,
ti prendo dentro l’anima, per sempre.

Elna, miraggio,
trasluce il pomeriggio nell’alcova dell’ospizio,
l’amore mai visto, la nostra prima volta,
l’amore amore vero, l’amore arcobaleno,
gli amplessi gridati o soffiati a migliaia
di baci e di carezze, di orgasmi.
Son sfinita, amore mio, non ci ero abituata,
per me non c’è mai stata, mai stata tanta gioia…
Prometti amore mio che ci ritorneremo.
E questo mi dà forza di tornare giù in prigione.
Voglio fare l’amore, mio principe,
sei pazza, mia stella, adorata,
dal viso vedi l’anima, che torna adolescente,
mi contieni, mi fai perdere, mi rendi verità.






VIII. POESIA ININTERROTTA

Poesia ininterrotta la nostra, la vita che tramanda,
malgrado la cenere, le maschere, e i palpiti nel vuoto.
Venuta da lontano, è antico il tuo cercare
mia vita, amore vero, rispetto, desiderio.
Giocavi con le bambole sognavi quella casa
che ancora sta incompleta.
Volevi già danzare staccarti dal tuo suolo,
ma giudici ignoranti t’hanno imposto di atterrare,
di smetter di sognare e immaginare maghi e favole.
Un bacio era uno schiaffo agli occhi di tuo padre.
Un bacio si torceva come un salto minacciato
da tua madre alla finestra.

Oh, Elna, che bello richiamarti, sentire il tuo bel nome,
contare della grazia che pure hai conservato
malgrado le minacce l’orrore il matrimonio,
vergogna di esser stata trattata come un secchio,
lo scolo mattutino e coniugale…
L’hai tenuto, quell’amore, nascosto in un diamante,
di quelli G e F che tu adoravi tanto,
racchiuso nel tuo cuore prezioso, un bel “minou”,
bellissimo il tuo nome di luce scintillante…

Ricordi dell’inizio? Stavamo nella Panda,
la mano mi hai poggiato sulla mano, lentamente.
È nato il nostro amore, sugli occhi ricambiati
gli sguardi ricambiati, le stanze, nel segreto.
È nato, il nostr’amore, quel giorno di febbraio,
la mano e la promessa che insieme partivamo,
che il nostro desiderio profondo era sincero
su tutto, e condiviso.
L’amore era già nato, laggiù, in quello spiazzo,
s’un bacio e una promessa, buttare via la croce,
la vita è così bella se poi torna all’infanzia,
se amore è delicato, gentile, appassionato,
totale, unico e vero, esposto nudo e vero.

E noi siamo rimasti, verissimi e nudati.
L’invidia ci appestava, ma noi rimanevamo,
esposti e fieri e nudi.
La Bestia ci braccava,
ma noi resistevamo, ignari esposti, nudi,
a prenderci per strada,
a amarci nella camera, la camera sul mare.
Mai niente è stato semplice, nessuno ha mai volato,
ma siamo stati insieme nel buio e nell’offesa.
Poesia ininterrotta la nostra.
Ci siamo ritrovati perfino in ospedale – ricordi? –

Io ero là da solo, e tu sei corsa indietro a prendermi un pigiama,
m’hai fatto compagnia, mi hai steso, dissetato,
lavato e fatto uscire.
E poi tutta tremante, di fronte al melanoma,
di fronte alla vergogna di un seno troppo piccolo,
di fronte all’imbarazzo di essere spogliata…
ma io ci sono stato. Ti ho stretto la mano – mi sento protetta,
hai detto -, sulla spalla,
mentre aspettavamo l’avvocato che voleva
prenderti per mano e portarti via dal ghetto…
…ah, almeno ci siamo incontrati e insieme buttati
nel vortice dei sensi che chiamano infanzia,
infanzia o tradimento,
ma che per noi è amore, desiderio, unicità.






IX. LA FINE

Elna, memoria del corpo, memoria che risplende,
mia anima dolente. Da quanto stai piangendo?
Metto la mia faccia sul ferro che va ad Auschwitz,
chiedendo se verrai. Vengo a prenderti, a cercarti,
giro in casa, giù per strada, sperando che tu riesca
a uscire dal cancello, un attimo almeno.
Che cosa ti è successo? Che cosa ti hanno fatto?

Ho sentito dal telefono, percuotere il tuo corpo.
Ho intravisto tuo marito maledire le tue labbra,
strappare le mie foto, sputare su quei baci trafugati
da spioni volgarissimi assoldati per stuprarti.
Ho visto i suoi compari sbottonarsi i pantaloni…
i mostri suoi incarnati, uomini folli, draghi.
Ti ho vista inginocchiata, col viso insanguinato,
le cosce lacerate, a chiedere perdono.
Ti ho vista deprivata di tutti i tuoi averi,
difendere i tuoi figli da quel porco, Mangiafuoco.
Ti ho vista al suo guinzaglio diventare una cagna,
trasformata, nella luce plenilunia, affamata.

Elna, mio amore,
non posso più spiegarti il dolore che provo
di giorno, di sera, da solo.
Nemmeno ho più la forza di andare a lavorare.
Vorrei solo buttarmi su un divano. E poi morire.

Abbiamo navigato per lunghi cinque mesi.
Un tempo che dura un’estate, e vale una vita.
I ricordi sono vividi, ancora, il cuore è sottosopra.
Mai visto tanto amore – dicevi – tanta gioia,
Mai vista tanta grazia, dicevi, sono pazza.
Per me sei perfettissimo, sei l’uomo più speciale -.
Per me tu sei la prima, la gioia mai provata.
Mai più potremo amare così profondamente.
Tra noi c’è quel cordone di una madre col suo piccolo,
la mano dell’acrobata serrata al suo compagno,
il cuore condiviso dei siamesi…

Elna, tesoro, la bestia ti dà caccia.
La bestia che si aggira con il fuoco nella gola;
lo zoccolo schifoso che ti schiaccia a poco a poco…
E devi sopravvivere, salvare almeno i figli
ché un giorno riconoscano in te l’unica stella.
Ma il mio delirio è acuto e ancora ti vorrei
baciare un’altra volta, ancora un’altra volta.

Elna, piango. Non so più come vivere.
Per me non c’è più posto in cui poter restare.

Noi siamo due bambini che vogliono giocare
che parlano con gli occhi, che esplorano coi corpi.
E adesso, quest’infanzia, quest’infanzia finirà?
La musica che amiamo sfumerà?
Lo vedo, sei tornata nella gabbia,
ma sotto le tue unghie trovi ancora quello smalto
con cui c’incontravamo di nascosto a far l’amore.

Un giorno, quest’amore approderà,
farà il giro per il mondo, per le terre e per i mari, nel fuoco.
La poesia fa già posto alla gioia,
al coraggio conquistato di vivere davvero.
E tu sarai lì, aspettando qualcosa, qualcuno, chi lo sa…
Una voce che ti coglie, nel traffico, distratta;
una chiamata orribile sperata da una vita,
la voce mai scordata di me che ti richiamo…

Elna, la vita non è andata ma io sono rimasto,
trent’anni t’ho cercata, trent’anni, ti ho cercata.
Adesso tocca a te, restare almeno un giorno.
Ti aspetto nella camera sul mare,
dove un tempo siamo stati giovanissimi e beati.
Lasciami rientrare nuovamente dentro te,
dove l’odio non arriva, dove il caso non arriva,
di modo che un bel giorno si possa raccontare
che al mondo c’è pur stato un rifugio nel quale
due pazzi sono vissuti giocando a far l’amore,
due amanti sono morti giocando a far l’amore.




Napoli, luglio – dicembre 2021

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Leda



Clap. Fu l’ultimo suono che udii dietro di me,
il rumore della porta dell’ingresso si chiudeva,
un rumore sordo di colpa, di rimorso,
il passo di qualcuno che ha fretta,
e quel leone dorato sul battiporta, stanco di ruggire e intimidire
– Cos’altro d’altronde? Chi altri arrestare sulla soglia
di questa casa da cui tutti noi siamo partiti?
Io sono l’ultima a restare ancora un pò,
fissa, impalata dietro i vetri invecchiati della finestra,
quella più grande su al piano di sopra, dietro cui mi nascondo
a scrutare dai vetri, a contare le macchie prodotte dalle muffe
simili a briciole di pane o minuscoli fiori;
e allora quelle macchie cominciano a muoversi
riempiendo tutto il vetro,
coprendomi la faccia, le mani, il corpo intero.
Io stessa divento un quadrifoglio,
un asfodelo, un papavero, immerso nella trasparenza
indiscreta della finestra,
a contare chi parte e chi arriva dal fronte dell’estate,
al di là della quale vecchi eserciti in ritirata vengono sostituiti
da nuovi soldati in cerca di felicità –
padri, nonni, madri, zii, cugini -,
ognuno con la sua utilitaria,
con la propria valigia di stoffa o di cartone,
ognuno un corriere di giocattoli ancora innocenti
nella loro infantile utilità (secchielli, palette, palloni di spugna),
tutto l’armamentario per vivere distratti in questa estate che qui,
in questa casa e in questa famiglia sferzata dai venti dell’odio,
ingoiata da un mare invisibile e nascosto al di là delle montagne,
annunciava una saga, e forse lo era.
Io sono l’ultima, dunque, osservo dalla finestra
l’ultimo soldato appena partito dopo un’ultima notte
trascorsa qui nella mia casa,
nella mia stanza da letto, nuda, ancora calda dei corpi,
disfatta, tanto che ancora potresti avvertire il cigolio della rete
arrugginita muoversi su e giù, lentamente, continuamente,
come volendo ancor fare l’amore con un corpo immaginario,
o come i bambini quando si divertono a mimare i vagiti degli amanti.
Quel soldato è stato il mio amore, l’ultimo,
anche se mi vergogno ad assegnare a me stessa una tale fortuna;
l’ho visto vestirsi in fretta, come sopraffatto da un richiamo
inspiegabile, da una sorta di comando interiore,
o da un altro amore,
la giacca di lana verde appena aggiustata sul petto villoso
su cui ho intravisto piccole gemme di sudore,
macchie di sperma o di rossetto, il mio!
L’ho guardato sorridendo, malgrado non avessi avuto
nemmeno il tempo di salutarlo come si deve;
solo un battito degli occhi, un silenzioso addio,
mentre usciva imbarazzato, lui,
saltando le scale a quattro a quattro,
sbattendo la porta dietro di sé, per non scordare,
lasciando pure un guanto di pelle appeso alla maniglia
della porta richiusa in fretta. Clap.
Era l’ultima ombra che volevo osservare e poi lasciare,
l’ombra di un amore e di una guerra che non voglio dimenticare,
sebbene sia così personale, interiore, indescrivibile.

Sono stata una sacerdotessa, io.
Mi piaceva restare intere giornate in quella posa tipica
dei figuranti di scena – il tailleur anni ’30, nero,
il bel cappello a falde strette, le mani giunte a trattenere una pochette,
i piedi immobili e segreti nelle scarpe di vernice a tacco basso -,
addossati a una delle quinte laterali,
confusa tra le pieghe delle tende pesantissime di seta
che i miei piazzavano ai balconi per distendere un fondale,
su cui mettere in scena la guerra quotidiana
nella quale mio padre e mia madre si battevano
senza parlare, urlando proclami assoluti quanto inutili
sulla fedeltà, sui figli, sul dovere di ubbidire al capoclan,
o anche sul bisogno di serbare il vecchio armadio anni ’50.
Oh, com’erano sfibranti e dolorose quelle liti o quelle recite,
nelle quali non c’erano vincitori né vinti, né torti né ragioni.
C’eran solo coltellate che ci ferivano profondamente,
lasciando in ognuno di noi una lama di ferro verticale
che ogni volta, recita dopo recita, ci divideva sempre di più,
al punto che non sapevi più chi scegliere tra te e l’altro,
per chi parteggiare, a chi appartenere.
Eppure, quelle tende di velluto drappeggiato mi piacevano,
mi proteggevano dalla luce impietosa della realtà;
ci permettono di creare nelle nostre stanze
e in ognuna delle nostre vite quell’atmosfera crepuscolare
in cui tutto diventa inconscio,
tutto si confonde con tutto,
l’innocenza con la colpa, la vita con la morte,
e dove tutto è incerto e può arrivare.
Allora ti sembra di sfogliare una margherita,
se mi ama o non mi ama, e tutto può cambiare.
L’uomo che avevi amato diventa un mercenario
che tu hai fatto entrare nel ventre con forza,
per trattenerlo o per ucciderlo.
Piccoli canarini saltellano qua e là,
e ti chiedi se parlino dei frutti ormai maturi –
ciliegi, albicocchi, bei prugni -,
oppure se sussurrino i versi segreti del tuo diario,
quelli più intimi che mai hai pubblicato.
Sì, quelle tende ci riportavano in quella scena
originaria che noi tutti abbiamo condiviso,
e devi chiederti solo se l’ultima carta del cartomante
sarà quella della morte o dell’eternità.
Io, quella recita la guardavo in disparte,
come a dire che ne sorridevo, sapendo bene
che io stesso le assegnavo una forma e un’espressione,
e anzi, le conferivo quella coscienza che nessuno dei miei
aveva avuto.
Confusa nelle pieghe della tenda a me destinata,
passavo il tempo dell’estate a immaginare, allucinare
qualcosa che non avevo, o proprio d’inesistente –
di solito principi o matti cappellai.
Mi piacevano gli oggetti strani, o dismessi.
Una giara di terracotta giaceva da secoli su in cima
alla scala di legno della soffitta.
Nessuno ci aveva mai guardato dentro,
sebbene, in quel pozzo oscuro e senza fondo,
fossero state conservate per anni le ceneri di infiniti
amori bruciati,
e con essi gli oggetti più tipici dei romanzi d’appendice –
lettere, separazioni, baci appassionati,
verità poco vere o svelate après-coup -.
In essa potevi sentire la voce di ognuno di loro,
se solo vi accostavi l’orecchio;
potevi sentire le grida di gioia o disperazione;
potevi respirare il profumo dei loro corpi,
sentire il caldo avvolgerti a lungo,
tanto che mi veniva voglia di calarmici dentro.
Così, spesso mi nascondevo per ore in quell’urna cineraria.
Incontravo tutti coloro che erano morti per amore,
ossia per consegnarci l’attrazione verso l’ignoto e l’insensato.
A cominciare da te, mio principe amato.
Mi sentivo a casa, tornavo a essere invocata, adorata
“Leda, Leda, aspettami amore, ho bisogno di te”.
Immersa in quella cenere potevo rivivere tutta la vita
e la storia già vissuta, in forme diverse, in epoche diverse.
Ero Crisotemi e Ifigenia, Persefone e Euridice;
potevo restare bambina a guardare i bei giorni
nella giusta dimensione della meraviglia.
Immersa nel segreto della giara, mi abituavo a restare morta,
ad essere polvere, e quella sensazione d’indeterminatezza
mi piaceva: potevo diventare una farfalla azzurro e bianca,
impalpabile e luminosa,
sventolare sul mondo un messaggio di fratellanza, di equità.
Mi reincarnavo nella vita di mia madre, così presto scomparsa.
Era la mia regina, la mia sicurezza,
il divano su cui volevo stendermi.
Nella sua camera da letto ci custodiva le foto d’infanzia,
quelle incorniciate in argento fra tutti i parenti e gli amici,
quelle che teneva sulla cassettiera accanto al letto matrimoniale.
E già mi vedevo, in quella foto, bella e paffutella, identica a lei.
Nel grande specchio, mi piaceva imbellettarmi coi suoi cappelli,
così nobili e demodé. E nel grande armadio bianco,
amavo nascondermi per intere giornate,
in modo da rubare i segreti che “i grandi” si scambiano a letto,
al riparo del dovere della serenità da infondere ai figli.
Vicino alla sua casa d’infanzia, scorreva il piccolo ruscello
al cui fianco c’era il vecchio lavatoio.
Mia madre e le altre ci portavano cesta di lenzuola e cenere e sapone
ricavato dai maiali.
Quella cerimonia era una preghiera per me, un rosario,
in cui si alternavano auspici per un futuro di ricchezze
e piccoli rancori su questo o quel marito, quell’amante, quel cornuto.
Di fianco alla parrocchia di sant’Orso, gli uomini si ritrovavano
Nella bettola di Marcel, alticci e straqqui,
come ci immaginiamo i maschi a fine giornata,
capaci di quella leggerezza che noi donne non abbiamo,
così cariche di ricordi, maledizioni, mancati amori.
Tutte quella cerimonia, quella vita, non era la mia:
mia madre mi raccontava di suo zio prete,
del vociare della strada, della fame e la durezza
dei suoi quattordici anni;
non era mia quella vita, eppure là dentro,
in quella giara cineraria, potevo essere lei,
entrare e uscire da una storia, da un corpo,
da un tempo e una città come si entra e si esce da un pensiero,
leggera, eterea,
senza la preoccupazione della coerenza e l’esattezza.
Mi piaceva chiudermi in questa casa, nella mia stanza,
di fronte al balcone spalancato sul terrapieno.

D’estate, nel primo pomeriggio, approfittavo del pisolino
dei grandi e dei fratelli per sognare e desiderare…
Restavo in mutande, distesa sul letto,
a sognare del primo fidanzato – come lo si chiamava prima del ’68 -;
lo desideravo ancor prima di conoscerlo o amarlo,
e quel desiderio senza oggetto mi bagnava davvero,
come fosse già dentro di me…
Il vento caldo della strada, sfuggito agli scuri della finestra,
mi accarezzava come una mano tra le cosce,
stendendo quel nettare sul ventre, sulle labbra, lungo il collo…
Giornate come quelle hanno costituito la trama
di ogni mio racconto;
mi hanno permesso di crescere ed entrare nella vita
con la consapevolezza che sognare è più che ottenere,
desiderare è più che potere,
e forse per questo non ho paura a nascondermi in quella giara,
in quel dominio oscuro in cui mi fanno compagnia
gli amori e gli dèi, gli eroi e i perdenti.

Non sono stata capace di essere una prima donna,
non ho saputo far fuori le altre,
come si dice facciano le donne capaci di soggiogare
un marito – come mia madre -.
Sono stata un’ultima, sono rimasta, come vedi,
in questa casa come nella tua vita,
benché spesso sentendomi sola e desolata.
Ho amato e sofferto in silenzio,
sempre all’ombra dei grandi eroi da celebrare –
mia figlia regina di Sparta e suo padre Zeus -;
mi sono prestata a essere Leda, a interpretare un ruolo,
a custodire le camicie che mi obbligavi a stirare,
(talvolta cogliendo impercettibili macchie sul colletto);
a riporre nel cassetto i troppi rossetti di tua figlia regina,
facendo attenzione a che il tappo non rovinasse la cera;
ho raccolto gli spartiti che voi lasciavate sul tavolo,
contenti di aver guadagnato un altro grado di bravura;
mi accontentavo di farmi bella da sola,
quando voi non c’eravate,
di guardarmi coi tuoi occhi,
di toccarmi con le tue mani, lentamente, la sera,
nell’ora in cui i gatti saltano dai tetti
e la luna ci presta le sue lenzuola più bianche,
mi sedevo di fronte al lavabo, passandomi la crema e il balsamo,
scendendo lentamente lungo i fianchi,
come avrei voluto facessi tu,
per liberarti dall’incombenza di un desiderio intermittente.
E quella maschera di alghe che talvolta mi concedevo
era un gioco, un divertimento,
un modo per non svelare che la maschera,
tra noi due, la mettevo soltanto io, per proteggerti.
Tu invece, mio re, non creavi maschere ma personaggi,
o meglio trasformazioni da incarnare di continuo,
per sedurre e conquistare.
Eppure ti ho amata, qualunque cosa voglia dire questa parola;
la tua inafferrabilità mi ha permesso di continuare a immaginarti
come ti vorrei,
ha impedito che un sogno mirabile d’amore si riducesse
a un marito.
O forse avevo bisogno che tu mi stessi un po’ a distanza,
lasciamelo dire: noi cigni abbiamo il collo fragile
e le piume bianchissime; abbiamo paura di essere divorati
o peggio sporcati da mani da meccanico.
E dunque ti ho amato, e pure lo son stata, amata,
sono rimasta in questa storia che tu hai scritto per questa famiglia,
per me, per tua figlia, per tutti noi,
assegnando ad ognuno un abito e un testo.

Questa recita è stata la vita che abbiamo condotto,
non tanto come falsificazione quanto come pubblicazione,
come rappresentazione di ciò che il fondo di una giara cineraria
può contenere – il vento, il fuoco, la conoscenza,
la contraddizione, la moltitudine, l’instabilità -.
E in questo, la verità e la durata del desiderio,
per quanto un desiderio può durare,
oppure nella forma reale in cui un desiderio può persistere.
In quei pochi gesti d’amore, in quegli occhi lucenti
che in qualche notte mi cercavano,
in quelle pagine in cui mi hai fatta vivere,
ho riconosciuto tutto l’amore che tu mi hai riservato.
Trovarsi a invecchiare con te era la prova che non m’ero sbagliata,
che la costruzione di un vestito sartoriale è cosa da pungersi le dita
mille volte.
Dipingere con te questa casa,
viaggiare sulle tue ali o le tue armi, foss’anche al supermarket,
intorno all’isolato, mi ha reso serena,
mi ha trattenuta in vita, dando un senso di dignità
e rispetto al mio essere ultima.
Mi segui, mio re?

A volte parlo da sola, o forse sempre,
in questa casa di cui custodisco lo spirito dei muri
dei pavimenti, l’alito caldo che dai muri si riversa sui nostri corpi,
quando la sera tardavamo a prendere sonno,
tormentati dall’umidità e le zanzare.
Se sono una statua? Una sacerdotessa?
Oppure io stessa un’allucinazione?
Che importa ormai.
Quell’ultimo soldato mercenario con cui ho giaciuto
in quest’ultima notte eri tu.

Ho riconosciuto il profumo del tuo corpo e del tuo sesso;
ho rivisto la leggerezza del tuo animo, del tuo desiderio;
ho sentito il tu passo veloce correre via, chissà dove,
ancora e ancora. Lo vedi?
Mi hai lasciato il tuo guanto sulla maniglia,
per abbracciarmi ancora,
e io l’ho indossato, mi ci accarezzo, mi consolo.
Mi hai lasciato ancora il peso sulla rete del letto,
e il tuo peso si muove sopra e sotto,
mi fa fare l’amore. E poi, lo so,
hai fatto il giro dell’isolato,
sei rientrato chissà da quale piano di questa casa ormai vuota
ma popolata dai tuoi fantasmi e dai miei desideri.
Lo vedi?
Le tue scarpe di vernice nera – quelle che indossavi
nelle grandi occasioni o nei ricevimenti degli dèi –
sono proprio qui sotto i miei piedi,
in questa plica di velluto rosso addossato alla finestra.
Mi sorreggono, mi sollevano.
Le tue mani mi stringono.
Balliamo il tango che io ho amato tanto,
l’oblivio fa da sfondo ai nostri pensieri,
la musica ci avvolge e ci trasporta, dove nulla più si perde,
in questa casa priva dell’inutile ed effimero.
Le note mi consolano,
le mani tue mi guidano,
il tono di questa musica ci porta lontano, finalmente,
come due novelli sposi, come all’inizio,
quando non c’era che questa casa e il nostro amore.
Mi porta fuori di questa finestra,
volandomi accanto,
dicendomi “ti amo”.





Napoli, 25 maggio 2022

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Euridice


(Scena vuota. Luce crepuscolare, all’inizio, poi cangiante da un estremo all’altro dello spettro. Pochi oggetti di scena: una panca, una colonna, fogliame, qualcosa che evochi un bosco, un cimitero, ma senza descrizioni realistiche. Sul fondo di scena, saranno proiettate immagini evocatrici di qualcosa dell’infanzia, del mito, e spesso immagini e forme non comprensibili. Anche la musica seguirà questi passaggi, questi mutamenti, da melodie note e comprensibili a musiche e suoni inauditi. Euridice è vestita all’inizio con un abito neutro, quasi una tunica di tela; poi il suo abito cambia diverse volte, come per un prestigio. Lei parla a Orfeo, vestito di abiti borghesi, che sta sulla scena muto, ad ascoltarla.)



Vieni, entra, accomodati,
è così bello rivederti qui, in questa casa di cemento
immersa nel silenzio, nel crepuscolo, nel verde…
È la prima volta che vieni a trovarmi, e sono emozionata.
Lo so, hai fretta di portarmi su alla vita, tu,
ma io voglio parlartene prima, e ascoltarci a vicenda,
e poi non c’è più fretta.

Qui, tra i morti, il tempo ha il passo lungo delle attese,
quel tempo che da giovani noi tutti abbiam provato
quando c’innamoriamo, la prima volta, ci stendiamo su un prato,
guardando fuori o dentro di noi, nel sole, nel cielo, per ore …
ah sì, l’amore… è così forte e giovane e bello, questo guerriero,
che ogni guerra la dura e la vince,
che umilia la morte o la deride, la disarma
assumendo su se stesso le sue fini strategie.

Anch’io son stata giovane, sai,
mi sono innamorata di te, Orfeo;
per te ero già pronta ad arruolarmi in ogni sfida,
andarmene di casa, vivendo nei boschi,
vedendoti tornare, di giorno, di sera,
sporco di terra, ma limpido e alato;
e quella luce immensa che avevi negli occhi…
quella luce mi portava dove i treni non arrivano,
nell’orto dell’infanzia dove tutto è esaudito
ancor prima che desiderato,
dove gli alberi e i fiori si fondono in nuovissimi archetipi,
profumati e rari…

Eh sì, quando si è giovani e innamorati lo spazio non conta,
non c’è voglia di case, di ville o di poderi;
si sta bene tutto il tempo tra le braccia dell’amato,
sul suo corpo profumato, distesi e soddisfatti,
dentro a una culla per neonati,
di quelle scintillanti di sete e luminarie…

Siediti dunque, ti sento ancor teso,
come se faticassi ad arrenderti all’ignoto di questo mondo.

Sai, quando fui braccata da Aristeo, capii che la mia vita
era finita.
Fino ad allora ero stata una ragazza speciale, innamorata.
Mi perdevo nei boschi, ammirando la bellezza dei fiori,
parlando con gli alberi, giocando a nascondino coi cerbiatti.
Una sorta di ebbrezza mi assaliva di continuo,
potevo sentire più cose di concerto,
amavo chiunque, saltavo sulla corda, nuotavo nei fiumi;
m’importava di dipingere ninfee, fotografare la lince
o i colori della neve.
Soprattutto mi perdevo nel desiderio di te, mio Orfeo,
non vedevo l’ora di incontrarti, perché mi baciassi,
perché mi stendessi sul prato fiorito ed entrassi… dentro di me.
Allora chiudevo gli occhi e un brivido di gioia mi prendeva
così a lungo che svenivo.
E se qualcuno mi avesse detto che potevo morire
per quell’amore gli avrei gridato sì, sì, sì…
non volevo che restare in quel deliquio che ci fa essere
fibre dell’universo, senza per questo tradire lo sposo.
Ero libera di amare, di amarti, di cambiarmi in ogni forma
del mondo,
giocando a quel teatro delle maschere che rende inafferrabili
gli amanti e le favole.
E tu eri lo sposo ideale, così abile alla musica,
così bravo da sedurre uomini e dèi, tutti,
così colto da contendere ad Apollo lo scettro di poeta.
Eri il mio doppio, sbarazzino, coraggioso, irriverente:
non avrei potuto legarmi che a te; eri il sogno di una vita
non dissolta nelle piccole incombenze quotidiane,
l’esempio di un amore non consunto o raggelato,
non mutato nel rimorso di una iena, imprevisto e ferale.
Eri un uomo, un compagno, un amore che non passa,
l’alito che attraversa ogni elemento, ogni idea,
ogni conflitto del mondo e lo compone,
lo riporta a un’unità che ci commuove.
Il sesso con Aristeo mi ha uccisa, obbligandomi ad essere metà,
una sola metà del tutto, soltanto una donna, un’adulta,
una sposa,
fissata come una statua nel ruolo di massaia.
Non mi ha uccisa il serpente.
Poverino, era solo un giocattolo di gomma.
Mi ha ucciso la prospettiva della normalità – come la si intende –
essere un’unica immutabile entità,
vivere la vita per qualcosa, per qualcuno, ma uno solo.
Mi ha uccisa la fame del controllo, del possesso, la totalità
che la vita normale – quella dei vivi – comporta.
Volevo stare al mondo senza definizione, io,
senza sapere chi essere.
Volevo gioire degli altri e con gli altri, con tutti gli altri…
Fossi rimasta viva, con Aristeo o con te, mi sarei trasformata
in una dea, adorata e celebrata, ma morta nell’animo, amputata.
Per fortuna, Persefone ha avuto pietà.
Lei conosce le lacerazioni, le divisioni, le rinunce.
Lei sa cosa significhi essere costrette a transitare
da una parte all’altra, da una maschera all’altra,
a sembrare serene mentre il fuoco e il desiderio ci posseggono.
Mi ha mandato la morte, sua ancella, a salvarmi,
mi ha mandato la sua morte a salvare la mia anima
e il mio amore per te, Orfeo. Anche questo.
Soprattutto questo.

Sai, i sogni non sono così distanti dalle cose da essere al sicuro.
Spesso può capitare di afferrarne qualcuno,
e questo scoppia come un palloncino gonfiato,
di quelli colorati che i bimbi trattengono col filo di spago.
Passare con te la vita ordinaria significa scoppiare,
e allora di quel sogno non resta che la pelle afflosciata.
Io e te diventeremmo soltanto persone, anziché sognatori,
diventeremmo sposi, anziché amanti,
soggetti alle catene del controllo, della moralità,
e del nostro amore, del nostro desiderio che ha fatto storia,
del nostro spirito che le cose del mondo ha animato,
di tutto questo non resterebbe che un rilievo di qualche artista,
sbiadito su un cratere o su una metopa.
No mio Trace, questa pena non vale noi due.

Qui, fra i morti, posso fare ciò che volevo,
fuggire dalla gabbia della coerenza o dell’opportunità
– come diciamo quando deprechiamo il desiderio dell’altro
senza apparire bigotti o invidiosi -.
Ho potuto lasciare libero te, mio amore, e tutti gli altri.
Ognuno degli amici, dei parenti, dei colleghi, dei discepoli,
ognuno è stato libero di scordarmi oppure no,
di andarsene o tornare,
guidato soltanto dalla verità di un desiderio ritrovato.
Non ho legato nessuno a me stessa,
non ho ingabbiato nessuno in un ruolo immutabile,
non ho chiesto a nessuno degli amori di amputarsi,
tanto più se ritenevo di non essere capace
a soddisfare il suo bisogno.
E gli altri defunti, hanno avuto per me lo stesso rispetto
che ho avuto per loro,
hanno condiviso non il possesso ma la molteplicità,
hanno scambiato con me la gioia del corpo,
non il piacere striminzito ed egoistico che appaga chi lo cerca.
Qui – ti dicevo – grazie alla ricchezza dei vissuti e delle forme
con cui restiamo al mondo, ho potuto sentire per te
lo stesso desiderio dei vent’anni.
E tu, sei stato libero di volermi e di sognarmi,
perché assolto dalla vita, dal legame soffocante dell’unità.
Non parlo di fedeltà, parlo di un unico modo di stare al mondo.
Sei libero, capisci? La libertà è l’essenza della vita, della verità,
anche se non della normalità, e certo del desiderio.
Ti permette di venirmi a trovare ed essere qui con me, ora.
Se ti dessi la mano, e di nuovo tornassi alla vita,
la luce ipocrita degli altri, dei giudizi e dei compromessi,
mi spegnerebbe,
spegnerebbe quel desiderio che mi anima e asserena,
che mi spinge a riconoscere il bello anche nel vuoto, nel buio.
Se ti seguissi sarei tua moglie, certo, ma solo questo,
sarei cupa e malinconica per ciò che è da rimuovere,
e i miei occhi si velerebbero di un pizzo di acredine o di colpa.
Tu saresti legato per sempre al mio viso, castrato e insoddisfatto,
proveresti colpa per me, sentiresti di non riuscire
a riparare la ferita,
faresti di tutto per me, ma inutilmente.
Ben presto la colpa e l’impotenza si muterebbero in rabbia,
in odio, e non sapremmo più chi siamo, nessuno dei due.
A quel punto, saresti anonimo, saresti Aristeo;
non ci sarebbe differenza tra te e quel pastore possessivo.
Capisci? Per questo son felice di restare qui altrove.

No mio Trace, questa pena non vale per noi due,
Orfeo e Euridice rimarranno due stelle, saranno galassie,
per sempre ammirate.
Ognuno potrà intravvederci la luce dei suoi sogni.
Per me resterai il compagno di viaggio, stimato, desiderato.
Nonostante le molte forme che la mia esistenza assumerà,
nonostante gli elementi naturali con cui mi fonderò,
sarai lo spirito che non si perde, l’alito che tiene in vita,
la stella a cui rivolgersi.
Ti conosco, Orfeo. Ci conosciamo, siamo uguali io e te.
Per questo, comprenderai.

Qui, la morte s’inchina all’Amore e al Desiderio,
sapendo di non essere all’altezza degli dèi;
qui, la Vecchia non riesce a levarsi più in alto della terra,
e, su tutto, si vergogna di bastare a nessuno,
nemmeno a se stessa.

È una serva, la morte; nessuno è gelosa di lei;
nessuno combatte per averla, non ha fascino, è bruttina,
non ha tempo né pace. Spaventa,
ma è solo questo blocco di cemento, questo scavo nella terra,
questa cassa di legno o di ferro nella quale ci ripongono i vivi,
temendo si rifiuti quell’eterna cerimonia
della veglia e la preghiera,
non sapendo viceversa che noi vecchi stiamo fermi o distesi,
occupando poco spazio, di modo che nessuno si preoccupi di noi…
Perché noi siamo altro, ci dedichiamo ad altro,
siamo liberi di assegnare le giuste parole alle cose, finalmente,
guardando al mondo e a noi stessi poeticamente.
Luci e colori ci accolgono festosi, qui, fra i tronchi dei cipressi,
e noi stessi trasmutiamo, arcobaleni.

Di fresco mattino, al cinguettio dei pettirossi,
il primo raggio di sole ci toglie i calzini,
ci scopre le dita dei piedi, come una geisha accorata e materna;
ci massaggia, ci profuma, si cura delle unghie,
tingendole di smalti sfavillanti ed intensi
– rosso cristallo, verde oceanico, azzurro marzolino -.
A poco a poco il sole si alza sui tetti, svelando i fastidi e i desideri,
creando un florilegio di colori in cui danzare,
ognuna con l’abito più bello che ha sognato,
ognuna calzando le sue parigine,
ognuna aggiustandosi la gonna color crema,
quella che di solito si usa a un matrimonio.

Oh sì, il tempo è lento qui,
è così bello prendersi cura di se stessi mano a mano che il giorno
distende il suo ventaglio, curando nel dettaglio ogni piccola azione,
avendo per mano ogni tinta della terra per truccarsi,
ogni luce del cielo per vestirsi,
ogni vento della rosa per profumarsi.
Ognuno di noi ha la sua ancella servile, la morte,
ubbidiente e preparata a ogni nostro comando…
Ci aiuta a girarci sul fianco di notte,
ad alzarci e passeggiare per questi viali in cui c’è il nostro presente,
i parenti, gli amici, gli amanti,
tutti quelli che vogliamo aver vicino in questo cammino nell’aldilà.
La morte ci serve – ti dico -, ci lava, ci medica
se talvolta ci graffiamo con un ramo;
si prodiga per noi di modo che l’Amore non se ne abbia o la ricacci,
impedendole più a lungo di badare a noi altri.

Qui, Orfeo, il potere smette di esistere,
e i forti, i potenti, che soggiogano gli uomini con le armi
e con le azioni,
rimangono nudi, vestiti soltanto di un telo bianco,
per aiutare la morte a servire gli altri,
per imparare come scolari che la gioia dipende dall’altro,
dal suo sguardo mite o accigliato,
dal suo animo accogliente o raggelato.
Questo, i potenti non lo sanno da vivi,
è per questo che gli assegniamo di imparare ad ascoltare,
a curarsi dell’altro, magari uno solo,
aiutandolo a distendersi nel bagno,
strofinandogli le spalle con il guanto di spugna,
inclinandogli la schiena, toccandogli la testa
con le dita e con l’amore che sono dei papaveri
passati tra i capelli.

Eh sì, il potere non esiste qui,
dove lo spazio dei morti è quello dei ricordi
con cui ci richiamate,
dove il tempo dei morti è quello che voi vivi ci dedicate
quando venite a trovarci,
un poco imbarazzati, un poco spaventati,
non sapendo che noi morti non vogliamo altre parole ma presenza,
vogliamo braccia su cui saltare, abbracci tra cui cullarci,
labbra da baciare.
Abbiamo bisogno del vostro corpo qui, con noi,
del vostro animo su cui sederci.
È questa la gioia: ci facciamo trovare puntuali con voi,
ci copriamo degli stessi colori con cui ci vestite, vi rassicuriamo,
vi portiamo in dono il sole, tenuto per mano come un fiore
o un lecca lecca,
lasciandovi sugli abiti la sensazione dell’imponderabile
e della serenità.

Qui, il potere non esiste dunque,
poiché il tempo e lo spazio son quelli che noi vi concediamo,
quando veniamo a trovarvi nei sogni o negli incubi,
o che voi ci concedete, con le vostre preghiere, i vostri ricordi,
i vostri canti, i vostri sorrisi distratti.

Qui, le parole hanno la bellezza dei fiori, la sostanza del vento,
il tempo è un brucomatto che viene a risvegliarci di mattino
facendoci il solletico, leggendoci il giornale davanti a un caldo thè.
E la pioggia, la vedi?
Le gocce saltellano pian piano di tegola in tegola, di ramo in ramo;
gocce azzurre di santità scintillano a migliaia
come costruendo un lampadario,
di quelli magnifici che pendono in hotèl,
oppure un frangiporta di fili di svarovski,
com’è di quei cannilli che un tempo si mettevano alla porta
perché non ci scocciassero le mosche,
o il vento non smuovesse i fazzoletti sulla tavola da pranzo.

Qui, regna la musica, in un modo che nemmeno conosci.
Non abbiamo bisogno della vista per controllare gli eventi.
Li accettiamo con la grazia di chi ascolta ogni moto del mondo,
ogni vibrazione delle cose – il distendersi della pelle,
delle articolazioni, del legno su cui sediamo,
della rugiada che ci raggiunge nel pomeriggio -,
e cambiamo tutto questo in note da suonare,
in fughe, terzine, quartine, vibrati, pianissimi, glissati.
Privi della vista come siamo (ci è mai stata utile, d’altronde?)
abbiamo imparato a tradurre il dettato melodico della natura
in una sinfonia, la cui meraviglia sta nel piacere
di ascoltare insieme, di volare coi ricordi e le emozioni insieme,
immersi in quel flusso di piacere che è l’armonia.
E tu questo lo sai Orfeo, esperto come sei di musica e desideri.
Ma noi, la musica, la produciamo naturalmente,
a differenza dei vivi che usano il tempo per conquistare,
lo spazio per soggiogare, il corpo e gli strumenti per colpire.
Le mani vi ingannano, i pensieri vi sembrano forti;
il vostro corpo lo assecondate, lo proteggete, lo potenziate
come si fa con un cane da guardia,
non sapendo che in questo è il potere della morte,
quando la combattete con azioni e intelligenze
facili da sconfiggere.
Così la morte stravince sui vincenti,
sui dittatori paffuti e patetici, coi loro spazzolini da denti
graffiati sotto il naso,
sulle loro uniformi ingessate dalle lacche,
così rigidi e soli nei loro sarcofagi costruiti nelle piazze,
di modo che tutti li vedano e ricordino.
Che illusione, che delirio!
Pensare di guadagnare l’altezza e la centralità
con qualche scultura, quando invece la morte se la ride,
sapendo che ben presto vincerà, sui bronzi e sui graniti.

Qui, invece, in questo campo fiorito e alberato,
l’altezza la affidiamo a voi altri, alle vostre preghiere,
alla vostra passione di sognare, di sognarci,
sognare al nostro posto.
Qui, nel nostro giardino d’infanzia, si può essere centrali
soltanto accostandosi agli altri, abbracciandosi agli altri
tenendosi per mano, o facendo un girotondo,
come in qualche scampagnata da bambini per pasquetta.
Qui, al centro non c’è una chiesa, un’idea,
non ci sono palazzi o teoremi da ammirare: ne rideremmo!
Qui, al centro, ci sono i ricordi; ci siamo io e te,
quando vieni a trovarmi con un fiore tra i pensieri.
Qui, al centro sta il gioco, il bello, il fuoco,
quando le sere noi morti ci troviamo davanti al gran Teatro
di marmo, seduti attorno al fuoco a mangiare il tajine
oppure ballando, battendo tamburi,
facendo vibrare le foglie degli alberi coi canti e le preghiere
gioiose e serene.
Qui, l’impegno – come diresti tu –
non è pensare ma sentire, non è capire ma comprendere,
non è avere ma condividere.

Ricordi Penelope? Era fedele a Ulisse – come lo ero io per te -,
e quanto l’ha aspettato. Era questo il segno del vero amore?
O forse del possesso, dell’angoscia, dell’abbandono?
Adesso che è qui, Penelope, adesso lei ama Filocrate e Menelao;
ama il telaio e sua madre, ama i figli e la pittura,
il suo sposo Ulisse, lo ama quanto prima e più di prima,
lo copre di desiderio, lo spoglia con gli occhi
ogni volta che s’avvicina.
L’assenza di confini, di spazio e di tempo, non le ha tolto il desiderio,
gliel’ha moltiplicato, lo ha reso più acceso.
E lui, Ulisse, l’ambiguo infedele marinaio – come lo chiamavano -,
è diventato un ospite prezioso che mangia nella mano di Nausicaa,
senza che questo gli impedisca di godere di Penelope!
Qui, la sfida è diversa, dunque; l’armonia è nell’insieme,
perché ogni incontro d’amore ci riempie – anziché svuotarci –
di linfa e di gioia,
grazie alla quale possiamo amare più forte i nostri amanti.

Ti ho stordito amore mio? T’ho stancato?
Beh, non prendertela! Ascoltami come una sorpresa,
come un mistero, una musica nuova,
un nuovissimo primo sogno.
Quello che senti qui, attraverso di me, è più della vita,
anche se tu non la chiami più vita.
La vedi la cinciallegra che salta e si nasconde su quel larice?
Lei ride e svolazza anche se non tu non la vedi,
e canta per te, anche se non la comprendi;
e quella siepe di pitosforo e di arancio? La senti?
Il suo profumo ti avvolge copioso, ti intride le vesti,
il ricordo del futuro, qualunque cosa diventerai;
e questa luce di mezzogiorno, alta, avvolgente,
calda e comune come una scuola primaria, la vedi?
Ci scalda, ci ristora, ci prende per mano, ci porta a passeggio.
Ne sentiamo sulla faccia i bei raggi,
e questa percezione ci guida all’incontro con gli altri,
come il vento che spinge la nave.
Che questa luce ti giunga attraverso la terra
o dal vetro dipinto della cappella, o anche sulla foto di ceramica,
tu impari comunque a acchiapparla,
di modo che i raggi ti guidino lontano.
Non abbiamo bisogno degli occhi per vedere, quindi
– quelli d’altronde li abbiamo donati già ai vermi,
come pure tutto il resto -;
Non abbiamo bisogno di scrutare per avere o legare qualcuno.
Abbiamo imparato che c’è sempre un bel suono, una luce,
una qualche molecola del mondo che ci tocca, ci riguarda,
ci viene a chiamare, ci porta in vacanza, ci invita a cena,
ci fa desiderati e amanti.
Di sera, nelle notti d’estate, frammenti di stelle
riemergono dal suolo e saltano sui tetti, sugli alberi, come Elfi.
Siamo noi che giochiamo a rincorrerci,
sapendo prima o poi che in un’altra versione del tempo
sott’un’altra figura del reale, ci troveremo a baciarci,
seduti sul balconcino del castello di biancaneve
o su qualche altro balcone del mondo su cui una lampada
stia accesa.

E i profumi, li senti?
Queste note di agrumi, di aldeidi, di eriche e mughetti:
queste note sono il richiamo di Elène per Paride;
la sento, la conosco, la conosci anche tu:
si specchia davanti ai vasi di fiori che ornano le tombe
truccandosi con cura, coprendosi di essenze inaudite,
cogliendo cedri e giacinti e legnetti stagionati
che sappiano di bosco, di foglie, di cuoio e di castagne…
Ricordi il suo rossetto? Il misterioso ombretto?
Li senti i suoi richiami? Anche lei ha fatto la nostra scelta:
rinunciare ad una vita regolata, per continuare ad essere amata
in ogni forma e pulsazione del mondo.

Qui la storia è dovunque, e tu sei dovunque,
sei la fibra del legno su cui riposi,
la seta del marmo su cui t’addormi,
sei l’aria che ti avvolge e ti attraversa; sei qua e sei là,
sei l’alito che sale dal corpo e infonde il desiderio;
sei polvere che sale dalla terra e si posa sul bottone
della camicetta – quella d’organza – ricordi?
me l’hai regalata per l’ultimo compleanno -;
sei il corpo che sublima nell’aria,
nella splendida e calda bell’aria agostana;
e quest’aria di campo, di ogni campo del mondo,
sei tu che ritorni dalla storia, dalla materia,
e prosegui dappertutto.

Questa luce di mezzogiorno, questo incenso di arance,
questo volo di rondini, quest’incontro di elementi;
questo essere nel mondo diffusi,
in un ramo di gelso, una radice, una molecola del vento,
tutto questo aldilà non esiste da vivi,
non è storia o teoria, e non è religione.
Non devi capirlo, non esiste, non devi crederci.
Devi costruirlo, piuttosto, giorno per giorno,
come si fa col sogno, con l’amore,
come si costruisce un oggetto interiore.
Incontro dopo incontro, perdita dopo perdita,
potrai costruire questo modo di stare nel mondo diffusi e differenti,
al di là delle linee già note dell’esistenza.

Devi provare, provare a sentire che ogni cellula,
ogni parola, ogni emozione, ogni pensiero per quelli che amiamo
è un composto di forme e di sostanze senza principio,
che non posso decifrare ma che pure esistono,
e sorpassano il presente,
come una sinfonia lo spazio che la contiene.

Per questo, amore mio, torna pure di sopra, alla vita,
al dispendio di forze e sentimenti per guadagnare un altr’anno,
un livello di carriera, un margine più alto di certezza.
Ti ringrazio per avermi invitata a seguirti di sopra,
per avermi proposto la vita, di nuovo.
Preferisco restare di qua, dove sono.
Lasciami dovunque, a ogni cosa, a ogni tempo.
E non angosciarti se non vedi o non mi tocchi.
Fidati. Ci sono più di prima. Ti amo più di prima.

La vedi quella splendida farfalla, nero e arancia?
Brilla, si avvicina… è mio padre, viene a prendermi…
Mi porta al ristorante, sotto il lume delle stelle,
mi dona le carezze che ho mancato nella vita,
mi porta le carezze che tu mi hai regalato;
mi canta le parole che tu mi hai dedicato.

Chiudi gli occhi, preparati anche tu, adesso.
Ti aspetto.

(La musica e le luci si attenuano e divengono stranianti, per qualche minuto, durante il quale Euridice scompare lentamente nel fondoscena. Dopo, la scena, tutta, diventa un interno di casa, nel quale rimane solo Orfeo, a biascicare qualche parola senza senso).


Napoli, 10 – 19 maggio 2022

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Aiace


(Scena vuota. Buia. Appena una luce sulle cose e sulle azioni. Aiace è vestito bene, in abito scuro e cravatta. È deceduto appena un giorno prima – la sua morte è stata celebrata pubblicamente -, ma adesso è di nuovo in scena, presente. È steso su una poltrona, di tre quarti rispetto al pubblico. Ascolta. L’altro, Ulisse, è sopraffatto dalle emozioni per questo ritorno dell’amico. Si muove lentamente, comincia a parlare rivolgendosi all’altro e chiamandolo indifferentemente con l’uno o l’altro dei suoi due nomi: Aiace/Alfonso. Musiche diverse accompagnano o intervallano il monologo.)



Vieni entra accomodati,
sei così bello con quell’abito nero con cui ti abbiam vestito
la cravatta sì elegante, quegli occhi azzurro mare,
e quel viso sorridente e così bello…
A quest’ora del giorno, in quest’ora di fine marzo,
la pioggia cade lentamente,
come riflettendo sul dolore capitato.
Gocce di cristallo rimangono, appese alle ringhiere,
formando un lampadario di case aristocratiche
in cui anche la morte appare affascinante.
Vieni, vieni dentro, ritorna,
ho bisogno del tuo coraggio che m’ha sempre consolato,
quando si lottava tra bande rivali
o quando accadeva di scendere in cantina
a prendere dell’olio o del vino, una forbice da pota,
una panca, e i ragni, sospesi per un piede,
ci attendevano sul varco per prenderci in giro…
Allora ti afferravo per il braccio perché m’ascoltassi
“sbrighiati Alfò, tuo padre ci aspetta”.
Ma in fondo era lo sguardo a rendermi sereno,
non la guapparia con cui mostravi il petto.
Oh, mio dolce fratello bellissimo e forte e buono,
coraggioso e aitante, sei tornato meno male!
Che spavento!

Qui da noi, il cielo promette l’estate.
Il primo mattino si tinge di topazio, di grano,
la bruma sottile ci chiude le palpebre, portandoci nel sogno,
di fronte a quel mare lungo il quale vanno i bimbi
sui gonfiabili a giocare,
sul balcone di Vieste dove più volte ci siamo svegliati
felici di stare insieme, di stare vivi a goderci l’estate,
spaccando l’anguria, succhiando amarena,
facendo colazione con l’avena dei biscotti,
e quella cremacaffè che tu preparavi con fare da generale…
Quanto mi piacevano quei giorni d’estate!
E come sono contento che tu sia tornato,
meno male! Che spavento!

L’altro giorno eravamo insieme – ricordi?…
…il cardiologo, il buio, l’ecografo.
C’era silenzio, avevi paura ma stavi attento.
Il giudice temeva che tu stessi male,
che l’attesa tua di vita fosse minima.
Sembravi spaventato da quell’oscuro male
che voleva sfottere te, il prode, l’impavido,
l’amico più forte tra noi tutti,
come una mosca sull’occhio di Zeus seminatore di fulmini,
ignara del potere di quel dio.
Allora t’ho afferrato con lo sguardo, come si usava da bambini
quando uno dei due scivolava in un pozzo
e l’altro l’acchiappava per la mano.
Ti ho portato di nuovo in superficie, alla luce, alla speranza.
Fammi posto – Alfò – sul lettino,
c’è da battersi, e noi ci batteremo,
c’è da viaggiare e noi lontano andremo, pure su Marte,
per farci curare.
Non spaventarti, ci sono e ci sarò, come sempre ci son stato.
D’altronde, siamo stati inseparabili
nelle nostre estati ad Ascoli – ricordi? –
Di mattina, stavo a spiare tra i cannilli quando chiamarti,
e tu, già pronto alla battaglia – scarpette, racchetta,
e la fionda immancabile –
aprivi la porta al mio richiamo, col sorriso così largo
– Ciao Enzù, jemeccinne -.
Eppure stavolta. Tanti anni più tardi, hai sorriso di nuovo.
Il tuo viso s’è disteso; ho rivisto quello sguardo
del fanciullo sulla porta, pronto a lottare.
Un raggio di sole ha colorato le tue guance,
appena filtrato dalle persiane dell’ambulatorio;
la stanza intera s’è riaccesa di vita,
il cuore ha rallentato, potendo abbandonarsi…
Siamo usciti dall’ospedale, che felici!
Abbiamo raggiunto i bambini che aspettavano impazienti
su un bel prato, a prometterci le stelle
– ciao Enzù, non devo dirti niente, ti chiamo per telefono -.
Anch’io son ripartito, nel cuore la dolcezza di una festa,
una comunione, la primavera
ché il tempo della vita è sempre più breve dell’amicizia,
e forse per questo gli amici muoiono presto,
potendo affidare all’amico le cose più belle di sé stesso,
perché l’amico ha il tempo lungo che la morte non ha.

E noi, di tempo ne abbiamo avuto.
Ci siamo detti amici quando il nome più giusto era fratello
compagno, amore, insieme fin dalla nascita,
gli stessi calzoncini, la stessa racchetta, la stessa partita.
Come si fa ad elencare tutte le foglie di un pioppo,
tutti i petali di un di una magnolia;
come si fa ad assemblare le perle di una collana,
tutti i fatti, che abbiamo vissuto, Alfò, – ti ricordi quella volta?
Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi…
e appena abbasso gli occhi,
mentre cammino per strada o mi siedo sul divano,
risento quella voce dell’autista che invitava a sbrigarsi
– “Amma chiude li porte, stem’ partenn” -;
rivedo noi due fieri, nel primo mattino, seduti vicini nel pulmann
gioiosi di partire per Foggia a comprare una racchetta,
oppure da Leone, per scegliere il binocolo
con cui scrutare i Dauni dalla nostra capanna sopra Pompei.
Dai finestrini, le case sfilavano una dopo l’altra
– quelle rosse, cantoniere, così belle nel loro abbandono,
quasi fossero papaveri issati nel grano –
insieme a quei luoghi che avrebbero segnato le nostre giornate
da uaglioni impertinenti: la jumara, dove andavamo a pescare
qualche pesce d’argento, o meglio a fare finta di pescare,
perché la gioia, la vera gioia è giocare,
schizzarsi con l’acqua, tirarsi di pietre o pallonate,
raccontare le gesta di noi futuri eroi:
– “Enzù, ieri mi sono fidanzato con la più bella di tutta Foggia,
madonna mia, non ti posso dire… e che menne! -.
E noi altri che invidia! Chi l’aveva mai vista una ragazza,
se non in qualche processione patronale,
quando litigavamo per stabilire chi dovesse portare
la Croce o la navetta… Ti ricordi, Alfò?

Vedi, ci provo testardamente, ad assemblare una dopo l’altra
le cose, – le pietre, le fionde, le palline, le musicassette,
la nostra amata Vieste, la nostra Margherita,
dove ogni volta l’estate finisce e comincia.
Qui, su questo tavolo di legno che equivale alla terra,
c’è steso il mondo, il nostro mondo e il nostro tempo,
e a me tocca la memoria,
come l’ultimo archivista che sistemi i suoi papiri,
sperando che un bel giorno qualcuno s’appassioni.
Io sono l’archivista, che prova a unire i pezzi,
come temendo di disperder l’essenziale
– un segnale, una chiave, la chiusura di una collana –
sebbene, lo sai, qualcosa sfugge sempre,
sottraendosi alla nostra memoria
prima ancora che alla nostra comprensione,
e noi dobbiamo benedirla questa perdita, che permette
di colmare la memoria, di unire i pezzi,
di inventare o raccontare le storie più pazze, le più sciocche…,
– questa foto, la vedi, sul pavimento? –
Eri appena diventato “lupetto” e iniziammo a girare
per i borghi della daunia con gli Scouts.
Ti piaceva raccontare quella volta in cui a Orsara
ti eri prestato a uno di quegli scherzi goliardici
che segnano la vita dei più forti:
mettere il dentifricio sulla bocca del più scemo
di modo che al mattino lo sfortunato non potesse
nemmeno guardarsi allo specchio, tant’era gonfiato
il suo muso da “braciola”!
Oppure quando, diec’anni più tardi, da militare,
hai trovato un Maggiore che voleva umiliarti,
e l’hai minacciato di prenderlo a calci,
sprezzante come sempre di rischi e conseguenze!
Storie come queste hanno forgiato il tuo mito di impavido,
Aiace, il più forte, prima ancora che la trama
dei nostri racconti e le nostre esistenze.

Per noi, l’infanzia è stata una sfida per essere stimati
dai padri; una sfida continua per esser memorabili.
Si facevano gare di calcio sull’asfalto,
giochi violenti con le fionde e con le frecce;
si affilavano canne sulle Murge, si facevano radiette in terra cotta;
si sparavano battute a cent’all’ora sul portone delle suore;
si alzavano aquiloni di carta velina comprata da P’trina;
si scalava la facciata del convento per salire sopra il tetto
e star fermi in equilibrio.
Oddio, Alfò,
l’abbiamo fatto davvero? Siamo stati così crudi in battaglia?
Abbiamo preso a fiondate i nemici del nascondino?
Abbiamo accoppato i lampioni di Santa Maria?
Abbiamo sfasciato le finestre del Santuario sulla via del Cimitero?
O forse questa è storia,
quella che abbiamo intessuto e narrato per noi due,
davanti alla legna che crepita in casa?
La storia da contare agli amici,
perché nulla è più bello del racconto di Aiace e Ulisse,
di queste pages d’Odyssée che un giorno avremmo letto.

Ecco lo vedi, ci casco ancora, sto ancora ricordando.
Il mare è negli occhi, nello stomaco.
Respira e si calma, ruggisce, minaccia di scagliare cavalloni,
ma noi siamo bambini che altro non aspettano a tuffarcisi dentro.
Sto ancora cedendo alla tentazione del flusso ininterrotto,
dell’album senza fine;
non posso pensare che tu te ne vada,
proprio adesso che sei tornato dalla morte,
proprio adesso che siamo qui, con te, a piangere di gioia….
Lo so, ti stiamo stancando coi nostri ricordi,
come fanno i vecchi che giocano a carte,
e ripetono le cose cento volte…
D’altronde, sei questo tu, la nostra memoria, il nostro sorriso.
Noi vogliamo toccarti, fare quello che non facciamo mai,
varcare la soglia del desiderio, adesso che sei qui, vivo,
in mezzo a noi;
varcare la soglia che abbiamo superato solo quando
ti abbiamo lavato e vestito da morto;
solo allora ci siamo concessi di accarezzarti,
scoprire ogni tua piega della pelle delle mani delle cosce,
chissà te ne sei accorto, malandrino!
Sempre pronto a girarti per le donne…; Ah mostr’!
Figurati se non le hai sentite le nostre carezze,
‘ste mani impertinenti con cui ti abbiam vestito
con l’abito buono da cerimonie – il matrimonio, la comunione,
la prima casa, la prima guerra, la prima morte -.

Ora quell’abito voglio cambiarlo;
io voglio, Letizia vuole, Giulia tua figlia e Matteo,
spogliarti con la stessa cura con cui ti abbiam vestito
perché sei vivo e sei tornato, e noi ti guardiamo
dal cristallo delle lacrime che più non arrestiamo;
Io voglio, noi vogliamo
mangiarti di piacere, mangiarti avidamente
succhiare il tuo bel nettare di miele di sorriso,
sfamarci della forza del coraggio, mangiarti e trattenerti.

Ecco, vieni tra noi, sei tornato dopo un giorno dalla morte.
Chissà che cos’hai visto, se hai avuto paura?
Potevi respirare? Il buio t’ha angosciato?
E tutto quel silenzio? Hai parlato con tuo padre?
La formica s’è infilata nei calzoni? –
Chissà se ci sentivi gridare e disperarci, di là dello stagno
con cui chiudiamo i morti, pensando che quelli siano immobili.
E invece se la ridono! Se ne vanno, quelli,
senza rumore, come lo spirito, il desiderio,
gironzano pei campi, s’aggrappano ai ciliegi, ne fanno scorpacciate,
e cantan le canzoni che ripassano alla radio,
si sfottono coi figli, che sembrano felici,
si godono la notte tra le cosce delle donne!
Ah, i morti! Leggeri e immorali,
violini, violoncelli, rondini a primavera, irrequieti,
proprio come noi, che felici correvamo
sulle sponde della Villa,
stendendo le mani per toccare la ringhiera,
o afferrare nel buio qualcuna delle lucciole
nascenti e misteriose, che sfiorano in silenzio,
levandoci al segreto di un mondo sconosciuto.

Lo vedi? Parlo dei morti come dei vivi.
Ma tu, vivo, sei sempre stato, nel senso di vitale, vivace, gioviale
per noi che ti seguiamo per vigne e per mare.

Sono sicuro che hai sentito, mentre piangevamo
davanti alla tua tomba, angosciati dalla mancanza,
perché sappilo, amico mio, la notte della tua morte
anche noi siamo morti, ci siamo perduti.
Il nostro viso si è fatto di cenere,
le nostre orbite più scure, le sclere sono iniettate,
la voce era un singhiozzo col quale abbiam pregato.
D’improvviso, la casa s’è sbriciolata,
i mattoni rossi di Pompei sono scomparsi,
i pini freschi del Boschetto non c’erano più, come dissolti,
e ognuno dei passanti sembrava un sacerdote da interrogare.
Allora sono corso a cercare la mia casa;
ho gridato per vedere se sotto le macerie qualcuno c’era
– mio padre, mia zia, il mio barboncino -,
ma niente, tutto sparito. Sono corso a chiamare te,
ma lì dov’era il tuo cortile s’era messo un venditore di fumo,
col suo banchetto di ferro tagliente,
la sua stufa di ghisa, e i pezzi di legna spaccati a cuneo,
tra cui potevi scegliere l’essenza che volevi,
ulivo o castagno, noce o mandorlo, o pino.

Che senso avrebbe avuto tornare più ad Ascoli?
Cosa avremmo festeggiato?
Di cos’altro avremmo sorriso? Con chi altri avremmo giocato?
Per questo ti abbiamo chiamato, ognuno con la sua voce,
col proprio bisogno inespresso che tu solo puoi colmare,
da allenatore, commercialista, da contadino,
da padre, da figlio, da marito, da amico.

Sono sicuro che tutto abbia sentito,
che in fondo ti sia piaciuto vedere quella folla
assiepata attorno alla bara,
tutti quegli uomini stipati nella piazza che t’acclamava,
gli applausi al tuo passaggio, come fuochi d’artificio.
C’eran tutti al tuo funerale, ammiratori e invidiosi.
Mani giunte nella preghiera e mani strette come tenaglie,
mani chiuse nelle tasche, intrecciate le une alle altre.
Finalmente sei tornato, adesso,
o almeno così sembra a guardare il tuo sorriso, che pare sazio,
le tue scarpe pien di sabbia, e il coltello ancora rosso per l’anguria…
Mettiti comodo qui, in mezzo a noi,
su questa spiaggia di Margherita dove abbiamo trascorso
le ore più liete.
Ci son sempre i tuoi figli che corrono nell mare
e ti chiamano a giocare con loro;
c’è sempre Enzuccio che fa il mattacchione col cellulare
sul “sacro mare di Margherita”;
e poi ci sei tu, che aspetti pigramente di alzarti dalla sdraio,
di aggiungerti in acqua a noi che ti invochiamo,
un poco sbadigliando, atteggiandoti a duce…

Mettiti comodo dunque. Adesso lo sai,
passare per la morte, anche se un giorno, fa spavento.
Non sappiamo cosa pensare, non sappiamo cosa dirai.
Forse abbiamo paura che tu ci dica la verità sulla tua morte,
che in fondo quella morte tu l’abbia preparata –
per vedere l’effetto che fa, e se t’abbiamo rimpianto -,
o che adesso tu dica che vuoi restare morto, finalmente
comodo nei nostri cuori, nei ricordi, nei pensieri,
che tu preferisca sentire il desiderio che proviamo di te,
filtrato da un velo di marmo, e quindi più vero.
E poi temiamo che tu dica la verità sulla vita,
sul ritorno alla vita, e su di noi.
Abbiamo paura che tu ci riveli chi siamo veramente,
non dico per te – almeno quello, speriamo… -,
ma proprio le verità nascoste dell’anima,
se facciamo germogliare il grano o seccarlo,
se siamo veri o falsi, creativi o banali,
se l’ombra che ci segue è più lunga della nostra morale;
abbiamo paura della vita e della verità.
Diciamo di volerti tra di noi, parliamo del mare, di vacanze,
di passione, di viaggi e di progetti per i figli,
ma in fondo abbiamo paura di riaverti in carne ed ossa.
Non siamo sicuri del nostro desiderio, della sua tenuta.
Non siamo sicuri di avere qualcosa di importante nel cuore,
un notturno che appassioni, una rovescio in Coppa Davis,
uno stretto di Barents d’attraversare.
Abbiamo paura della vita.
Temiamo che tu ci obblighi a vedere ciò che rimuoviamo,
il nostro amore, il nostro desiderio,
ovvero la mancanza dell’uno e dell’altro.
Forse preferiamo che tu sia ricordo o allucinazione,
quand’anche non l’ammettiamo.

La rimozione ci protegge dall’angoscia della perdita,
anche se, in tal caso, la vita diventa il cammino di un bruco
costretto a strisciare,
col rischio che una scarpa qualunque ci calpesti,
col rischio di averlo sognato soltanto, il volo delle lucciole.
La trasformazione mette paura.
Tu invece sei tornato, il giro l’hai fatto,
eri un uomo e sei un angelo, eri corpo e sei alito.
Eri il tempo di un orologio dimenticato,
e adesso sei l’affetto che gira, che gira e ritorna.
Sei il vuoto che si empie di acqua sorgiva, del bene;
sei la notte che fa giorno, sei sole, sei luce.
Sei il tramonto e l’aurora, le stagioni che succedono,
l’inverno e la primavera, il buio, la vita vera.
Per questo stenditi, accomodati, lasciati andare.
Vogliamo sapere dell’ignoto che comporti;
vogliamo sapere cos’hai visto della morte,
e apprendere a pensarla, apprestarci a incontrarla.

Lontano, un violoncello suona l’hamabdil,
le note ci struggono e ci esaltano,
ci rimettono in contatto col dolore e la speranza
che in fondo nascondiamo, di perderti e di perderci.
Che tu sia vivo o morto, carne o spirito, delirio o realtà
non importa adesso. Non più come prima.
Ciò che conta è che tu resti, che tu non vada via,
che in questo girotondo di giostra per ciascuno, tu ci sia.
Cosa vorrebbe tua figlia?
Forse vorrebbe suo padre vestito da principe,
con cui mangiar la pizza dopo scuola,
a cui svelare tutto del primo bacio, del primo figlio.
E cosa vorrebbe tuo figlio?
Forse vorrebbe che tu restassi vicino a lui, davanti alla tele,
a guardare la Domenica Sportiva,
sei il suo migliore amico, l’allenatore, l’istruttore.
E cosa vuole tua moglie? Lei ti ama, ti ama ancora –
per quanto la perdita fissa sempre il rovescio
dei nostri sentimenti, l’invidia, la rabbia,
trasformandoli in dipinto mirabile, in pala d’altare -;
lei ti vuole qui ed ora, carne e ossa,
vorrebbe che tu giacessi con lei tutta la notte
sotto le lenzuola di cotone profumate con cui c’hai rivelato
il passaggio tuo nel cielo;
vorrebbe la portassi più avanti nel tempo,
in una di quelle storie mitiche che tu leggevi sempre,
quella in cui Zeus riconosce gli amanti
e li trasforma in due alberi, Filemone e Bauci.

E io, amico mio, fratello, mio cuore, mio ricordo,
io voglio che tu torni.
Voglio che tu faccia la magía più grande del tuo repertorio,
portare la poesia sugli occhi miei costretti a guardare nel nulla.
Voglio vedere quel nastro che registrammo vent’anni fa,
quando la sorte ci mise tra le braccia un filosofo napoletano,
e con lui ci avventurammo in quell’estate sul Gargano!
Voglio rivedere quel nastro di vent’anni, le facce di giovani
appena sbocciati, incantati,
le ali di piuma ancora spiegate sulle spalle;
anzi, voglio uscire da quel nastro e viverla di nuovo,
quell’estate d’amore e d’amicizia,
tra la zuppa di pesce e la chianca amara,
la cena etnica e il Vela Velo,
tra l’abbraccio dell’amicizia e la coscienza
che qualcosa si stava compiendo.

Vorrei che in questo giorno tu mi portassi in quell’infanzia
nella quale ho attraversato il cielo dell’incanto,
dell’attesa senza angoscia, dell’allegria.
Anche se l’infanzia è come la morte – non trovi? -,
una discesa nel buio di se stessi,
dal quale non torni più indietro, non torni lo stesso,
o forse peggio della morte, perché lo sai, Alfò,
nulla è più difficile da vivere che la profondità,
nulla è più del mare, difficile da traversare.
Tutte le corse, le sfide in bicicletta, le fionde, le pallonate
“addret’ a l’edifizio”,
i gavettoni ai fidanzati, le partite “a palline” sotto le scale,
tutto questo, le strade di Ascoli, questo caldo di grilli, d’estate,
tutta quest’infanzia per noi è una condanna e una delizia.
Ci ha abituati a viaggiare a ritroso, a tornare indietro,
a desiderare l’imponderabile di un bacio, di un figlio;
ci ha obbligati a vivere due vite parallele,
ad essere padri e scapestrati, compagni e amanti,
dottori e dissennati.
Ci ha reso tristi nella felicità, felici nella tristezza,
capaci di nascondere e scoprire due metà di una mela
pronta a spaccarsi, pronta a riunirsi.
La tua amicizia per me è quest’infanzia, lo è ancora.
Tutto ciò che colora di bello i nostri giorni.
Tutto ciò che dà senso ai nostri progetti,
agli album, agli impegni.
E se a volte ho pensato, da Ulisse, che io solo potessi
bastare per tutto,
tu ci sei stato, mio Aiace, a combattere le battaglie
che da solo avrei perduto:
riprenderci Elène, la nostra regina di Sparta,
rimetterla in viaggio sulle navi per la Grecia,
e tornarcene insieme per Vieste e Margherita,
Sorrento e Positano, per Napoli e per Ascoli.

Ho parlato troppo? Ti abbiamo stancato?
Perdonaci, avevamo bisogno della tua morte
perché le nostre emozioni, i nostri amori diventassero autentici;
avevamo bisogno di perderti per ritrovarci.
Avevamo bisogno del tuo passaggio per l’ignoto
per distinguere il vero dal falso,
l’amore promesso da quello mantenuto.
Avevamo bisogno della tua morte per prepararci a una vita più ricca,
e credere all’invisibile, affidarsi alla speranza.
Così, la pena profonda della scomparsa diventa sensata.
La tua mancanza diventa presenza, scavata in noi stessi,
togliendo parole al silenzio, lasciando le poche che contano
– l’amore, la rivoluzione, la poesia –
parole che a pronunciarle riecheggiano il tuo nome e la tua voce.
Avevamo bisogno della tua morte per sapere che questa discesa
nel buio l’avresti fatta per primo,
perché tu sei il più forte. Sei fiero e coraggioso.
Sei vero. Sei Aiace.
Il primo nella sfida, nella battaglia.
Il primo da chiamare se siamo sconfitti.
Il primo che accorre, il primo che soccorre.
Chi poteva partire per primo, se non tu?
Il tuo viaggio da esploratore ci ha donato la sicurezza
che a casa si possa tornare.

Se tu ci aspetti, non viene paura.
Se tu l’incontri, la morte, nessuno la incontra
Nessuno si spaventa, nessun’altro.
Il tuo conto è preciso. La tua mano è da fabbro.
Se tu incontri l’ignoto, allora l’ignoto è vissuto e sconfitto.

Per questo abbiamo bisogno di te, tangibile o impalpabile.
Potrai andare o restare, morire o rivivere.
Essere corpo o delirio.
L’importante è che tu ci sia, qui, con noi, tra di noi.
L’importante è poterti pregare, seguire, aspettare,
sentire le tue storie di guerre, di eroi,
di feste, di matrimoni, il tuo vino, il tuo olio, la vigna.
Sei il padre che sostiene e rasserena,
il fratello e l’amico che affianca e si siede.
Sei la mano che schiude il piacere,
il piede che segna il sentiero che ancora non c’era.

Adesso che sei morto una volta, e tornato,
non c’è nulla che possa sparire e confonderci. Non più.
Noi ti vogliamo, ti amiamo.
Vogliamo sentirti in ogni dimensione del tempo e del sogno,
in ogni forma della materia.
Ti vogliamo presente, qui a fianco a noi, e poi dentro di noi,
raccontarti della prossima vacanza, del prossimo liceo,
della prossima vendemmia.
Vogliamo giocare con te, in ogni tempo.
Soprattutto, vogliamo sognare.

Vieni qui, resta, accomodati,
fatti baciare e poi stringere forte.
Vicini come siamo, dopo la morte, dopo il ritorno,
possiamo giocare seriamente.
Possiamo stare insieme tutti,
io, te, mogli, figli, amici, eroi, ricordi.

Ogni cosa che facciamo ci porta da te.
Ogni lettera che scriviamo per te
è una storia d’amore.
Adesso che invero ci sei,
resta con noi, qui, per sempre.




(Le luci si abbassano. La musica diventa un tango, una milonga. Gli altri personaggi del poema escono in scena, cominciano a ballare, insieme. Anche Aiace balla con loro, anche se non sai se lui sia un uomo in carne ed ossa o un semplice vestito di scena, un manichino. Sfumata la musica, si odono in sottofondo le voci degli amici, registrate tanti anni prima, su una spiaggia, forse a Margherita, in una calda giornata d’estate…)


per Alfonso Benedetto
Napoli, 25 marzo – 1 aprile 2022

Poemi d’amor perduto, di prossima pubblicazione

L’amore apocrifo. Poesie, 2021

Ho vissuto col cancro, tutta la vita.
Ho odiato mio padre, ho amato le stelle,
cose qualunque, si direbbe.
Poi le porte si son chiuse alle spalle.
È che quando comincia una storia
non sai mai se va bene o va male.
Lei dice che è pazza, che è pazza di me
– Cosa credi succede se tu mi lasci? –
Non ci avevo pensato. Chi mai ci pensa.
L’anestesia ha fatto il suo corso.
La morte le ha stretto la gola, ha preso il cuore.
– Mi sono suicidata, sai -.



Andarono via.
Partivano da una vita fatta di pesca e di sale,
di vento, di barche e mattini da ammalare.
Lui aveva in tasca un amuleto,
di quei piccoli ninnoli dal viso di bambola.
Lei aveva niente, se non l’amore per lui.
Decisero di non fermarsi più,
nessuna stazione, nessuna necessità.
Avevano abitato tutte le angosce.
Cercavano una prima illusione.




Sfoglia pure le pietre,
gli angoli magnifici dei piccoli giardini,
il treno che rallenta nel centro città.
Dall’alta parte c’è il mare
e ti chiedi se valga la pena
di convincersi ad amarla.

E poi quest’angoscia mi serve,
sto malessere che corre per tutta la vita,
questo amore fra me e te ma senza di te.
Mi serve a scrivere o appuntare,
altrimenti cosa rimane.



Rapidi cambiamenti del
nuvole sole paesaggi.
Non è incoerenza.
È che stiamo cambiando,
e ci spaventa.



I giorni son tutti uguali qui,
in questa nebbia.
Passi inconcludenti, passaggi.
La tristezza mi avvolge come un cappotto
che non riesco più a togliere.
Piccola mano lasciata.
Eran belli quegli anni d’amore
che mi donasti.
La vita che adesso avvicina
alla morte.



Che è sera me ne accorgo
quando guardo dal finestrino
e non vedo che me stesso.




Fuori ci sono autostrade, eucalipti, case,
impiegati sopraffatti o vincenti.
Ma io non so che farmene.
Rimango a guardare all’interno,
semmai nei tuoi occhi
ci sia il brutto o il sereno,
se mi ami o non mi ami.
Le cose si illuminano quando mi guardi.
Poi tramontano in fretta.



Quando saremo vecchi e potremo appendere le maschere,
butta via il bilancino del contabile, il taccuino
– è dieci anni, quant’è durata, prima tu, prima io -;
dammi segnali inequivoci, un bacio sulla bocca
una mano tra le cosce, oppure sparisci.
Dopo gli anni di freddezza non basterà un emoticon
a salvare l’amore.



Il mare si è ritirato.
Non serviva più d’altronde.
Chilometri e millenni di bagni e di vacanze
sbracciate caotiche scordate.
Sotto c’è il profondo che mai nessuno esplora,
la ricchezza che include l’abisso, la solitudine, la perdita.
Tutto questo non serve.
Basta il bagnasciuga, dove la vita è quasi vita,
l’amore è quasi amore, quasi mare.



Adesso che appena mi giro
incontro il tuo sorriso,
adesso che appena son solo
mi abbracci e mi strapazzi,
adesso che m’insegui, mi chiami, mi baci,
adesso finalmente tutto è gioia, tutto è vita,
e io non so più scriver né morire.



C’è rimasta la musica.
Quella comunque rimane.
Può essere un ricordo
una ninna una preghiera,
oppure quella notte in cui godevi
e poi piangevi.
C’è rimasta la musica
di ciò che eravamo.
Anche il battito del cuore
può essere un canto.



È stato bello quello slancio, ieri sera.
Ho trovato le tue braccia attorno al collo.
Mi hai stretto a lungo, per essere sicura che ci fossi.
Potevo sentire il profumo,
la massa dei capelli, la punta dei seni.
– Grazie, è un bellissimo regalo – hai detto –
Il libro lo leggerò -.
E poi il sorriso, non l’addio,
perché niente è già successo. O quasi.



Sta in piedi, nuda,
accanto alla finestra della cucina.
È sera, la camera è buia.
Non c’è nessuno.
Accende una sigaretta,
imbraccia una chitarra,
fa un passo di danza.
Piange, ride, canta.
Proprio come fosse per strada,
e ci fosse una festa,
e qualcuno l’avesse invitata.



Vorrei fosse domani, per abbracciarti.
Presto, vieni mio sole,
toglimi l’angoscia di questa notte.



Tutto il pomeriggio a guardare le foto.
A metterle in fila, una dopo l’altra,
qualche occasione, qualche giornata, un Capodanno.
Come se metterle in fila servisse a riviverle.
È questa l’illusione.
Meglio se ti butti in qualche vicolo del centro.
Affidala al caso questa sera.
Un colpo in faccia o due cosce che si aprono sul letto.



Ecco la primavera.
Una primula è comparsa sul mandorlo, bianco.
Ha sfidato l’inverno del cuore.
Forse cadrà, ma intanto ha portato, per prima,
la verità.



Abbracciarti. Restare a lungo, stretti,
con gli occhi chiusi. Tu sulla punta dei piedi.
Io con le braccia sui tuoi fianchi.
Siamo rose perdute una nell’altra. Dischiuse.



Vorrei chiudere gli occhi, lentamente.
Guardare sul fondale delle palpebre i ricordi,
che sono tanti o son pochi, ma son patria e ricchezza.
Vedrei passare le vele di mio padre e mia madre,
finalmente amanti, la prua delle arti,
la marcia festosa dei piccoli compagni di infanzia.
Tutte immagini che in fretta svaniscono.
Perché ci è impossibile gioire ancora un poco.
Costretti come siamo tra le pietre e l’odio.




Abbiamo preso una stanza con vista sul mare.
Non sapevamo come iniziare.
I grandi hanno i loro percorsi, da cima a fondo,
passando dal centro. Ma noi siamo bimbi.
Nemmeno ci spogliamo.
Seguiamo la rotta invisibile dei baci, degli sguardi,
del pianto che scoppia all’improvviso.
Restiamo così, a lungo, parlando del silenzio,
tacendo l’ordinario.
Restiamo nascosti nella camera ad ore,
perché gli altri non debbano vergognarsi
della vera nudità dell’amore.



E poi, il giorno è bellissimo oggi.
Tu sei nella stanza, ginnastica,
noi stiamo studiando il violoncello,
e i vecchi, i bei vecchi, sorridono alla tele.
È che abbiamo fiducia, io e te,
abbiamo il tempo e l’amore dalla nostra.
Crediamo all’invisibile, perché il male s’è già visto.
Crediamo all’invisibile perché siamo già altrove.
Ci diamo appuntamento con l’amore,
quando il debito col mondo l’avremo espiato.



Dai, vieni vicino. Stammi accanto,
teniamoci la mano.
E dopo, stringiamoci forte, baciamoci,
perdiamoci in carezze.
Soprattutto queste, che avvolgono la solitudine,
e scrivono un rigo alla volta
l’amore che verrà.




Vicino, sei seria, tenace, temprata.
Dagli occhi, sale una vita che non è andata come volevi.
Ti prendo per mano, ti metti a tremare,
invochi un abbraccio, una carezza, qualcosa che riscatti.
Per questo, prego i migratori di venirti a cercarti,
prego tutti i fiori di portarti la gioia,
prego il suonatore di violino, si prepari.
Lo sposo verrà.
Ti porterà oltre i ricordi che puzzano di farmaco.
Dove il cuore trema ancora, al primo bacio.



Vento, sono pronto.
La bellezza cadde via tempo fa.
Cadde il lume per orientarci.
Dovetti stendermi per terra per essere accettato.
Poi caddero le braccia per lo sconforto.
In ultimo il cuore, per troppa gentilezza.
Adesso son pronto.
Non ho più posto qua.
Troppo grande il mondo per me.
Troppo grande l’amore.
Vento, sono pronto. Andiamo.
Qualcosa di me cadrà lontano,
in altro tempo. E forse.



Andare in altalena.
Volare in alto, sentire il vento sopra gli occhi,
la gioia. Poi scendere,
attendere le mani che ti spingono di nuovo,
sorridere a un ritorno che non è più solo rinuncia.
Andare in altalena. Questa incerta felicità,
tra mare e nostalgia, andata e ritorno.
Un punto preciso che oscilla qua e là.



Costruiamo un’arca. Io e te.
Mettiamoci dentro le cose importanti
che abbiamo costruito.
Portiamo gli amici, le madri, i padri, i figli.
Mettiamo nella stiva gli errori più gravi,
le menzogne, gli abbandoni, per non dimenticare.
Salviamo qualche giocattolo, qualcosa che appassioni,
qualche ausilio per navigare.
La fiducia, la complessità, l’arte.
Seguiamo la rotta che abbiamo da sempre,
l’assenza di rotta,
quel modo di andare piegando, sbandando, virando.
E poi chiudiamo gli occhi, lasciamoci guidare
dall’istinto, dal desiderio, dal sogno.
Perché gli amanti hanno i baci e le mani
per scampare al diluvio, e scoprire l’ignoto.




Voglio stringermi a te, d’estate, sul letto disfatto.
Sentire il tuo seno e il tuo ventre su di me.
Allungare la mano, cercare una carezza,
e sapere che appena più in là trovo l’anima.




Da sola, davanti allo specchio,
mi chiedo se l’altra era meglio,
più bella, più libera, e se t’incantava.
Noi brutte siamo così. Non voglio niente.
Dico che ti amo, devi esser come sei.
Ma ti prego, mio principe, almeno una risata,
una bugia, un’illusione.
Almeno qualche briciola, di questo amore.



Tana libera tutti.
Si diceva così da bambini,
quando l’ultimo schiaffo sul muro ci librava.
Pure adesso è così. L’ultimo schiaffo mi ha liberato.
Me ne andrò da questo mondo in cui sono un estraneo.
Tornerò ad essere vento, ad essere outis.
Potrai dire che nessuno t’ha mollata,
nessuno ti ha amata.
Io sarò altro, finalmente.
Una musica alla radio. Una casa di vacanza.
Qualcosa nell’aria.




Apocrifo è l’amore,
come il segreto negli occhi danzanti,
come il bisogno di averti vicino,
come il desiderio che tu mi stringa più forte
ogni mattino.
Non so dirti quale gioia mi dona il tuo sorriso,
non so dirti quanta forza m’infonde la tua mano.
Vorrei gridarlo questo amore, dappertutto:
è vero, è vivo, è eterno!
Ma gli occhi di un bambino sono fragili,
e ho paura che si accechino nel sole.
È apocrifo l’amore.




Come son belle le primavere, quand’è tempo
di morire. E com’è bella l’estate.
Le porte aperte sui balconi, le cicale,
i letti sfatti dei bambini, ansiosi di scappare.
Mentre noi vorremmo stare così.
Fianco a fianco, l’uno all’altro.
Scivolare nel sonno, pure noi, beati.



Adesso basta. Vorrei dirti un milione di cose.
Parlarti del futuro, di un’altra gita al mare,
della piccola che impara il violoncello.
E poi che ti amo, figurati, se voglio stare fermo.
Ma occorre metter punto, prima o poi.
Qualcosa che prepari alla morte,
che dia senso al tutto.




L’amore è un volo. Sempre incerto.
Spiccare il salto e volare.
Oppure stramazzare sul suolo.
La formula è oscura. L’amore si nasconde.
Non puoi prometterlo.
Puoi solo impegnarci te stesso.
Sperando nella sorte,
e che lei faccia lo stesso.




Sono partiti con l’ultimo treno.
È quasi giugno, quasi estate.
La scuola sta finendo, potranno riposare,
andare lentamente tra i pini che costeggiano il mare,
fermarsi ad annusare la resina e l’origano,
l’odore di percoche rosse e gialle.
Potranno concedersi l’incanto.
Quel tempo di vita in cui chiudi gli occhi
e la fortuna arriva.

L’amore apocrifo, poesie gennaio-dicembre 2021, di prossima pubblicazione

It Was. Poemi, 2010-2015

Crisotemi


(Palcoscenico vuoto. Quasi buio. Nessun oggetto. Nulla di concreto o di realistico.
Al centro, un area quadrata, soprelevata rispetto alla scena circostante – quasi fosse una stanza, un letto coniugale, un luogo isolato sospeso sul mare, sul nulla –, le cui pareti sono vetrate nude, trasparenti, create dagli effetti delle luci. Tali pareti diventano specchi o vetri trasparenti a seconda dell’angolo di incidenza delle luci di scena, proprio come avviene col rifrangersi del sole su una finestra. Il mare o il nulla, su cui la stanza galleggia, ha una tonalità fredda, azzurra, anch’essa creata dalle luci.
Il dramma si svolge interamente in questa stanza.
Una donna, appena vestita di bianco, muove le labbra, come dicendo qualcosa a se stessa. È pallida, emaciata, ha un’età indefinibile, comunque anziana. Il vestito pare un abito di scena, una veste regale portata elegantemente, benché logora e impolverata.
Dal portamento, parrebbe essere stata un’aristocratica, rigorosa e altera.
Si muove lentamente, compiendo gesti enigmatici; accanto a sé, nella stanza, un coccio di creta, ripieno di cera (di cui si ricopre), una panca, una plancia o qualcosa che possa fungere da sedia, da tavola o da letto; una coperta grigia è poggiata in un angolo. Dall’inizio alla fine, la sua voce si sovrappone a suono continuo, basso, che attraversa l’azione senza mai interrompersi, benché variando di intensità – ora impercettibile ora sensibile, ora intenso –.
La donna si rivolge a un interlocutore invisibile – il suo compagno? Un amico? Chi altri? –, si siede accanto a lui, su di lui, lo chiama accanto a sé, si muove – insomma – come se ci fosse realmente. La bianca signora comincia a parlare:
)



Vieni, siediti, accomodati. Vieni pure.
Sto parlando con me stessa, come vedi,
ed è la prima volta che riesco a corrispondermi.
Si impara sempre tardi, troppo tardi, a invecchiare,
o almeno a concentrarsi sul momento della morte.
Non è una scelta, per niente.
Nessuno sceglie l’assenza d’amore, di tempo, di bellezza.
L’assenza. È ciò che rimane.
Basta che mi guardi intorno.
Non c’è più niente e nessuno, qui…
Una casa ormai svuotata, trasparente, senza difese,
costretta ad osservare al di là di se stessa o dentro se stessa,
un vuoto assordante, la quiete.
Manca poco, d’altronde.
Tra poco tornerò nel buio della profondità,
dove le cose si presentano veraci e deformate
– una bocca spalancata dai denti minacciosi;
un occhio inespressivo e liquefatto; un sesso enorme,
senza capo né coda –;
una deformazione preparata, nel mio caso, dalla nascita,
dalla vergogna, dal desiderio, un desiderio inappagabile…
Capita, quando vivi da sola, di allucinare su te stessa,
ingigantire, deformare o far sparire a piacimento
una bocca da baciare, un padre da ammazzare
una madre dal seno prepotente ed ingombrante…

Ho trascorso la mia vita giovanile a interpretare
la scena iniziale di un film
sulla perdita e la nostalgia nel quale io t’aspetto sulla porta,
e tu arrivi raggiante, pieno di vita: “Vieni, entra, accomodati”!
Allora tu entri, ti siedi, cominci a tremare, mi abbracci,
mi dici che in fondo l’amore tra noi due non è finito,
che è ancora come prima, ch’è ancora… ancora… ancora…
Non sei più ritornato!
Troppe volte l’ho interpretata questa scena tra me e me,
benché sia stata consapevole, sempre, che fosse appena un film.
Non mi è mai piaciuta l’esistenza; ho sempre dovuto fantasticare,
per ridare quell’aspetto di bellezza e continuità alla mia vita banale…

Ricordi la mia prima vecchissima amica del cuore?
Aveva la stoffa della diva, lei, bella, creativa, inquieta….
Per dieci o quindici anni non ci siamo mai lasciate,
nemmeno per un giorno;
se lei si vestiva di viola, io mi vestivo di viola;
se lei comperava una trousse, era per giocarci con me;
se una s’innamorava, anche l’altra cominciava a tremare…
ci siamo sostenute, confidate, scritte e descritte;
abbiamo studiato, viaggiato, festeggiato, tutto insieme,
fino a quando lei non ha incontrato il suo… principe azzurro!
Da quel momento in poi, più nulla!
Telefonate, appuntamenti, lettere, vacanze: più nulla!
In quell’uomo, tutta l’inquietudine e il sacro suo furore
s’erano mutati nell’inerzia della beatitudine.
Sembrava drogata. Che invidia!
Certe donne rivelano la loro vera natura al riparo
di una coperta matrimoniale,
sotto la quale hanno avuto la fortuna di restarsene a sognare,
trasognare, a regredire.
Coperte da quell’abbraccio rassicurante, così a lungo rivendicato,
il loro viso si rattrappisce, lo sguardo si fa opaco,
le palpebre si chiudono, il seno e i capezzoli scompaiono,
tutto il corpo rimpicciolisce, rimpicciolisce, rimpicciolisce,
fino a diventare nuovamente delle bimbe,
consegnate tra le braccia del papà.
Che invidia! Che meraviglia!

Ebbene, quando doveva venire a trovarmi, mi sfiancavo
a imbellettare la casa,
a rimettere i centrini sotto i vasi di orchidee;
accendevo l’abat jour; preparavo l’incenso,
mettevo fuori frigo quel cheese cake che amava tanto.
Poi… Poi il tempo passava, lentamente; la pellicola scorreva,
ed io restavo lì, dietro la porta, ripetendo a bassa voce
il mio perenne benvenuto: “Vieni, siediti, accomodati…”.
E invece niente; non succedeva niente, non arrivava nessuno,
tanto che la ripetizione di quell’unico identico fotogramma
dava l’impressione di un’istantanea, di un immagine
ferma e sfuocata, anziché di un film!
E mio fratello? Quanto l’ho aspettato di trovare, mio fratello,
di incontrare un compagno con cui scorrere le estati a sollevarci
l’uno e l’altra,
raccontandoci con cura di come si fosse sgretolata
la nostra famiglia e l’infanzia,
e così trovando una ragione, un senso fondativo a questo
sentimento della perdita che ci avvolge, ci compenetra,
come la nebbia nel buio di una foresta.
Chi altri, se non un fratello, avrebbe potuto testimoniare
lo sconcerto e il dolore di trovarsi da soli, indifesi,
nel bel mezzo di una guerra ventennale di cui ignori le ragioni,
le conseguenze, le parti in campo?
Chi meglio di un fratello avrebbe potuto testimoniare
che c’è stata una guerra,
sostenermi a buttar via queste armature che abbiamo ricevuto in eredità,
questi attrezzi inamovibili lasciati a arrugginire nel nostro giardino?
Quando prometteva di venirmi a trovare, mi preparavo col vestito migliore;
gli preparavo l’accoglienza migliore, di modo che anche lui potesse
avere una famiglia,
anche lui che una famiglia non l’aveva ancora avuta…
Ma il mio adorato fratello aveva scelto da tempo
di non guardarsi più indietro, per sopravvivere, certo;
aveva scelto di puntare con tutte le sue forze sul futuro,
sul futuro di una casa e di un amore coniugale impermeabile
a chiunque le avesse rievocate – quella guerra e quelle armature –,
sotto i cui fendenti anche egli aveva perso la parte più bella
del proprio corpo, del sorriso, della vitalità.
E io ero, soprattutto io, la testimone, l’aedo da scansare,
l’alter ego da rimuovere.
Nemmeno lui è più arrivato.
Dopo mia madre e mio padre; dopo il primo e ultimo amore;
dopo le amiche più care, nemmeno mio fratello è più tornato.

È andata così.
Nessuno è più venuto da me per chiacchierare, per rapirmi,
o almeno accomodarsi.
Nessun familiare che abbia avuto la dignità di tornare
ad onorarmi da regina, quale ero
– benché il mio regno fosse stato piuttosto un calco
di qualcosa che avrebbe dovuto esserci e non c’era,
e benché il mio scettro l’avessero rubato le nostre servitrici,
così invidiose della mia inafferrabile bellezza –;
nessun amante che abbia avuto l’ardire o il desiderio di guardarmi da donna,
proprio adesso che son vecchia, di cercarmi sotto l’abito da sera,
di stendermi su un letto, chiudermi gli occhi,
baciarmi sui fianchi… da vecchia, adesso;
nessun amica che abbia avuto la pietà o l’incoscienza
di mettersi qui, vicino a me,
a contemplare in silenzio la sparizione misteriosa e progressiva
di questa casa dalla quale sono sparite, per conto proprio,
le tende alle finestre, le lampade, gli armadi, gli utensili ordinari,
finanche le mura divisorie, tutto, tutto…
eccetto questo fascio di luce che ci svela, ci attraversa,
come un giavellotto ficcato nella schiena.

Per questo – ti dicevo – sono stata tralasciata e isolata.
Oppure sono io che mi sono isolata, va a sapere,
troppo diversa, timidissima, incostante.
Quand’ero ragazza, mio fratello e mio padre, si svegliavano
di buon mattino per rasarsi, profumarsi e imbellettarsi,
non vedendo l’ora di uscire di casa, raggiungere la scuola
o l’accademia, o anche un’alcova,
un posto in cui indossare la propria identità,
una muta subacquea impermeabile ed anonima, senza fessure –;
mi infastidiva quella loro frenesia; ero invidiosa della loro sicurezza.
Io invece mi ero ritirata dalla società, non perché mi sentissi migliore,
anzi, per pigrizia,
o forse per la consapevolezza prematura che ogni interesse,
ogni occupazione non sarebbe più servita a liberarmi
da me stessa, ad assolvermi dalla dipendenza che a qualcuno
mi legava, sempre,
anche quando nessuno c’era…
Mi vergognavo dell’indolenza, la timidezza, la mia stessa bellezza;
non avevo nulla da conquistare o presidiare, io.
Fosse stato per me, sarei rimasta una fanciulla, avrei buttato il mio tempo
a rincorrere farfalle, immergendomi nei fiori di magnolie,
di wysterie, dei lillà che d’estate risalivano dai prati;
me ne stavo nel mio letto fino quasi a luce alta;
era un giaciglio per me, un posto mio, vi indugiavo con piacere,
proprio senza vergognarmene…
Isolata in quella culla quotidiana, mi applicavo ad assolvere
a quel compito che io stessa m’ero dato:
trasformare tutta la rabbia, circolata nella famiglia
in qualcosa di buono e riconosciuto; riportare il sorriso
su quelle maschere da sfingi che i miei indossavano continuamente,
colorarle di rossetto, di modo tale che apparissero più allegre.
Mi era indispensabile quel lavorio, tutto immaginario,
quel sorriso al quale affidavo la risoluzione magica di ogni conflitto!
Pareggiare i conti con mia madre e con mio padre
era il passo necessario, prima ancora di sorridere, di vivere, di uscire.
Quel ruolo di mediatrice mi si addiceva,
proprio per la mia riconosciuta sensibilità e doppiezza,
anche se mi sarebbe costato la semplicità,
l’integrità e l’amore, innanzitutto…

Che cosa enorme l’amore – non pensi? –, robusto, bello…
Un albero di rose, sostenuto da migliaia di radici contraddittorie,
fiorito da migliaia di boccioli variopinti,
così esposto alle intemperie, all’abbandono, ai bucherons.
Ero stata concepita per l’amore, io
– forse anche il matrimonio, o la compagnia, come dicevano altri –;
non facevo che pensare a un bel ragazzo, fin da bambina,
uno di quegli atleti affascinanti e tenebrosi che affollavano il liceo,
con cui fantasticavo di commettere serate sul bordo del mare,
tra lettere sentimentali e parole infuocate,
un piacere dei corpi avvolgente e duraturo quanto la fedeltà. Ricordi?
Una delle prime poesie che trascrissi per te era quella sull’edera…
E come sempre, quando cerchiamo avidamente la mano di qualcuno
che ci completi,
l’amore arriva presto, per nulla inatteso.
Anche tu sei arrivato, fin troppo presto, i riccioli castani
e morbidissimi, lo sguardo premuroso e coinvolgente,
l’intelligenza acuta; una borsa di progetti e giuramenti:
stare insieme, lottare insieme, invocare un figlio nostro,
viaggiare, dipingere, giocare, desiderare il desiderabile…
Quanta determinazione in quelle promesse; quanta verità,
quanto coraggio nel debutto con cui affrontasti mio padre e mia madre,
dicendo loro che “la forza è un surrogato dell’intelligenza”!
Me lo ricordo ancora!
Sembravi Ulisse, Ettore, quegli eroi non dominabili,
nei quali la passione giovanile parla al posto della realtà…
D’altro canto, onesto lo sei sempre stato,
non è per questo che è finita; non è per mancanza d’amore
o di coraggio nel combattere al mio fianco;
non è per negligenza o incomprensione che te ne sei andato.
Ero io purtroppo a non essere all’altezza, del tuo amore,
della tua dedizione. Incerta, troppo divisa, complicata.
Anche quando riconoscevo il disperato bisogno di te,
non sapevo domandarti né amore né aiuto;
mi richiudevo nella mia superba insufficienza
aspettando che tu mi fossi accanto a contemplare,
a testimoniare ciò che io soltanto potevo fare;
quella storia di famiglia mi aveva assorbita,
reclusa in un buco impenetrabile del quale ero guardiana, io stessa,
di fronte al quale non permettevo a nessun altro
di fiancheggiarmi, anche se, al tempo stesso, mi lamentavo della tua… lontananza!
È per questo che te ne sei andato, credo, lontano, impotente, logorato,
anche se ho sempre pensato che ci saresti rimasto, dentro di me,
e forse illusa che saresti ritornato…

Ho sprecato la giovinezza, dunque, a cercare di comprendere,
– o almeno mitigare –,
l’incomprensibile livore di quei giganti che attraversavano la nostra casa,
calpestando tutto ciò che incontravano sul loro cammino.
Nessuno l’aveva proclamata, quella guerra, ma una guerra pure c’era.
Non restava che imparare, e presto, a distendersi per terra,
sotto il tavolo da cucina, lungo il muro del corridoio,
a sdraiarsi come un morto, sperando che almeno da morti
si possa rimanere concentrati su ciò che vorremmo essere e sognare.
Adesso, quell’immagine di me distesa sul pavimento
è diventata una postura, una condizione,
una posa conservata per non distrarsi, proprio adesso
che non c’è più tempo,
su qualche particolare irrisorio del passato o della quotidianità
– una coppia di ragazzi che si baciano, una donna incinta
che sospinge un passeggino, un ricordo da bambina –.
D’altronde, cos’altro fare?
Col tempo, le mura di questa casa sono crollate nel disinteresse;
le porte e le imposte le abbiamo regalate a mio fratello
– così bisognoso di acquisire l’attitudine alla riservatezza –,
e qui non c’è rimasto che questo pavimento poggiato sull’aria,
sul mare, sul niente,
e queste finestre svestite e trasparenti; un occhio dilatato
di cristallo dal quale non possiamo che guardare verso l’ignoto.
Lo vedi? Lo senti?
Ho come la sensazione che qualcuno dei tanti che ho sognato,
o tutti insieme, siano passati di corsa qui affianco,
provocando questo flusso che ancora ci trasporta alla deriva.
Non è quello che volevo.

Mia madre mi ripeteva sempre che restarsene isolate,
piegate sul proprio ombelico, è esercizio penoso;
che occorre guardarsi intorno, e sopra e sotto,
per raccogliere la propria bellezza;
che occorre trovare un uomo o un’amica col quale uscire
a esplorare il mondo, altrimenti anche la disciplina diventa inutile,
anche l’interno e l’esterno di noi collassano l’uno sull’altro,
e guardare diventa una condanna, guardarsi nel vetro,
perdersi nel riflesso…
Lo so, lo so, ma un compagno non bastava per potermi liberare,
soprattutto da lei; e poi – ripeto –,
l’uomo che ho adorato mi sembrava troppo fragile e prezioso,
per tirarlo in quel cimento…

Dio mio! Voglio uscire da questa gabbia!
Voglio accomodarmi fuori di me, per una volta… lo voglio veramente;
ma come fare a essere certa di trovare almeno un bel lettuccio,
un divanetto, come quello che m’aveva regalato il mio padrino,
uno di quelli damascati, piccolini, fatti a mano?
Come fare a uscire da questa prigione, senza ritrovarsi in una nuova
claustrofobica prigione?
Siamo sicuri che questa uscita da noi stessi valga l’angoscia e la fatica
di affrontare l’ignoto?
E come fare a sostenere il desiderio, quando tutto intorno a noi è andato perso?
Vedi? Quando son stanca o impaurita, tendo a tormentarmi,
senza dire nulla di interessante, beninteso.

Mi capita sempre di dire delle cose sparigliate, inconcludenti,
che spesso si confondono le une con le altre, o si ripetono;
non ha un filo il mio racconto, perché il racconto che avevo immaginato
per noi tutti, s’è interrotto;
il filo s’è spezzato, le perle sono andate così, rinfuse, disperse;
quando ne ritrovo qualcuna, mi sembra inutile capire dove
andrebbe rimessa.
Vado avanti senza senso, accostando gli affetti e gli accadimenti
alla meno peggio,
come se li avessi ritrovati tutti insieme dentro di me, ammucchiati,
ripescandone ora l’uno ora l’altro, a casaccio,
da questo ammasso che la vita ha ramazzato.

È stato così.
Ho sempre sofferto di una sorta di instabilità ciclica,
ora sfrontata, ora pudica, ora afflitta;
un’instabilità tutta mia, anche se è difficile non assegnare
qualche importanza alle vicende familiari,
alla fortuna, ai cicli naturali del sole e della luna.
Prendi questa stanza denudata, per esempio, queste finestre.
Di sera, di sera tardi, la luce si ritira,
lasciandoci in prestito una piccola flebile luce d’interno,
a causa della quale non riusciamo più a guardare che noi stessi,
di nuovo, riflessi, ritratti, inquietanti.
Ma di giorno, la luce si solleva sull’orizzonte, permettendoci di mirare altrove,
e trovare qualcosa che riemerga dalle viscere del mondo,
qualcosa, su cui fantasticare.

Vieni, siedi qui, vicino a me;
voglio poggiarmi sulle tue gambe, distendermi su te.
È una bella primavera questa, o almeno una stagione propizia.
Lontano, in un posto del mondo che è indifferente definire,
le spighe del grano stanno maturando;
i campi diventano foreste, fitte come labirinti,
nel cui dedalo i bambini si rincorrono a nascondersi,
a nascondere qualcosa, anche se non saprei dire che cosa.
Mia madre sta disegnando una scena domestica
nella quale si ripiega su un balcone, lo sguardo sornione rivolto lontano,
mentre biascica qualcosa sull’amore per il figlio, tipo:
“Mi raccomando, sii felice, lo sai che ti amo…”,
qualcosa che suo figlio non ascolta, data la distanza tra di loro,
e quella voce della madre piano piano sussurrata.
Da qualche altra parte, un altra figlia della stessa madre,
una figlia mai venuta alla luce, sta tornando nel proprio cunicolo,
dal suo amato fidanzato che intanto dorme vicino a lei;
ci ritorna col terrore negli occhi, oscillando pericolosamente
su una corda tesa tra le fauci di due mostri;
ci ritorna con l’angoscia di sparire di nuovo,
mentre lì vicino il suo compagno – amante, padre, fidanzato –
se la spassa, canticchiando nel suo sogno giovanile. Com’è possibile?
Come fa a ritornare nel buio se è mai venuta alla luce?
Come fa ad angosciarsi per la morte se ha mai vissuto niente?
Dici che deliro?
Non è capitato anche a te di restare condannata a osservare
le immagini terrifiche che improvvise compaiono sul retro delle palpebre,
proprio mentre ti stai rilassando e addormentando?
È una di queste allucinazioni, la mia, l’ennesima,
visto che qui dentro, ormai, non c’è più niente e nessuno
da ascoltare o contattare concretamente.

Per questo posso dirti solamente del mio corpo,
solo questo mi rimane di reale; precipitare tra le labbra
– troppo superficialmente evitate fino a oggi –;
nelle rughe o nelle piaghe senescenti della pelle;
cadere nelle grandi e invisibili ferite che la vita vi aperto,
benché lo sai, a scivolarci dentro, le nostre ferrite sono sempre
più profonde e angoscianti.

L’altro giorno ho sognato una bambina, bella, felice, piccina.
Tornava dalla scuola con lo zaino sulle spalle, i suoi spartiti, i suoi pon pon.
Aveva sulle labbra il sorriso della durata,
un fiore donato perché sopravviva al di là delle circostanze.
L’ho presa in braccio, l’ho sollevata, l’ho baciata lungamente…
Sembrava contenta di tanto piacere, di tanta allegria…
Ho sentito all’improvviso che il solo mio tempo stava in quel valzer
danzato con lei;
in quell’infanzia ritrovata, in quella felicità istantanea…
Un’istantanea, dunque, un altro fotogramma, un nuovo inizio,
nell’arco delle nostre vite in cui tutto è cominciato prima che noi ci fossimo,
e a noi non è restato altro che portarlo a compimento,
e concluderci con esso.
Lei mi ha dato la grande felicità e la grande tristezza,
la gioia di sentirmi completata, riconosciuta,
e insieme l’angoscia di un amore che se ne andrà chissà dove,
riaprendo la ferita…
Quella bambina… Non l’ho più dimenticata.
È stata la prima volta che ho desiderato di vivere e invecchiare,
sebbene solo in un sogno.
Prima, non avevo mai provato che il guizzo dell’animale braccato dai predatori
– tutti allucinati, come al solito –;
il mondo intero si era ridotto a un piccolo cono d’eiezione,
e non restava che l’affanno, la stanchezza e la paura da ogni nostra esperienza.

Ricordi quel dipinto gigantesco, riprodotto sulla parete
nella camera da letto?
L’avevamo acquistato a una mostra di Velicovich.
Stava lì a rappresentare la nostra vita e il nostro destino,
anche se non ne capivamo il perché.
Un uomo riemerge dal buio, come rincorso da sconosciuti.
Un uomo nudo, muscoloso, angosciato;
che salta i gradini di una scala innalzata sullo sfondo
di una parete rossa di sangue, di evidenza, di passato,
e in cima alla quale si staglia una porta nera, rettangolare, metallica;
una porta chiusa, sbarrata.
Dunque, una morte certissima, assodata.
Eppure quell’uomo continua a arrampicarcisi.
A correre, dal buio verso il buio.
Quale altra strada imboccare? Cos’altro poteva fare?
Niente, nient’altro che scappare,
anche se era chiaro che la corsa sarebbe finita contro una porta sbarrata.

È stato così.
Siamo stati vittime di un processo di scomposizione, di divisione,
io, te, e forse tutti coloro che abbiamo amato e corrotto.
Siamo stati esplosi e sezionati, come quei corpi messi in mostra
proprio al centro dell’Ospizio dei Poveri, anni fa.
C’era un corridore, puntellato all’impiantito per un piede, scuoiato,
diviso, smembrato.
Da uno solo, quale probabilmente aveva voluto essere,
era diventato trino, tripartito, pur serbando la sua posa da scattista.
L’apparato muscolare era stato separato dagli altri, proteso in avanti.
Dietro di lui, appena dietro, il suo doppio viscerale,
composto di interiora incontenute;
un uomo che corre con tutta la sua profondità esposta, nuda,
inchiodato al medesimo piede del primo.
E infine, per terzo, la sua rabbia sfilacciata,
tutto nervi e cervello, lanciata in avanti
sulla stessa traiettoria della fuga. Mai visto nulla di simile!
Mi appassionai a quel corpo, mi ci riconobbi.
Mi ero anche io sentita così, divisa, tutta la vita, spaccata in due metà
o in tre o in quattro, a seconda delle madri, degli amori, dei contesti.
Mi sentivo ancora così.
Come quell’altra, la donna incinta.
Una madre col ventre scoperchiato, l’utero e il feto in bell’evidenza,
distesa sul proprio triclinio; ne ero turbata.
Mi chiedevo per quale ragione una donna che abbia avuto
il piacere divino di esser stata concupita e fare un figlio,
perché quella donna aveva abortito?
Forse era stato un amante irresponsabile, a volerlo;
o forse era un peso, chissà…
La didascalia la descriveva banalmente come “donna incinta”,
riducendo ad un tempuscolo brevissimo ciò che invece è il risultato
di decenni di attese, desideri, passi falsi…

Noi donne cominciamo fin da bambine a truccarci
davanti allo specchio, a camminare sui tacchi,
a giocare con le bambole,
per quel nostro sempiterno, desiderio naturale, essere madri,
sentirsi saziate, finalmente, ricomposte,
avvolte dalle braccia dell’amore, del nostro bambino…
Ma lì, in quella teca di vetro, questo mondo di aspettative,
questi cambiamenti del corpo e dell’anima comuni a ogni donna,
era sparito, rimosso, cancellato dalla mano di un ometto.
“Donna incinta”!
Quel procedimento di eternazione e insieme dissociazione
mi sconcertava, per la verità ultima che sembrava gettare
sulla miseria del nostro corpo, e insieme mi orripilava,
per la crudeltà con cui quegli uomini venivano trattati!
Privarli della pelle, del viso; privarli del nome, renderli anonimi…
Che vigliaccata!
Avrei desiderato che almeno, in cambio di una vita
e di una sofferenza così generosamente donate,
fosse stata lasciata loro almeno la faccia,
affinché qualcun altro potesse riconoscerne e apprezzarne
la bellezza, la storia, la sofferenza… E invece…

Forse la morte totale ci è sempre inaccettabile;
forse la scissione, la ferita che ci lacera sono il prezzo che paghiamo,
tutte le volte che ci affidiamo all’amore dell’altro, senza riserve,
perché – diciamolo –, chi è che può accoglierci in tutto e per tutto?
Chi può riuscire ad accettarci per intero?
Chi può contattare così profondamente la propria sofferenza
o la colpa così da riconoscere anche agli altri una vita propria,
uno sguardo autonomo, un proprio desiderio?
Eppure, per quella espoliazione sadica e invidiosa, non c’era traccia
sui visi dei visitatori, anch’essi uomini, verrebbe da dire.

Ma basta coi ricordi.
Ricordare richiede tempo, e io non ho più tempo;
ricordare richiede spazio, e io non ho più spazio.
In questa camera svuotata che si perde alla deriva,
non ho altro spazio, io,
che per il mio corpo; non posso più ospitarti, amore mio;
non posso far entrare più nessuno,
nemmeno una cometa che fuggendo chieda asilo,
nemmeno un pensiero, per quanto astratto
(e forse, proprio quelli sono i più ingombranti).

D’altro canto, non posso rifiutarmi
di accettare qualche estraneo che risalga da me stessa.
Non sarebbe la prima volta. Le vedi queste larve?
Qui, tra le mia cosce? Questi piccoli pàppici cremosi
apparentemente innocui, nascosti nelle pieghe delle cosce?
Sono comparsi dall’interno di me stessa, tempo fa.
All’inizio, mi sono spaventata tantissimo;
ci perdevo il sonno a ispezionarmi, per cercare di capire
da dove fuoriuscissero a scacciarli, a staccarli ad uno ad uno.
Mi guardavo nella bocca, tra i capelli, tra le rughe,
sotto i piedi, tra le ragadi alle labbra, ma niente, niente da fare…
Me li trovavo addosso fin dal mattino, soprattutto al mattino,
quando l’inerzia della notte mi impediva di controllarmi.
Mi svegliavo ricoperta dai vermi, sprofondata in un delirio frammentato.
Ho urlato per anni, temendo di morire da un momento all’altro.
Ho pensato per anni che questi vermi fossero i prodotti del mio corpo
in decomposizione – la decomposizione
di un corpo avvizzito poiché non più irrorato dal desiderio, dall’amore, dal sesso –,
e che la decomposizione sarebbe progredita dai piedi alle gambe,
dalle gambe ai genitali, dall’addome alla gola ed alla faccia,
riducendomi a brandelli,
ma lasciandomi intoccata la coscienza, e con essa la paura.
E invece, più tardi, molto più tardi, mi ci sono abituata,
ne ho compreso la natura;
questi insetti non sono affatto dei segni della morte,
ma un presagio, un segno anticipatorio, piccolo,
affinché ci si possa abituare ad accoglierla la morte,
anziché temerla o fuggirla.
Sono questi i miei compagni quotidiani, adesso.
Mi solcano la pelle, mi traversano, mi avvolgono,
mi solleticano insomma, mi fanno scivolare felicemente
su questa vita come su questo letto, su questo nulla.
E questi porri, li vedi?
Questi funghi nerastri screpolati che mi coprono
quasi fossi un albero abbattuto da tempo e lasciato a marcire nel bosco?
Riesci a immaginare quanti anni li ho guardati con terrore?
Quanti anni ci ho delirato sopra?
Forse, forse mi puoi capire, o almeno credere.
Siamo sempre terrificati quando osserviamo le cose dall’esterno,
senza attenzione,
e più di tutte il nostro corpo, il nostro sarcofago,
il nostro persecutore più subdolo.
Eppure, quando si galleggia ormai verso la fine, in solitario,
le cose cambiano; diventiamo dei ciechi,
ma capaci di dar senso a ciò che è informe, oscuro, deforme.
Forse, queste verruche sono i lucernari di un sottosuolo;
forse dentro di me riposa una città sommersa,
popolata di abitanti vivi, di tutti coloro che ho amato profondamente,
anche se talvolta nemmeno li ricordo;
una città sommersa, con abitanti dimenticati ma vivi,
e questi ne sono i campanili!
Non ne ho più paura.
Ho imparato che occorre procedere per gradi;
concedersi il tempo della comprensione, dell’accettazione;
sapere che ogni cellula, anche degenerata, anche maligna,
ci appartiene, è nostra, ci porta un messaggio d’amore,
laddove nessun’altro sia riuscito ad ascoltarci.
E poi, dopo la comprensione, occorre seppellire,
scordarsi nuovamente, riprendere a sognare.
Ci sto provando. Ho tutto il tempo adesso.
Ogni giorno, verso il pomeriggio tardi, mi ricopro di cera morbida,
in modo da rendermi bianca, tutta bianca,
e rimuovere ogni asperità di me stessa;
voglio rendermi assoluta, diventare una statua,
una di quelle statue classiche, belle, poggiate nei giardini delle Chiese…
così morbide, senza pretenzioni, senza sesso,
quasi fossero vite umane marmorizzate nella loro fierezza,
nella loro malinconia.
In realtà, per quanto mi riguarda, indugio in questa prassi quotidiana
per tenermi in esercizio col disvelamento e la falsificazione,
oltreché per ingannare il mio tempo…
Raccogliere la cera secreta dalle escrescenze;
coprirmene con cura, lentamente,
mi ricorda quand’ero giovanetta e mi apprestavo
davanti allo specchio ad ammansire la mia bellezza,
a attutirla con il trucco,
di modo che i ragazzi non ne fossero spaventati,
ma sedotti e rassicurati…
Provavo a trasformarmi, dunque, a compiacerli, non certo a snaturarmi.
E quella progressione verso la complessità
– benché osteggiata da amici e nemici –
mi dava la sensazione di essere speciale, diversa, più viva. Capisci?
Proprio il contrario di ciò che pensavano mio padre e il mio compagno.
Loro credevano che la vita dovesse essere “unificazione”,
che occorra volere, scegliere, decidere un solo lavoro,
una sola occupazione, un solo compagno amato in tutto e per tutto;
una condotta definita, una sola vita insomma.
E giù, tutta una serie di discussioni e argomenti,
estesi dalla morale alla psicoanalisi
– “Non è così che si fa… è da troie, da malate, da pazze” –.
Uuhh! Quante ne ho sentite!
Eppure, dentro di me ho sempre pensato che questa è la posizione
di coloro che hanno sepolto la creatività,
di tutti quegli uomini o quelle donne diversi da me,
diversi nei corpi, e dunque nei bisogni.
Pertanto, dov’è lo scandalo?
Siamo sempre portati a edificare le nostre teorie
su ciò che sotto sotto è solamente il nostro corpo, perverso, legittimo, unico.
Forse costoro, non hanno avuto la sventura di vedersi comparire
dei comignoli addosso,
dai quali sorvegliare cosa accade in se stessi,
e accettarlo senza raggiri, senza scordarsi dei propri omicidi.

Io, questo giro d’ispezione lo faccio da tempo.
Costretta come sono in questo cubo di cristallo,
quando la luce del mondo va tramontando,
mi piego sul microscopio piazzato qui sull’ombelico,
e attraverso di esso mi incammino all’interno,
non dico nell’animo, nello spirito, nell’essenza
– che termini, mio Dio! Buoni solo per le guerre o le Accademie –,
ma proprio nel corpo, nell’infimo del corpo, nel cuore, nello stomaco…
Così facendo, ho scoperto verità inconfutabili, beninteso per me stessa.
I miei tendini, i miei muscoli, i miei denti;
lo scheletro degli organi cavi o pieni;
tutto questo in me è danneggiato, deficitario o mancante.
È come se fossi slegata, come se le parti di me stessa fossero slegate;
le mie braccia e le mie gambe sono staccate, in procinto di perdersi;
la mia colonna vertebrale è sul punto di crollare.
All’interno del mio corpo, si aprono caverne dovute al crollo delle travi,
e i mattoni rovinano gli uni sugli altri,
formando degli ammassi, dei vuoti incapsulati.
Mi capisci, vero? Ne cogli le conseguenze?
Non sono mai stata capace di vivere da sola;
avevo sempre bisogno di qualcuno che mi sostenesse,
m’aiutasse a stare in piedi;
qualcuno che ricomponesse tra di loro i pezzi sparsi,
i desideri e gli affanni,secondo un disegno coerente,
e che pure fosse consono al disegno di me stessa.
Tu ce l’avevi questo progetto – lo so, lo stesso –,
ce l’avevi la passione, l’energia, la dedizione.
Ma io ero troppo, troppo frammentata per riuscire a ricompormi.
Capitava sempre che un fascio di nervi mi scappasse
da una parte, che un occhio si voltasse dall’altra,
che la bocca s’afferrasse a una lingua diversa dalla tua,
o che la mano si stringesse con quella di un estraneo.
Troppo divisa, troppo ferita, per poter restare uniti e vivi
in una sola pelle condivisa, la tua, la nostra, la mia.
Per questa mancanza di coesione ho perso uno dopo l’altro
i desideri, le inclinazioni che avevo da adolescente,
quando ancora mi capitava di saltare tra i prati,
inseguire gli aquiloni, correre a perdifiato per ore e giorni.
Ho perso il tuo amore, l’affetto delle amiche, la stima di me stessa;
non ero abbastanza stabile, non suscitavo abbastanza fiducia;
non evocavo sufficiente protezione.

Basta. Ti ho tediato abbastanza con questi rimpianti
e queste ricostruzioni – tardive quanto inutili –.
Stenditi qui vicino, sta facendo sera…
Tra qualche ora la luce tornerà a sparire dietro l’orizzonte,
e per buona o cattiva sorte smetteremo di specchiarci,
per buona o cattiva sorte…
dovremo guardare al di là dei vetri, verso l’oscuro, il profondo,
il grande vuoto;
verso la musica felice o minacciosa del mondo.

Sai, quello che mi è mancato veramente in tutti questi anni,
mentre vagavo nel fango della rabbia e degli amori familiari,
è stata proprio la musica,
quel suono primigenio che ci accompagna fin dall’inizio,
fornendoci il senso del nostro agire, la calma, la forza, la coscienza di resistere.
Non sono stati lo slancio o il desiderio a mancarmi,
ma il senso, la conferma di esser giusta.
E non parlo di un senso generico, ma dei sensi,
del piacere dei sensi, di uno in particolare.
Non sono stati i sapori e gli odori a mancarmi, no,
e nemmeno i contatti, gli abbracci, i baci…

Ognuna delle rughe, di queste verruche, ha sempre avuto un odore
talvolta più lieve talvolta più intenso;
ognuna delle mie caverne ha avuto il suo profumo e il suo olezzo,
il suo tanfo sopportabile o meno.
Certi giorni mi leccavo da sola.
Mi piaceva, mi rabboniva, per quanto ti sembri folle.
Magari avevo appena mangiato delle fragole,
e quel sapore gradevole mi addolciva.
Altre volte, mi capitava di raccogliere con le dita il buon umore del tuo sesso,
rimastomi addosso dopo l’amplesso; me ne bagnavo le labbra,
le palpebre, il collo;
e in quel gesto di erotismo c’era tutto ciò che il corpo e l’amore
potevano offrirmi:
gusto, sapore, profumo, contatto, contatti, sguardi; tutto, tutto,
tranne la musica.
Quella, la ritrovi soltanto se ti metti in ascolto degli altri,
dei loro sussurri, dei loro affanni;
se ti pieghi ad ascoltare il fragore del mare,
la nota monocorde di uno stagno, il sibilo dei rami sfrondati dal vento.
E poi, la nostra famiglia, la nostra città,
le strade nelle quali siamo cresciuti sono state particolarmente rumorose.
Troppe volte l’ho rievocata – lo sai – la nostra casa d’infanzia,
quella corte popolata di un folla stralunata,
quella nebbia nel cui interno siamo stati a brancolare,
senza alcun riferimento che non fossero gli sputi, le urla,
gli spari che venivan da lontano, oppure da noi stessi.
Che noia, a ripensarci! Che noia!
Eppure, da quelle urla, da quegli spari, da quelle imprecazioni
e invocazioni è venuta fuori una musica da camera, intensa,
appassionata, e possiamo riascoltarla, finalmente…

Ci sono ritornata, in questa casa,
subito dopo la fine di quella saga familiare che ci ha sbalzati lontano
gli uni dagli altri.
Stava così, crollata, sotto il peso delle colpe, dello spavento.
L’ammasso dei calcinacci sul pavimento ti obbligava a camminare
con attenzione;
ti permetteva di scoprire dei particolari di noi stessi che credevamo smarriti.
Sui muri c’erano ancora gli scassi dovuti ai colpi di fucile;
lungo il corridoio qualcuno aveva impiccato dei cani,
lasciati a penzolare dai ganci del soffitto,
perché non si dimenticasse l’atroce bellezza della morte;
tra gli stipiti della porta qualcun altro aveva inchiodato
la tastiera del pianoforte
dalla quale erano stati asportati dei tasti. Mi ci avvicinai;
misi le dita a mo’ di accordo sulle note mancanti.
Misteriosamente, riprese a suonare, come riconoscendomi…
Che meraviglia!
Un chiaro di luna ricopriva le macerie con la sua malinconia,
alla quale si aggiungevano la pioggia alle persiane,
i cristalli di Bohemia ancora tintinnanti,
i fogli dei libri ancora sfogliati dalla mano impercettibile del vento…
Era il brano che qualcuno stava suonando
quando l’ultimo colpo di mortaio fece piombare il silenzio sopra di noi;
era il brivido profondo della paura, di fronte a tanto orrore;
era il pianto disperato per la vita e per l’infanzia ch’era andata perduta.
Eppure, niente era andato davvero perduto.
La musica restava ancora lì, nascosta, intrisa nelle mura.

Per anni, i nostri suoni sono stati stridori di coltelli, di stoviglie, di vetri;
le nostre parole sono stati grugniti, latrati, auspici di morte;
le nostre canzoni son state lamenti, prolungati e funebri.
Forse per questo li abbiamo ignorati; ci siamo tappati le orecchie;
non abbiamo più ascoltato nemmeno quei rumori che Natura ci regala,
piegando le chiome degli alberi,
facendo tintinnare la pioggia nei campi,
facendo vibrare di passione il cuore degli amanti…
Avevamo sentito soltanto il dolore, del mondo,
e avevamo paura di riesporci a quel dolore.
L’ascolto del corpo, invece, ci avrebbe protetti,
permettendo di ascoltare della vita il desiderio,
l’intelligenza, il respiro. Di una vita, per lo meno.
Dentro di me ho ritrovato perfino qualche bella canzoncina
che mia madre canticchiava, mentre preparava la cena
o si truccava davanti allo specchio della camera. Ricordi?
“Signorinella pallida, dolce dirimpettaia al quinto piano…”;
oppure quei notturni di Chopin che il nostro pianoforte ci donava,
la sera,
dopo che noi due l’avevamo maltrattato con le nostre sonatucce
a quattro mani.
Sì, ci sono rimasta degli anni, rannicchiata su me stessa,
prima di ritrovare la melodia creata dalle labbra di uomini gentili,
premurosi, mossi dall’amore, dalla passione,
o anche dalla disperazione, e potermene fidare.
Occorre del tempo per questo, parecchio tempo.
Bisogna perdere la vita, prima, tutto quello che di bello ha la tua vita.

Adesso, quando la luce del sole si solleva all’orizzonte,
e si riesce a vedere al di là di noi stessi, mi alzo in piedi,
mi avvicino ai vetri, e i vetri si flettono, diventano cristalli,
strumenti musicali che raccolgono quei fiati debolissimi,
profetici, grazie ai quali vaticiniamo se arriverà qualcosa di buono
o minaccioso, – un temporale, una nave da crociera,
oppure un bell’atleta che incede a petto nudo –.

Conosco l’antica melodia che avrei suonato per te,
fossi stata ancora giovane, ancora amata,
fossi rimasta ad ascoltarti già da prima,
quando preveggevi che i nostri comandanti guerrafondai
avrebbero inabbissato le navi, amiche o nemiche
– con tutto il loro carico prezioso di vasi, gioielli, stoffe dipinte –,
ogni volta che avessero intravvisto qualche segno di quella diversità,
di quella umanità che spaventa,
allorquando non si riesca a sottometterla o comprenderla.
Ne hanno affondata talmente tanta, di umanità e diversità,
che basta rimettere un braccio nell’acqua per ritrovare una mano ancora viva;
una bocca spalancata che ancora cerca un bacio;
una chitarra che ancora risuona e ci incanta…

Lo senti anche tu? Avvicinati, siediti; forse riusciamo a ritrovarci,
a sentire per una volta la stessa cosa…
Ci riesci? Non ci riesci?
Sei troppo giovane tu, ancora attaccato alla vita,
ancora alla ricerca di cose da masticare, oggetti da riconoscere;
di una storia evocabile insomma,
di quelle che chiamiamo poesia o letteratura, o vita…
Ma io non appartengo più alla vita; non so più definirmi;
non so dirti cosa sono diventata, una vecchia, un’allucinazione,
un’emozione qualunque intesa poco prima della morte.

È difficile parlarne, lo so,
raccontare le cose dal versante del niente,
rievocare delle immagini ingiallite, ricomparse sulla pagina del mare…
E a che scopo adesso? Che cosa cambierebbe?
Tutto è disperso, perduto, fatto a pezzi;
frasi, perle sparigliate, sogni mancanti.
Li vedi? Dei cani randagi mordono l’aria, da qualche parte,
per ricordarsi di come si mangia, si uccide, si prova piacere;
laggiù, sull’orizzonte, una barca si muove leggera – ammesso che esista –,
tirata da un filo invisibile all’uomo, nel tramonto ormai spento.
E noi stiamo irretiti sul bordo dell’oceano,
e neanche te l’immagini il perché. Incubi, appunto.
Conseguenze imprevedibili e malefiche dell’esperienza,
forse anche della felicità raggiunta qualche volta, benché fugacemente.
Puoi trascorrere degli anni senza mai toccare il cielo,
senza accorgerti di niente.
Ti pare che non succeda nulla di buono o di cattivo,
non riesci a spiegarlo, sei vuoto.
Poi, un giorno, d’autunno, un essere insignificante
– un amante, una farfalla –
si posano sull’ultima cima di un platano bagnato, poco dopo un temporale,
e quell’albero comincia ad oscillare, via via più fatalmente…
la pioggia riprende, se pure non c’è pioggia, su di te.
Allora ti guardi, sollevi la testa,
ti accorgi che una mandria di nuvole va via, nel cielo ormai terso;
diventi consapevole, non più di ciò che sei, ma di quello che hai perso.
Proprio questo è capitato, a me, a te, a quelli come noi.
Fino a quando ho vissuto da sola, assolutamente sola,
non facevo che rinchiudermi in me stessa!
A farmi compagnia c’erano i vermi, le rughe, le verruche;
da ascoltare c’erano i respiri e i borborigmi;
da ammirare c’erano i seni, le labbra, le mie cosce.
Tutto ciò che volevo me lo forgiavo sul calco del mio corpo,
dei miei fantasmi, delle budella…
Poi è arrivata la perdita, la coscienza della perdita – non so come dirti –,
e insieme ad essa l’evidenza che lì fuori c’era stata la vita degli altri,
bambini o giganti, amati oppure odiati,
e che anche tu c’eri stato, anche tu, soprattutto…
Da allora ho scoperto una nuova infelicità, la vera infelicità…
qualcosa che c’è stata, ch’è arrivata ed è sparita!

Non so più che fare adesso;
mi pare già d’aver vissuto due, tre o quattro vite, tutte insieme.
Ho conquistato e perduto tutto, troppo in fretta, tranne la nostalgia,
questa orribile malattia che ancora, e fin da sempre, mi attanaglia.
Talvolta, mi sembra che la felicità esista ancora,
che tutti i nostri amici stiano ancora ad aspettarmi,
che il mio compagno, così amato, stia ancora qui, dietro di me…
Forse potrei voltarmi, tornare a immaginare, sognare, abbracciarlo…
in fondo, sono preparata a non trovare più nessuno,
come in quel film di cui parlavo, ricordi?
“Vieni, siediti, accomodati”.
Oppure… non so… ho troppa paura di riprovare la felicità,
se questa non è eterna.
Preferisco accettare la fine – o accettarla per forza –,
anche se ho il terrore della morte; l’angoscia di trovarmi da sola,
senza le tue braccia che mi stringono e mi avvolgono,
senza l’illusione che anche tu ci rimarrai, accanto a me,
che anche tu vorrai morire, insieme a me… Ho troppa paura…
Per questo mi accomodo a lasciarmi scivolare;
indugio in questi riti quotidiani; mi trucco, mi stendo,
mi copro di cera, mi metto a guardare i miei vermi.
Preferisco distrarmi così, cadere in questa trance,
sintonizzarmi sul murmure perpetuo che sale dal mare, dal corpo, dal nulla;
lasciare che sia il caso a decidere per me – o almeno sul come e sul quando –;
mi difendo denudandomi, privandomi, svuotandomi di ciò che mi appartiene,
di modo che, voltandomi indietro, io non possa più trovare niente
e nessuno cui legarmi nuovamente,
e riaprire la ferita, risentire l’assenza, l’assoluta dipendenza!

Come vedi la mia casa s’è ridotta all’essenziale, al niente,
pavimenti, stoviglie, tovaglie ricamate;
niente gonne o calze a rete; niente certezze, pareti divisorie,
soffitti e recinzioni che servano a difendersi;
nessuna porta, nessuna entrata, nessuna uscita; nessun campanello.
Soltanto vetri, soffi, illuminazioni,
bagliori incerti che cambiano a seconda della luce.
Come vedi, la mia vita s’è ridotta all’essenziale, al quasi niente;
una spoliazione completa, completata;
una dimensione assoluta della perdita – benché fruttuosa e accettata –,
dalla quale mi riesce di concepire l’inconcepibile
dell’amore perduto – compagni, amici, fratelli, madri, padri, tutti, tutti ridotti a ricordi,
a respiri, ai battiti che fanno di me quel che sono, un donna sola, isolata.

Come vedi, il mio corpo s’è esso stesso ridotto all’essenziale,
divorato dall’interno, slegato, degenerato;
così afflitto e paralizzato che io stessa me ne curo devotamente
– come faremmo con la salma di una santa –,
ricoprendomi di cera per cancellare tutti i segni del genere,
delle vittorie e delle sconfitte; per rendermi assoluta,
non come un manichino ma come un dipinto,
un’immagine archetipica, una statua dell’Uomo.
D’altro canto, non è questa la condizione della divinità?
Eliminare tutti i particolari che ci rendano riconoscibili, gli uni dagli altri;
cancellare le asperità che ci dividono, di modo che ci si possa
confondere, riunire,
ritrovarsi in sintonia, in simpatia… Un solo battito, un corpo solo…

Per questo, ti dicevo, non c’è più traccia di concretezza nel mio parlarti;
non c’è più niente e nessuno, di concreto, che richieda mani per scrivere,
labbra per confessare, occhi per concepire;
non ho altro per la mente che immagini strappate, sognate, allucinate.
Nessun racconto, nessun ricordo, nessuna storia – semmai c’è stata storia –;
nessun linguaggio concreto, rassicurante…

Ciò che posso consegnarti, in quest’ultimo annunciato momento terminale,
è uno sguardo piegato, una testa piegata, pacificatasi con tutto e con tutti,
e tu puoi prenderla e cullarla tra le braccia;
una testa chinata, dall’espressione serena
ritornata in luogo dell’anima che non posso descrivere,
ma che rende tutto il buono di me stessa…

O forse una voce, un filo ininterrotto che proviene da lontano,
che prosegue attraversandoci… un tempo, un tempo verbale…
Non so se lo senti…
Tra poco, pochissimo, il mare si ingrosserà,
col suo respiro silenzioso, ci coprirà,
ma noi continueremo a parlarci, a contattarci, a stare insieme…
Potremo udire la nostra voce al di sotto delle correnti,
un suono che racchiude tutto ciò che siamo stati…

Non è importante sapere cos’era. Non più adesso.
Qualcosa, qualcuno c’era… Non è importante, non è importante…
Qualcuno… qualcosa… era…


Aosta, marzo 2014









Altera Mater


(Una stanza buia, dall’atmosfera terribile, inquietante. Diresti che vi è stato commesso un crimine, anche se non ve ne sono gli elementi. Sul fondo, verso destra, un divano a due posti,su cui siede il protagonista – ma potrebbe essere anche una donna, chissà: dagli abiti di scena, e dal trucco pesante che porta sul viso, non è possibile identificarlo con esattezza.
Un suono accompagna l’intero dramma, prima cupo, poi via via più sereno, come un amore ritrovato. Comincia a parlare a un interlocutore inesistente
):




Entra, siediti, accomodati. Finalmente.
Non hai mai saputo farlo tu; non hai mai potuto o voluto accettare un invito.
Ci provo da anni io – quanti anni? Cento, mille? –.
Appena qualcuno ti apre la porta, per accoglierti, tu entri,
ti volti di schiena, per non stringere la mano al padrone di casa.
Il tuo corpo si disseca, s’indurisce, diventa piccolo, più piccolo.
I tuoi piedi disegnano una danza da suora in preghiera;
le tue mani da cucitrice, nervose, vendicatrici, si chiudono davanti alla bocca,
nascondendo il sussurrìo di una bestemmia, contro questo o quell’ospite,
ogni volta contro, ogni volta qualcuno.
E se quello ti sorride, ti invita a sederti, ti offre da bere, diventi di pietra,
cementata a un asse del pavimento e ancora più chiusa,
una statua indurita dall’odio, dal pregiudizio contro le donne, le madri, le figlie:
basta nominarle, che subito la pelle ti si macchia di ruggine, si arrugginisce,
diventa una maschera di rabbia; la bocca ti si chiude,
sebbene sia impossibile nascondere i denti;
questi cominciano a battere, a battere,
si inoltrano al di là della bocca, addentano i piedi, le cosce, le labbra degli ospiti;
tutta la stanza diventa una dentiera battente, minacciosa, angosciante;
non riesci più a restarci, ti senti impaurito, hai voglia di scappare dal divano,
dalle tende, dalla carta da parati.
Tutto assume la tua durezza, il tuo umore cupo, presago di sventure.
I disegni sui quadri della parete prendono corpo, diventano iene, pantere;
si staccano dalle tele, ti rincorrono;
non resta altro che odiarti, colpirle o fuggir via.

Forse è quello che vuoi, che hai sempre voluto,
benché ogni volta che qualcuno ti abbia offerto un pasticcino,
una delizia, un buon caffè,
ti sia sempre nascosta dietro una falsa sazietà,
una garbata assenza di desiderio, una nobiltà ostentata nella privazione.
Ti conosco io. Da cento anni. Da mille anni.
Di sera, dopo aver cenato insieme, sparisci nel sottosuolo.
La luce della luna ci sorprende dalle finestre, allunga le ombre,
la tua ombra ti tradisce, risale le scale, viene a destarmi, ci rivela ciò che fai;
una bocca, grande quanto una voragine, quanto un abisso,
si spalanca: vorresti inghiottire tutto – ogni forma di cibo,
gli animali domestici –, tutto, senza neanche masticarlo.
Ma il cibo inghiotte te, bocca contro bocca,
e non riesci più a sfamarti.
L’ombra si ritira, velocissima, un sicario che si perde nella notte.
Resta sul pavimento un odore di sangue, di lotta per la vita o per la morte,
compiuta per vendetta, tutte le sere, per fame,
una fame ancestrale, una punizione divina.
Un senso di colpa insaziato si stende su di noi,
come se la tua ombra ci fosse rimasta addosso, sulla pelle,
lasciandoci un’accusa di colpevolezza.

Scusami.
Non voglio aggredirti, non voglio offenderti.
Forse la nostra vicinanza mi ha reso timoroso,
e anch’io non riesco a percepire se non fauci spalancate,
latrati, ombre che mi inseguono e mi uccidono.
Non è un sogno, come ben sai; non abbiamo mai sognato noi;
le poche ore di tregua, che gli altri chiamano sogno,
si sono sempre risolte nell’arrivo di tua madre
– ancora più dura e vendicativa di te (se mai sia possibile) –,
oppure nella contabilità matematica delle donne morte,
di quelle appena nate, di quelle da odiare…
ci servivano per giocarcele al lotto, nei fine settimana –.

Adesso sei qua. Lo so, lo so che è ben difficile per te;
ma prova a piegarti, prova ad inclinare almeno un po’
quella colonna rigida come un giudizio divino;
quest’invito non è una prova di fedeltà alla tua vendetta;
Prova ad accettare questo sorriso (il mio, il nostro) che ti si apre.
Scoprirai che i fianchi della poltrona non sono mani lubriche
che ti avvolgono,
né i muscoli minacciosi delle tue ombre.
Siediti, accomodati.

Mi piacerebbe parlarci, raccontarci un giorno almeno, dei nostri mille anni.
Non hai mai avuto voce tu, mai una parola, non dico di dolcezza,
quanto, almeno, di curiosità, di desiderio:
eri troppo impegnata a rifuggire tutti coloro che ti mostrano affetto;
appena qualcuno ti notava ti rinchiudevi dentro,
sempre più dentro,
assediata dai fantasmi sfuggiti dalla tua gabbia scarnificata;
cominciavi a cercarti una rifugio, a nasconderti in casa,
ma la casa si restringeva, inesorabilmente;
le mura diventavano spesse, corte,
impermeabili alle voci dei bambini che ti avrebbero voluta insieme
a loro, fuori,
a preparare i dolci col vino cotto o la frutta sotto spirito;
perfino la porta si trasformava, diventava una specie di botola verticale,
bucata soltanto dalla luce perentoria che filtrava dalla serratura.
Quella luce ti seguiva, ti perseguitava,
ti impediva di nasconderti del tutto – a chi d’altronde?
Forse, alla tua vergogna per i piccoli, continui,
patetici furti che commettevi dovunque venissi invitata –.
Ma poi, anche quella luce si indeboliva;
diventavi uno di quei bambini nati mostruosi,
nascosti negli scantinati dalle nobili famiglie di un tempo,
sepolti per occultarne la sofferenza, il peccato, l’estraneità.
Ti perdevi a rovistare nei cassetti dei tuoi lugubri armadi,
quei sepolcri familiari appartenuti a tua madre, a sua madre, a sua nonna.
Lì dentro, prigioniera di quella camera oscura,
passavi le ore a riordinare i pezzi del corredo,
quelli destinati a una delle mogli o delle figlie che hai sempre detestato;
quelli che avresti voluto per te, per essere donna
e provare piacere, almeno una volta.
Una folla di gesti, ripetuti, incomprensibili, perversi.

Un giorno, riuscii a cogliere un frammento di quella coreografia del peccato.
Avevi dimenticato di serrare completamente le persiane
– oppure l’hai fatto apposta, affinché io ti guardassi –.
Avrò avuto quindici anni.
Mi arrampicai dall’esterno del caseggiato, fino alla finestra;
mi misi ad osservare quei tuoi rituali enigmatici,
illuminati dalla luce della serratura.
Due dita si muovevano, operose e precise,
come le zampe di un ragno quando annodano una tela. La tela cresceva.
Tirasti fuori dai cassetti la federa di un cuscino, una camicia di raso, non so.
Stavi inginocchiata al centro della stanza, come in procinto di confessarti.
Portasti l’orlo di quella camicia sul viso, sulla bocca, sugli occhi,
senza consapevolezza, annusandola, respirandoci dentro,
carezzando quel peccato inesplorabile, destinato alle altre.
Il grande specchio dell’armadio di tua madre ti sorprese.
I grappoli di uva ricamati a pizzo, colorati e umidi, ti coprivano il viso;
dietro quella maschera di stoffe potevi fuggire
dalle grate della clausura a cui eri destinata;
diventavi un’odalisca, danzante nel buio, discinta.

Bisognava sorprenderti in uno di quei momenti
per comprendere che forse, anni prima anche tu eri stata una bambina;
forse anche tu avevi desiderato ricevere un bacio, sentire una carezza,
raccogliere lo sperma con le dita, tra le gambe…
Dopo un po’, qualcosa sbattè alla finestra.
Un colpo di vento, forse; un albero di pino col suo collo da giraffa;
un passerotto, illuso di poterti rallegrare.
Rimasi ancora un attimo, con l’occhio alla persiana,
la punta dei sandali conficcata nei fori della piccionaia.
Era bello scoprire che sotto la sazietà esibita ad ogni invito,
sotto la maschera di legno del tuo viso – non smossa da alcun piacere –
sotto la virtù glorificata della castità, del sacrificio, del ritiro,
tu fossi, o fossi stata, tutt’altra, sensuale, timida, golosa di vita
– almeno da piccola, almeno nel buio di una stanza,
almeno nell’allucinazione del ricordo, del desiderio, dello specchio –.
Avrei voluto raggiungerti lì dentro, come un vento che sussurra;
dirti “Guarda, guardati, sei donna anche tu, i tuoi occhi sono belli,
la tua bocca è per un bacio; il tuo fremito è legittimo”.
Avrei voluto spegnere tutte le luci e le voci del mondo, per lasciarti proseguire.
Non ci riuscii, ad essere con te, a cessare le campane di mezzogiorno.
Ti accorgesti di qualcosa. Di me.
All’improvviso, il nastro di luce che attraversava la stanza si riavvolse,
scomparendo nell’occhiello della serratura;
lo specchio del grande armadio richiuse le palpebre, amareggiato;
il tuo viso, il tuo corpo, il tuo desiderio, il tuo portamento,
tutta intera diventasti di nuovo vecchia, una statua di legno,
di quelle erette nei cimiteri per celebrare una vergine ammazzata dai nazisti.
I grappoli di pizzo tornarono ad essere ricami,
nel marmo impreziosito dei conventi di clausura, ed esser ripiegati.

Uscisti da quella stanza come da un tempo e da un luogo lontanissimi.
Eri di nuovo tu.
A quel punto, il passerotto si ritirò davvero dal davanzale.
Io scesi dalla mia postazione. Avevo paura della luce
– come te d’altronde –, sebbene la luce, come dicono,
ci insegni a riconoscere noi stessi,
ad assumere la maschera più adatta per ogni circostanza.
Abbiamo sempre preferito il buio, noi, l’intravisto, il chiaroscuro,
l’allucinazione di qualcosa che è proibita ma che pure vuoi vedere.

Ti ricordi quella estate, la mia prima da adolescente?
La prima trascorsa da te?
Mi ero chiuso in bagno, da solo, e disteso nella vasca –
lo facevo spesso: avevo bisogno di tempo, per prendere confidenza
col mio corpo nuovo –.
A quel tempo il balcone di casa già arrivava fino al bagno e alla sala.
Avevamo le zanzariere alle finestre, e i vetri spalancati per il caldo.
Avevo appena litigato con mio padre, e avevo bisogno di ritrovarmi.
Spesso ci capita che il sesso ci permetta di raggiungere una dimensione onirica,
e allora una corda rossa, di seta, sembra uscire dal ventre;
ne prendiamo un capo, lo tiriamo, quello si svolge sorprendentemente,
rivelando a poco a poco tutti i nostri desideri, quelli sconosciuti, inconfessabili.
Cominciai a toccarmi, lentamente, ad occhi chiusi,
fino a sporgere quel nastro.
Lo presi tra le dita, me ne avvolsi la testa, i capelli;
me lo misi sopra gli occhi, tra le labbra; ci giocavo.
Tu eri lì, impietrita ma non mossa, attaccata alla zanzariera;
avevi guardato tutta la scena
– era il tuo modo di chiedere e desiderare;
non potevi farlo che così, di nascosto, rubandolo agli altri,
godendo attraverso gli altri o nel nome degli altri –;
e io ero lì, a soddisfare il tuo piacere di madre,
sapendo bene che quel piacere l’avremmo nascosto entrambi,
tu ed io, agli occhi luminosi di mia madre.

Hai sempre vissuto così, dietro una finestra o nascosta da un vetro,
a guardare a rubare, ad ascoltare.
Non te stessa naturalmente, ma gli altri;
certe volte, mentre mi facevo la barba sovra pensiero,
mi accorgevo di non avere più lingua, di aver perduto un occhio;
altre volte mentre mi pettinavo
avvertivo il pettine scivolare da solo tra i capelli;
certe volte ancora mi sembrava di cercare un fazzoletto
per asciugarmi le labbra,
o di non trovare l’accappatoio, la canottiera, i pantaloni appena smessi;
poi mi giravo, e mi rendevo conto che il fazzoletto ce l’avevo,
me l’avevi messo in tasca tu, silenziosamente;
mi accorgevo che l’accappatoio, o la canottiera
mi eran stati puntualmente già lavati,
oppure che quel pantalone l’avevi nuovamente stirato
e mess’a posto nell’armadio.
Eri sempre lì, a scrutare nel tuo specchio ingranditore
– quello specchio che amavi tanto e che portavi tutto il tempo nella borsa –;
ti perdevi nelle sue deformazioni a guardare il mio occhio,
la mia pelle, – ecco dov’erano finiti! –;
a controllare che mi fossi lavato i denti, che non avessi fumato troppo,
a indagare se fossi davvero andato a lavoro, o non mi fossi perso,
piuttosto, tra i cuscini di un’amante.

Le sere in cui nostro padre e nostra madre non tornavano a casa,
per impegni di lavoro, tu eri felice,
felice di poterti abbandonare alla tua brama di controllo,
di poterti sostituire a nostra madre.
Non riuscivo mai a cenare da solo, a guardare la tivù,
a leggere un libro o a stendermi nel letto in santa pace: tu eri lì,
incollata a me, dietro di me, in piedi,
a scrutare nel piatto se per caso non avessi lasciato qualcosa di immangiato;
eri lì con me, sul divano, a leggere sottovoce la mia stessa pagina,
la mia stessa frase, la mia stessa parola;
eri sempre lì vicino, con me, accanto a me, dietro di me o davanti,
e se avessi potuto infilarti con me sotto le lenzuola, chissà,
l’avresti fatto.
Sì, l’avresti fatto, come hai fatto quando ero bambino
e per anni hai liquidato ciascuno dei contendenti,
stabilendo che il mio posto a letto era con te, nel divano letto della sala,
di fronte al televisore: ricordi?
Quanti anni abbiamo dormito insieme?
Quante volte ti ho sentito respirare accanto a me,
vegliare sul mio sonno, piegarti sul mio corpo…
Sei sempre stata così, vecchia pazza bisbetica, malata d’amore,
insolente pettegola velenosa, ladra, bugiarda, appiccicosa,
sempre lì a guardare in un buco della serratura, del culo, della figa,
della bocca, della porta del bagno, della camera da letto.
Appena t’accorgevi di una serratura ti prendeva una sorta di violenza incontrollabile;
dovevi aprirla, guardarci dentro, sputarci dentro, per sporcarla,
perché nessun’altro potesse possederla dopo di te.
Mia madre aveva una scatoletta di metallo,
di quelle piccole casse forti da armadio nella quale credo
non conservasse altro che qualche collanuccia, o un libretto sanitario.
Andasti a prenderla, a scovarla, approfittando della sua assenza,
spostando un indumento dopo l’altro.
Non riuscendo ad aprirla con qualcuna delle tue chiavi,
ti mettesti a percuoterla e sfondarla.
Dentro c’era una vecchia foto ingiallita di mia madre,
giovane, bellissima,
ritratta nel momento della prima comunione;
ti infuriasti, la facesti a pezzi, a piccoli pezzi.
Al ritorno dal lavoro, di sera, quando i miei scoprirono l’effrazione,
avesti il coraggio di accusare me:
“È stato il bambino; voleva pazziare e ha rotto la scatola”.
Sei sempre stata così, vecchia pazza, ladra, meschina, sfortunata.
Sfortunata.
Avevi desiderato da sempre una vita normale, anche tu;
una casa, un marito e una famiglia;
ma una madre più pazza di te, una madre crudele ed ottusa,
aveva stabilito che sua figlia sarebbe stata dedicata alla famiglia,
ad assistere lei, la parassita, la violenta dagli occhi di ghiaccio:
da bambino mi spaventavano perfino le sue fotografie;
quella schifosa aveva stabilito che tu le dovessi fare da balia per tutta la vita,
che tu avresti fatto da balia a tutti i tuoi fratelli e sorelle.
Per questo, hai trascorso la vita vivendo di elemosine,
raccattando le briciole degli altri, del piacere degli altri;
passando di casa in casa, randagia, senza una stanza, senza un armadio;
indossando i cappotti dismessi degli altri, le vestaglie delle altre,
le pantofole buttate;
rovistando sulle tavole degli altri, nelle stanze degli altri;
pulendo i cessi degli altri, accettando le limitazioni e le condizioni degli altri,
subendo lo scherno di quelle più belle, più giovani, di quelle con i figli;
obbligata ad accettare solo ciò che rimane del calore di una cena,
di una festa, di una stufa;
mandata a letto come un’orfana, da sola,
a recitare le profezie, da sola, con l’angoscia di non essere tenuta,
di venire abbandonata, senza infanzia, senza giovinezza,
senza mai mai mai aver avuto un solo bacio.
E quando l’artrosi e la vecchiaia ti hanno impedito di piegarti,
di lavarti da sola, di pulirti dal piscio, sei rimasta sporcata,
come un cadavere, un crocifisso, una lapide imbrattata,
senza che nessuno ti desse una mano,
tu stessa incapace di chiedere aiuto, di chiedere perdono, di gridare.

Nessuno si è mai preso cura di te.
Forse la tua rabbia ci ha fatto comodo,
ci ha permesso di designare in te quella cattiva, velenosa, da buttare.
Certo, eri così, ma nessuno si è mai preso la premura di guardare più oltre,
di comprendere più a fondo se mai vi fosse stato un tempo
e una bambina capace di amare,
se non ci fosse ancora qualcosa da amare,
al di là della tua maschera pelosa e aggressiva.
È stato comodo per tutti.
Abbiamo trovato il nostro tornaconto.
La tua distruttività ci ha permesso di considerarci buoni, totalmente buoni;
la tua perversa attrazione per gli orifizi ci ha permesso
di non soffrire in noi stessi le nostre perversioni;
la tua velenosa zizzania ci ha permesso di negare le voragini
delle nostre relazioni già bell’e sfasciate.
Mai nessuno si è soffermato a considerare quanto sei stata sola,
tutta la vita;
quanta vergogna hai dovuto subire quando le più giovani,
quelle incinte, le ultime arrivate si spogliavano,
sottolineando di fatto la tua vecchiaia e la tua mancanza di femminilità.
Non ci siamo mai chiesti quanta umiliante sofferenza ci sia
nell’accettare di venire ospitata in una casa straniera,
da un ospite straniera che ti ospita per pena,
per sottrarti al dormitorio, per amore del marito…

Quante rinunce hai dovuto accettare? Quante perdite?
Quante amputazioni?
Mi piacerebbe parlare di questo, parlare di te, sai?
Sarebbe bello, ci avvicinerebbe. Non l’abbiamo mai fatto.
Soltanto una volta hai aperto un cassettino del tuo secretaire,
accennandomi qualcosa di tanti anni prima:

Quando ero piccola, avevo dieci anni o quasi, stavo diventando signorina. Mia madre mi prese da parte e mi parlò a lungo. Mi disse che dovevo rinunciare a correre appresso ai ragazzi, come facevano le mie sorelle, dovevo seguire i miei fratelli – tuo padre soprattutto, che si sarebbe trasferito a Napoli con tutta la famiglia. Si mise a piangere; poi mi disse ancora: ‘Se te ne vai anche tu, chi rimane ad assistere me?’ Io le dissi che mi sarei occupata comunque di lei, ma che volevo uscire anch’io, come le mie sorelle. Non volle sentire ragioni; ribadì che dovevo rimanere per sempre al suo fianco. Se quella stronza mi avesse lasciato fare la mia vita non avrei dovuto fare la serva a tua madre e a quei porci dei miei fratelli…”.

Un bel raggio di sole era entrato tra di noi,
ci aveva permesso di scoprire per la prima volta i tuoi occhi di bambina,
la tua voce timida e gentile che chiede aiuto, che chiede amore,
che sa domandare;
quel raggio ci aveva riportato a quel momento terribile,
quando tua madre,
col viso suo da Gorgone, ti aveva condannato a morire per sempre.
Chissà, se quella luce non si fosse spenta subito avremmo potuto
sognare un’altra vita,
ritrovare qualcosa di vivo, ancora, di vivo e di materno
sotto la tua maschera di legno; ma tu non hai potuto.
Ci sono dei momenti archetipici che cambiano per sempre
la nostra storia e noi stessi.
In quel momento, tua madre aveva cambiato per sempre la tua storia,
e tu l’avresti cambiata a mia madre e a tutti noi.

Quando vi trasferiste a Napoli – tu, mio padre e tutti i tuoi fratelli –,
a casa nostra, avvenne qualcosa di incredibile.
Un giorno mia madre tornò dal lavoro, di sera tardi – come tutte le sere –.
Si levò il cappotto di lana beige tagliato a mano
(ho una foto in cui sembrava Haudrey Hepburn);
si sedette sorridendo, si sbottonò la camicetta di cotone che indossava
per allattarmi.
Tu ti fiondasti su di lei, le scippasti il bambino dalle braccia,
gridandole che proseguire l’allattamento mi avrebbe provocato
una “febbre” pericolosa.
Da allora in avanti ci avreste pensato tu e tua sorella ad allattarmi,
col biberon.
Mia madre rimase sbigottita.
Forse la colpa di esser stata una madre, di amare suo figlio,
le impediva di reagire, di rivendicare per sé, ancora, quel piacere erotico,
quel gioco sensuale del contatto con la pelle.
Di fatto, le avevi sottratto violentemente la maternità,
l’avevi amputato anche a me quel seno.
Me lo hai detto tu stessa.
Ci tenevi a raccontarmi com’erano andate le cose.
In realtà, ho idea che ognuno di noi conservi la profonda memoria
di ciò che si aggiunge o si sottrae al nostro corpo.
Io sentivo che la bocca stava vuota, e che ogni giorno
si ingrandiva ancor di più, cercando altro,
cercando di nuovo quel seno che una volta aveva avuto.
Il tuo biberon, infilato maldestramente dentro di me,
mi arrivava nella gola, nel respiro, negli occhi:
mi sentivo paralizzato. Potevo solo piangere.
Quel biberon divenne ogni giorno più denso, più duro, più freddo;
e quella cosificazione si estese rapidamente alla mano,
al tuo braccio, all’intero tuo corpo;
diventasti a tua volta minacciosa e inaccogliente.
Anche quando, magari, avevi in animo di ridere,
sul tuo volto compariva un’espressione di sdegno,
di squalificazione, una specie di ghigno;
e quando ti protendevi per accogliere qualcosa tra le mani
– chessò un fascio di fiori, una scatola di cioccolatini, un lenzuolo nuovo –,
i tuoi muscoli si contorcevano istintivamente,
producendo un gesto stizzoso di rifiuto, di espulsione, di rabbia.
Avevi soffocato la riconoscenza per chiunque,
proprio come tua madre aveva soffocato, dentro di te l’entusiasmo,
il sorriso, la grazia. Eri diventata una minaccia.

Ricordi l’estate del ’78? Avevo tredici anni.
Eravamo tutti insieme in vacanza, la solita sacra allargata famiglia;
io ero partito in campeggio con i boy scouts;
voi passavate le giornate chiusi in casa, a seccare la frutta,
a tostare le mandorle.
Uno di quei giorni, uno dei tanti, cominciaste a litigare.
Mia madre camminava per casa come una creatura del primo paradiso,
innocente, quasi nuda, ignara della propria bellezza,
senza intenzioni sessuali o provocatorie;
voi cominciaste ad apostrofarla “puttana”; mio padre la insultò,
dicendo che voleva “attirare” gli uomini sotto casa, e tuo fratello,
quell’ottuso maiale, forse raccogliendo il vostro odio e il vostro intento,
le mise le mani addosso, la spinse sul tavolo, le stracciò i vestiti.
Lei reagì, colpendolo con un piatto, e tu la feristi tagliandole
un braccio con la forchetta.
Io ero in campeggio – come ti dicevo –; stavo facendo un girotondo,
quando vidi arrivare due vigili urbani che chiesero di me al capo scout.
Mi sentivo angosciato e imbarazzato davanti ai miei compagni.
Mi portarono via.
All’arrivo, vidi una calca di persone urlanti, guardare verso casa.
Mi feci spazio.
Dall’angolo del balcone cadevano gocce di sangue sulla strada.
Cose così ci insegnano che l’invidia, la ferocia, il male sono ineludibili;
ci piegano per sempre al nostro destino, spesso così diverso
dalla nostra natura o dalle nostre aspirazioni;
e il meglio che possiamo fare è prenderne coscienza.
In quegli anni della nostra vita familiare
io presi coscienza che i miei legami sarebbero sempre stati cordoni ombelicali,
e per ciò stesso indissolubili.
Mia madre prese coscienza della violenza compresa nel ruolo suo di vittima,
ruolo che le era stato assegnato da altri ma che lei indossava con accuratezza.
Tu prendesti coscienza – o avresti dovuto –
di quanta follia c’è nel rincorrere tutta la vita una donna, una madre
o un amante da liquidare,
quando l’unica che avresti voluto veramente ammazzare era già morta,
lasciandoti in destino la disperazione di non volere
e non potere ammazzare che te stessa.

Nei nostri anni di vita familiare, il destino che ti era stato assegnato prendeva forma, giorno dopo giorno.
Passavano le sere, gli anni, le stagioni; diventavi sempre più odiata,
sempre più dura, violenta. Sembravi perfino rimpicciolirti,
una malata di Parkinson, paralizzata in una smorfia di dolore o di disgusto.
Ti guardavo sottocchio, la sera, dal mio tavolo da studio;
rimanevi sola, aspettando che tutti gli altri fossero a letto,
per metterti a frugare.
Le tue dita sembravano scivolare l’una sulle altre per la frenesia e la voracità,
per la fame e la vergogna di venire scoperta a rubare.
Ti nascondevi dietro la tenda, ché nessuno vedesse,
a mangiare gli avanzi della cena;
sembravi un cane randagio che divori voracemente, furtivamente,
un pezzo di cotenna ritrovata tra i rifiuti.
Oppure ti chiudevi nella camera d’ingresso,
per sottrarre quegli oggetti senza senso che tu ritenevi preziosi
– un pezzo di stoffa, un quadro senza valore, un paio di forbici –;
li avvolgevi meticolosamente in uno straccio,
li infilavi di nascosto sotto la vestaglia,
poi correvi a seppellirli da qualche parte, in casa,
bestia affamata che atterra il suo bottino.
La gente ti odiava, ti evitava, ti allontanava.
L’avevo visto succedere laggiù, al tuo paese,
con tutte le tue amiche di famiglia e tutti i parenti, uno dopo l’altro;
li liquidavi considerandoli minacciosi,
e loro ti ricambiavano mettendoti da parte.
E lo vedevo succedere ancora, sotto i miei occhi, in casa nostra.
Ti preparavi a una rottura che avrebbe diviso mia madre da mio padre,
te stessa da me stesso,
e il torto dalla ragione, l’intelligenza dal sentimento.

Dopo l’ennesima stagione di liti, dopo quindici lunghissimi anni,
mia madre vi buttò fuori di casa.
Ricordo che andaste a vivere al Vomero,
in un appartamento che tua sorella aveva comprato per voi,
presagendo la fine di una convivenza mai veramente cominciata.
Mio padre era distrutto.
D’un colpo, era stato strappato dalle braccia della amata sorella
e tutta l’atrocità della storia, raccontata tante volte in casa nostra,
tutta quella memoria diventava nuovamente attualizzata,
un Male che si ripete, evidente, assoluto, banale.
Da un giorno all’altro, una madre e un figlio venivano divisi per sempre.
Ero anch’io un figlio, un figlio tuo,
e non mi importava più la conta dei torti e delle ragioni.
Tu eri sola, stavolta, senza fratelli,
privata finanche del tuo ruolo sventurato di badante.
Eri lì da sola, in una casa spoglia come mai ne avevo viste,
mancante di mobili, di tavoli, di letti, di cuscini.
Non avevo mai visto e sentito tanto dolore.
Finito il lavoro, mio padre veniva a trovarvi, ogni sera, alle 19.00.
Scelse me per accompagnarlo; mia sorella aveva sempre avuto
una sola madre, e non era la designata.
Io lo seguivo con angoscia; non dicevo una parola,
non un respiro, mentre alla tivù ridavano Happy Days…
Fummo noi a trasportarvi quattro sedie;
un piccolo tavolino da thè su cui cenare, un servizio di piatti;
portammo delle reti, materassi, qualche coperta;
l’essenziale per sopravvivere;
c’era un solo fornellino a gas, di quelli da campeggio,
per scaldare una minestra, una sola, per cena.
Tutte le sere, non vedevo l’ora che mio padre ritornasse per venire da te.
Ci fermavamo mezz’ora, mezz’ora soltanto.

Non potrò mai dire il dolore che provai, in quella stagione della vita.
Quella casa così spoglia, bianca, privata di tutto,
era il Guernica che la nostra famiglia aveva rivissuto,
e che adesso vedevo, con evidenza, davanti ai miei occhi.
La luce fioca emanata da una lampada d’alluminio;
la spalla di un animale squartato, lasciata sul davanzale della finestra;
i tuoi occhi ingigantiti, terrorizzati;
la tua bocca straziata ed aperta; i denti squadrati e ingialliti,
tutto ciò era la cosa più bella e terribile che avessi mai visto.
Tu e il tuo viso che non potrò dimenticare, diventaste il segno della sconfitta,
del dolore patito crudelmente, in nome e per conto dell’uomo,
di ogni uomo spogliato della dignità.
Lì, in quella resistenza muta, in quella assenza illuminata dalla lampada a gas,
cominciava la bellezza e la storia che avrei raccontato,
un giorno, da grande, tra mura scrostate e visi straziati,
tra i silenzi interminabili durati per anni.
Cominciai da allora, credo, a considerare la bellezza delle parole misurate,
abbandonate tra gli oggetti derubati alle vittime, ai profughi,
come tu sei e noi eravamo;
cominciai a considerare quanta ingiustizia c’è nell’esecuzione
di una condanna, di un atto, di ogni atto,
foss’anche di giustizia, di liberazione, di riscatto;
e come può mutare rapidamente la storia e il destino dell’umanità,
di una famiglia e dell’amore,
quando le cosiddette vittime colgono l’occasione e il gesto ferino
per essere carnefici,
anch’essi, dimentichi dell’orrore subito e denunciato!

Dalla croce non si scende – lo apprendevo a tue spese;
in quelle sere, in quel confino, tu diventavi una vera mater dolorosa,
e quella che un tempo lo era stata davvero ritornava ad essere
una madre, soltanto, una madre sola.
Tutti i torti, tutta la crudeltà e la miseria che avevi vissuto e conficcato
si scioglievano nei colori silenziosi e più sfumati di quella tela tragica
che io, da bimbo, ero stretto ad ammirare,
e dalla quale sarei uscito, un giorno, raccontandola,
in modo da restituirti l’onore della comprensione,
del conto pareggiato
la gratitudine per avermi insegnato a ritrovare l’amore
anche nel gesto di rifiuto;
a sentire la sofferenza anche in coloro che gridano vendetta;
a ritrovare la ricchezza anche nelle briciole di un pasto,
di una stufa, di un sorriso.
Alla fine di quella mezz’ora, quando tornavo a casa di mia madre,
happy days era finito. Avevo per sempre due madri e due lingue.
Le avremmo avute tutti, per sempre, due lingue.

Vedo che sei stanca adesso. Lasciati andare;
mettiti qui, sul divano, stendi la schiena e le gambe;
metti i piedi su di me: ti aiuterà a sentirti più distesa,
a conquistare lo spazio e il contatto con le braccia,
quello spazio che non ti sei mai permessa.
Perfino dopo la perdita dei tuoi adorati fratelli
– il tuo Cosimo, il suo amatissimo Ubaldo, la tua gemella Carla –,
dopo la morte di tutti,
quando ormai i riflettori erano puntati su di te, unica superstite
di quel lungo ciclo miceneo ch’è stato la nostra famiglia,
perfino allora hai scelto di occupare poco spazio.
Sei ritornata a vivere da sola, in una stanza sola
– la stessa dalla quale noi bambini scrutavamo il cielo
prima di partire per il mare –, ma più lesionata adesso, tralasciata.
Un museo dei ricordi, nel quale ogni oggetto
– le boccette di profumi, il vecchio pianoforte, un calendario anni ‘70 –
aveva ripreso il suo ruolo di cosa,
come accade forse all’inizio di tutto, e come accade alla fine dei giorni,
quando la dimenticanza ci divora, e ogni cosa torna a risplendere
per i suoi colori, per le sue forme, la sua vicinanza.
Eri diventata così anche tu, oggetto tra gli oggetti,
stipata in poco spazio, al buio, sulla dondolo di vimini.
Negli ultimi tuoi anni, non ti era più necessaria l’apertura, o la libertà –
tutte cose che connotano l’essere vivi,
ma che diventano dannose in vista della restrizione progressiva
del corpo e dello spazio, della morte.
Eri più saggia di noi tutti; lo eri diventata;
avevi accettato quella solitudine che un tempo era stata la tua condanna,
l’elemosina lasciata dagli altri,
e che adesso vivevi con dignità, senza piagnistei.
Eri tu, ancora tu, con la tua maschera di legno, la tua amarezza,
ma più rispettabile ormai, del tutto rispettabile.

Negli ultimi anni, quando venivamo a trovarti, laggiù, ad Ascoli,
ci accoglievi come non avevi mai fatto, a braccia aperte,
col viso più disteso:
una padrona di casa, finalmente, regale, solitaria;
io ti stimavo per quella dignità, per quel contegno nell’esprimere un desiderio.
Pure quando si trattava di passare un Natale, una Pasqua
o una vacanza insieme,
tu aspettavi che qualcuno lo chiedesse,
che io o mia sorella venissimo a prenderti.
L’alterigia e la presunzione di un tempo avevano lasciato il passo
al disincanto
per l’amore che può essere e non è.
E quel farsi invitare, quell’attendere l’invito, era una civetteria
da vecchia nobildonna,
la garanzia di non essere di peso, una garanzia necessaria dopo tutto
per sorridere un poco,
per essere più liberi di fare una passeggiata, di prendere un dolcetto.

Una civetteria, sì. È strano, te ne accorgi?
Eri stata, per un secolo e oltre, l’emblema della durezza,
un corpo senza pelle, senza fisionomia, reattivo ad ogni alito di vento,
e adesso stavi attenta perfino alla giacca da abbinare,
alle scarpe lucide, alla gonna nuova.
Se qualcuno ti proponeva di metterti il cappello per il freddo
tu rispondevi – stizzita adolescente – che ti avrebbe rovinato i capelli.
Forse, la morte di ognuno dei tuoi cari,
la solitudine di chi rimane ultimo,
la convivenza quotidiana con la morte ti rendeva libera dalla colpa,
dallo sguardo degli altri, di tua madre soprattutto.
Non c’era più nessuno, adesso, a tenerti “dentro”
– tranne la tua fragilità; e pure di quella te ne fregavi,
come se un’altra possibilità, in quel momento
(a pochi mesi dalla fine) fosse diventata ineludibile
– un bisogno di aria, di luce calda, di sensazioni –.
Non che non fosse già nella tua natura.
Sei sempre stata una ginnasta infaticabile,
ti prendevamo in giro proprio per questa tua istancabilità,
non stavi ferma un attimo; pranzo, cena, piatti, pavimenti,
scendere le scale, salire le scale, scendere, salire, scendere, salire…
Sei sempre stata così, da giovane.
E negli ultimi tempi, eri diventata ancor più “vagabonda”
– come dicevi tu, scherzando di coloro che viaggiano –;
uscivi tutti i giorni, per fare la spesa – cinque euro, mi raccomando,
soltanto il latte, la pasta e il pomodoro –,
per andare a messa, per recarti al cimitero, tutti i giorni, al mattino.
Quella devozione ai tuoi fratelli, a tutto il tuo mondo,
era una preparazione, la promessa di un incontro,
di un incontro rinnovato con l’amore.
Ancora di più, quando stavi con me, ed io ti sballottavo per l’Italia,
a visitare i monumenti e le chiese,
ti si illuminavano gli occhi per tutto quel mondo,
per tutta quell’aria respirata insieme.
Avrei voluto restare con te, allontanare da te ogni interferenza,
restituirti una stagione intera di assoluta emozione, sì,
l’emozione della felicità,
della giovinezza, non più stemperata dalla resistenza del corpo.
Una luce, un sorriso, un suono, un profumo, che giungesse
nel profondo dell’anima; la carezza di un bambino.

A volte per sfotterti ti davo un bacio,
e tu ti ci opponevi, tirando indietro la schiena,
chinando il capo per nasconderti a qual bacio: mi dicevi che ero “scemo”,
col sorriso mal celato di chi desidera il contrario.
In quei momenti, sentivo tutta la solitudine che hai patito,
e che mai nessuno può comprendere o emendare.
Bisogna essere stati vivi,
aver desiderato un bacio, una carezza, un amplesso,
una corsa nel grano, una lotta corpo a corpo;
bisogna essere stati scorticati, privati di ogni contatto,
per sapere cos’è la morte, o la felicità.
La vera angoscia è vedere sul viso degli altri il disgusto quasi,
l’indifferenza nel toccarci, accarezzarci, o abbracciarci,
nel prenderci per mano quando scendiamo le scale.
Forse per questo le statue sono sole, così dimenticate;
i loro visi hanno sempre quell’espressione accigliata e sofferente;
o forse è per questo che la sola possibilità di morire senza disperazione
sarebbe restare a lungo ricoperti dalle mani di coloro che amiamo,
le loro mani, le braccia, le labbra, avvinghiate al nostro corpo.

Questa era la felicità che ho sempre voluto darti, negli ultimi tempi.
Per questo ti ho detto, stenditi su di me;
ti tengo io; chiudi gli occhi, dimentica, o forse no: ricorda,
ricorda questo contatto tra di noi;
scrivi sulla tua pelle di questo amore riconosciuto;
incidilo nelle cartilagini, nei muscoli,
nascondilo sotto le sopracciglia, o tra i capelli;
tienilo tra le labbra; conservalo negli occhi;
adesso ci prepariamo, entrambi, per un’altra dimensione,
più profonda, più nostra… Ci riesci?
E io, ci riesco a farti essere una bimba finalmente coccolata?

Ti ho ritrovato quello specchietto magico,
quello che ingigantiva e deformava i nostri visi, ricordi?
L’ho messo qua, proprio sul tavolo, di fronte a noi…
No, non preoccuparti, non ci serve per scoprirci
– perché dovremmo d’altronde? –;
non ci è più necessario restare a scrutare la vita degli altri,
e neppure indirizzare in modo obliquo il nostro desiderio:
siamo entrambi bambini, ormai – ce lo dicono tutti,
con quell’espressione che ci piace così tanto, infantili –;
possiamo entrambi permetterci di vedere le cose più profonde
– una sirena, che dorme di fianco sul fondo del mare;
una forchetta arrugginita, appartenuta a chissà chi;
una cassaforte sfondata dalla quale è riemersa una penna stilografica –,
senza doverle recuperare, catalogare o assegnare a questo o quel proprietario;
alla fine, ognuno può considerare le proprie aberrazioni,
le colpe, le affinità vissute o inflitte, o ritrovate negli altri.
No, non preoccuparti. Mi pace tenerlo lì, di fronte a me;
mi piace, mentre rimango sul divano, con te accanto,
a perdermi in quella superficie deformante in cui le linee del corpo
si stondano,
i visi si allargano, i corpi si allungano,
e pare di esser come noi desideriamo;
distendo un braccio e questo si piega, mi abbraccia;
apro una mano, lentamente, fino al punto in cui le dita si intrecciano alle altre,
due mani, una nell’altra…
Scivolo appena sul divano, muovo una gamba, la vestaglia si apre;
due curve si avvicinano, due gambe, una sull’altra, due corpi, caldi, morbidi,
due corpi, uno nell’altro; e quel viso, che meraviglia…

Accenno un sorriso, e pare che la bocca si dilati,
che gli occhi s’ingrandiscano, diventan luminosi, luminosi,
le labbra si avvicinano alle labbra, le tue…
piego appena la testa, ti raggiungo, ti bacio…
penso alla notte, che pare stellata, la dolce notte, la buona notte.

Dormi, mia fragile, altera mater. Le parole non servono più.
Puoi dormire adesso, puoi dormire.
Ci sono io, qui vicino, per sempre.


Napoli, Ascoli Satriano, Aosta, dicembre 2012 – febbraio 2015

It Was, poemi 2010-2015, La Vita Felice, Milano 2017











Nel corpo tuo rimorso. Poesie, 1986-2002.

Autunno

Autunno

L’albero spoglio
le foglie

Lontano ancora un giorno abbuia
L’ultimo uccello riparte

















La notte ha consumato

La notte ha consumato
un’attesa di stelle

Dolore di cose passate
di cose non dette
di veglie e penitenze

Sto
come la vite
all’olmo crocifissa

















NEL CORPO TUO RIMORSO

I

Giorno dopo giorno
l’immenso che sprofonda in gelida fessura
il sibilo che usura l’interno e che effondeva…

II

Stabat mater bellezza e ombra della follia
e specchio giunto era il tempo che io nascessi
al lontano cammino dal lontano dove
ricurva e dolente inghiottiva l’orizzonte
ma inoltrandomi a notte e nel remo la paura
che il respiro della laguna sperdesse la rotta
colmasse la misura

III

Non posso fermarmi mi dici a una stazione
perché è a ritroso il mio viaggio già state
cucine semibuie seminferme corride di grida
latranti liturgie e dentro lo spasmo convulso
del sangue nel giugulo nel morso l’agonia
no non posso fermarmi voltarmi a ricordare
dare nome all’inaudito meglio per me l’amaro
masticare di chi non errando giudica l’errare
meglio l’amore quello normale ossia
tradire discutere se sei solo mia
e insieme accusarti del limite morale
tu stesso diviso tra bene non male
ridotto a puro avverbio il dopo e il prima

IV

Proprio vero è l’inganno il tuo logorio
verità o bellezza bellezza o verità
dimmi le cose che conoscere dovrei
e che nuda mi stringono al segreto degli altri
con cui te ne vai me in corda
alla fonda di ogni tuo umore
ma troppo sei bella ch’è alibi e dissuasione
quando il conto degli anni mi chiedi
con me sprecati tra omissis e viltà
e le altre maldicenti quella puttana
che pure col mestruo lo fa’
pardon la tua giovane età

V

Per quel poco che mi dai quanto ti perdono
ciò che insieme coniughiamo
figgere croci attender punizioni e ancora
ambivalere non vocare non potere non mai profferire
che amarti avrei voluto per le strade d’ogniddove
solamente accarezzarti e dal fondo dei tuoi occhi
col respiro dei tuoi giorni una volta adolescente
divenire indecente confinato all’infinito del tuo prato
né rimpiangere quanti anni ci dividono in coscienza
o nel corpo tuo rimorso tuo tutto presente
l’antica che inabissa e che riemerge
ventura prigionia in cui mi tenevo
una volta amore vero

VI

Misera insostanza del dolore rasternato
se al raptus ex o propter uno è sospinto
oppure se all’equivoco che crescere comprendere
il dolore del mondo significhi risolvere la colpa all’incoscienza
assolversi che il male con gli anni appena segna
ed è già via già l’oltre-galleria
quando al vero ritorno di questo viaggio
fra cose secondarie e necessarie
non dipinto né racconto solo viva continua
recitata malattia di un tempo di vergogna e di follia
quando il corpo profanato giovanile…
ma eccoci in stazione – mi distolgono le hostess
in completo verdeblu sempre pronte al bel sorriso –
sì grazie un caffè riprendo un giornale
che non leggerò

VII

Così così lontano dalla casa impossibile
nel corpo di passione irremissibile bellezza
ben oltre il confine di materia e di giudizio dirti
semplice banale mia stessa giovinezza
vorrei che le ferite più dei versi dicessero
che per te me ne andrò quando tu te ne andrai
invaso il cuore dai tuoi fantasmi
lasciate le dimore che avremmo abitato
e questo diario che tu scrivi non per me
e che io insanguino per te

















IL VIAGGIO IN NORMANDIA

Per noi che partivamo
lungamente sospinti a una prossima estate
dalla neve sulle giacche dal vento dal sale
per come era pesante la schiena
e incurvata dal passo in solitario
già il nome Normandia invitava al sorriso
stringeva di speranza la mano al finestrino

Appresi alla cornetta il tragitto del viaggio
dal Nord alla Baia affondando per vigne
come dire negli anni un ritorno di affanni
un ripetere a memoria una storia d’appendice
che in qualche scaffale
e insieme annotare quanta infanzia era invissuta
quanto è inutile sorprendere ogni angolo
che s’abbia di case di pietre
tra fumi di stalle e vapori di falesie
se insieme ci si allena e ci si tempra al disamore

Ma era questo il sottinteso
completare il sussidiario con te che non parli
e che pure non ignori il vuoto spalancarsi
l’angoscia di fissare infantile in qualche foto
tutto il mondo inafferrato
che pure e ancora amiamo

Due possono viaggiare se possono incrociare
chi il cammino fa in ritorno,
i visi patriarcali silenziosi ma felici
magari aspettando che l’umido si levi
del dopo temporale

Guardavo al mattino l’orizzonte di Etrétat
strette cale d’inverno dove il freddo si scioglie
sui ricami all’uncinetto dei vetri d’albergo
sul profondo tuo dormire – pensavo
sia felice almeno questo –
e finalmente ero sereno
finalmente ero un gabbiano svernato
in quell’oceano

La donna della vita rincorsa
per le strade tra Caen e Rouen capelli biondi o neri
– è chiaro ha già sorriso è proprio qua vicino
e noi che la guardiamo ebetiti immaginando
soltanto per scherzare non certo per guastare
quel viaggio in Normandia di amaro e nostalgia
che in fondo ci piaceva
e che tutte le sere a tarda sera terminava
tra sbuffi di Gauloises e stecche di biliardo
su cosa s’è sbagliato e poi chissenefrega

E il viaggio il miraggio tutt’era inconfessato
pareva uno spettacolo spianato
giallograno verdefoglia rossoterra
e infine quel mare dove un giorno arrivammo
l’insegna del Martini la piazza la spiaggia
e lei che m’attendeva
guardando l’immenso l’azzurro
del mare di Denneville

Mesi e mesi di amore scavato nella carne
ero forse un passante nel tuo giro di morte
fingevo ma ti amavo davvero ti amavo
quando all’angolo del bar tremando mi dicevi
je sais qu’on s’est passé quelque chose
qu’ici s’est partagé…
quando a un mare lontano
e forse non a caso ti ritrovavo
sulla mia strada

Capace amico di incoscienza
sii testimone di questa ricerca
sassi raccolti su scogliere di granito
fari notturni alghe di scarpe
reti da pesca e ostriche e vetrate di bar abbandonati
maree e ritirate di spiagge e di falesie
sii testimone di quanto ho annaspato
del lavoro operoso senza salario
cazzate e risate e imbuti improvvisi
di scale e di silenzi

Tu eri là
incarnata libertà che avevo sognato
e che il mare levigava
senza il coraggio di avvicinarti
ma nel cuore la certezza che giammai
avrei scordato qual mare di Denneville
dove l’ultima volta ti avevo amata
e lasciata nel tuo male
al mio ritorno

L’uomo che ha deciso di condannarsi
così riparte
con quel poco di dolore lasciato
a un’altra volta e quel poco di gioia
– vedrai le scriverò
né spezzerò questa corda di vene che ci unisce
e poi potrò tornarci se una volta è già stata

Così la Bretagna e la Bassa Normandia
invitavano al calore del ricordo
fissavano un estremo al ritorno da grandi
con mogli sicurezze e l’incerto retrogusto
di un vino mal scelto

Ciò che andava cercato era tutto
raccolto in un angolo di casa dal tetto spiovente
di travi e di abbaini
sotto un manto di coperte
nel sonno che sorprende
mentre si ride si parla e un po’ si straparla
di donne e di avventure

E noi eravamo noi proprio i pellegrini
senza fiato a piedi nudi nelle sabbie di Genêts
traversanti la Baia che invece a un monte
sospeso guardavamo come all’ultimo traguardo
al vero da capire
un poco ingannandoci
tenendoci per mano

















LA NOTTE CHE ETEREA EFFONDE

La notte che eterea effonde
creando e disfacendo il calice del mondo
l’infanzia che incombe ricorre nell’ombra
eppure non s’arrende davanti al tuo portone
il giudice che addita
la croce e la delizia del paradigma
non dolo non volo eppure bisogna

Bisogna glielo dica – solo questo aspettavo
mentre lasciavo la soglia della casa
l’interdizione antica stampata nella carne
che il figlio non possa più in alto del padre –
e lei che così morbida vestita nel bianco
assolato dei vent’anni che ormai da più giorni
all’uscita di scuola aspettava l’estate
del primo bacio dei pugni chiusi – pensavo
Signore quale distanza commette l’amore
me così in guerra lei così serena

Mio amore mio nel sogno
ho troppe e troppe cose da dirti insospese
sul filo dei secoli che ho dovuto annodare
viaggiare più veloce delle cose che sfuggono
di te che scendevi nell’ileo del sogno
di me che sul bivio ogni volta esitavo
chi sono o chi ero ma se uno all’inizio
sei felice – avesse chiesto – ch’ero troppo e leggero
e che un giorno avrei pagato

La tua follia dischiusa al sorriso
improvviso che uno al primo amore
dimostra incosciente paradiso di colori rosso giallo
e l’umido tra i petali che s’aprono sbocciata svelata
in quel lenzuolo sulla spiaggia che morbido avvolgeva
tutto il bello del mondo
e più non c’è altro bisogno né credo
sei tutto il cielo – avevi detto
le braccia levando mentre ti stringevo
mangiandoti a sbafo sentendoti gridare
affermare al tuo culmine

La tua follia di quando correvamo
vogliosi ed impazienti le scese del tuo parco
e sotto la cerniera fremente del tuo Levi’s
dicevi – non c’è niente baciamoci per strada
nel cinema all’aperto in un angolo alla metro
bagnati di pioggia d’estate ed avventati
dimènticati il padre qualunque cosa sia
è nostra la vita

la nostra follia sfilata sui sedili
la gonna e la camicia l’esposta frenesia
tu nuda e sfinita bellissima e nudata
di che l’amore sporca
di scrupolo e vergogna
ch’è adesso che ti amo e sei tu la mia gioia
presente mia storia che in te si rinnova
per cento e mille notti
ch’è adesso che ti amo
mia terra e paradiso soffiato tra i capelli
tra i seni e le ginocchia
che sfioro discopro risalgo in cui mi perdo
e tutto era insieme tua gioia mia gioia saziate
ugualmente ché ancora ti amo davvero ed ignaro
se per il tuo nome di interno berlinese
o per la mia attesa che ti aveva creata
segreto immarcescibile di colpa e di pulsione
vita aggressione

La tua follia scappare via
che importa a Milano che sia il teatro
sia la poesia sianche il diavolo
ma lasciami un figlio che almeno ricordi
che porti i tuoi occhi

Mio amore disperato e tua follia
non ero più niente eppure esistevo
per tante e tante lettere per ore al tuo telefono
– anche l’amore vi avrei fatto –
anche l’orrore l’amputazione di camere ostetriche
l’incesto la dilazione del padre della madre
qualunque copione che tu mi cucivi perché ti divertissi
perché corrispondessi a come mi volevi
– l’avessi potuto mi sarei annullata
anche per te avrei pianto
quando mi tradivi iniettandomi veleno
quando pure ogni tuo bacio per me era il primo
il giorno dopo al mattino dal fondo di memoria
se solo mi chiamavi e mi prendevi
ma lasciami un figlio che viva per sempre
e che ci sia

La tua follia normale incontenuta
che il tempo annullava che il corpo e la vergogna
che infanzia infondeva per sempre ed ancora
era quello che cercavo io ero tu eri
mito incarnato riscattata morte

Franzi mio amore
non posso arrestarmi di chiamarti di sognarti
non posso che amarti in ogni terra sconsacrata
cui il vento mi spinge di insania di nevrosi
in cui ti cerco stesso corpo stesso nome
metro di misura di altro amore
pietra miliare sulla strada che ho corso
creando e disfacendo ciò che è stato interrotto
dalla tua morte e più non so vivere
il mondo è svuotato la pagina bianca
penosa ricerca il lavoro ben fatto
inutile un’altra
impossibile amore

Se uno muore è già morto
se uno ama è già amato
ma i miei giorni passano nel dubbio
che forse avrei dovuto rincorrerti all’altare
rincorrerti a scuola rincorrerti ancora
e non questa corsa finita nel mezzo degli anni
del corpo mezzo dentro mezzo fuori
nato morto morso rimorso
gioco dovere l’asfissia l’aria
tu ed ogni altra

Se ci penso quale condanna
farti fuori per amare
dover scrivere per vivere

















Ho aspettato immobile

Ho aspettato immobile
che il telefono squillasse.

Vetri
muti frangenti
e il freddo silenzioso

















La prima volta su questo mare

La prima volta su questo mare
avevo vent’anni

e già ti disperavo

















Si corse lungamente

Si corse lungamente
sul verde
a piedi nudi

Prese un fiore dischiuso
un profumo

lo schiacciò

L’amore gli apparve
violento e leggero

















Bisogna conoscere la morte

Bisogna conoscere la morte
e ponti e notti traversato
con il piombo nella gola
del tuo nome da ingoiare

Bisogna conoscere la morte
blu cobalto alle rotaie
del turnista che al paese e che il culo
di quell’altra nella vigna e questo male

Bisogna conoscere la morte
per le camere d’albergo né bagno e senza nome
e il padre fuggire fuggire l’onore
aver scritto parole sottratte al bel sonno
giorno dopo giorno per testimoniare che

Bisogna conoscere la morte
per sapere che l’amore è tutto ciò che resta
dopo ogni maceria e che un bacio qualunque
vale più di un incanto è una scala nel cielo
che scioglie l’autunno
svapora inatteso

Bisogna conoscere la morte
contro il vuoto degli anni
nella casa destinati tra i figli concepiti
per starsene tranquilli

Bisogna conoscere la morte
nell’attesa dei tuoi occhi
perché quando mi riemergi dicendomi
dal buio che ancora mi ami
e che ancora di nuovo per sempre mi chiamerai

Bisogna conoscere la morte
per sapere che l’amore è solo ciò che vale.

















Piccola imperfetta

Piccola imperfetta
notte distante
irrisolta dilatata
scherzo terrore
moglie né forse
ogni volta l’altrove
fiore inviolato raggiunto
perduto sfuggita leggera
voltata di schiena
la fretta dei mattini
i figli gli asili
stanca franca
afasica vulcanica
fresca sorpresa
imprevisto e sorriso

forse domani
mi ami ti perderai

















Che tu mi abbracciassi

Che tu mi abbracciassi
correndomi incontro
col vento e la follia

e che mi dicessi
che è solo il mio freddo
perdendomi nel corpo

o che almeno non posso
tremando nella voce

















Per fame o per istinto

Per fame o per istinto
l’amore va consumato
ghermito nel balzo alla gola
e dimenticato

e non quest’agonia
del volo sorpreso e non finito
questo supplizio
di stare a guardare

















Insomma siamo amanti io e te

Insomma siamo amanti io e te
il che vuol dire stirare celebrare mentire
qualche volta
o anche tranottare da solo con sogni
ed amarezza
per quella differenza che scorre appena
tra il verbo e il sostantivo
tra vivi ed esser vivi

















Vicino sei come la crisalide

Vicino sei come la crisalide
incerta nella muta invernale
che all’albero rappresa si rinnova
da quel penoso vivere invernale

E basta non ti sgretoli il Favonio
scagliandosi sull’ala tua dorata
che a tutti porti libera magolia
un po’ di tua allegria e vanità

















È troppo ciò che chiedi

È troppo ciò che chiedi
trent’anni di sogni che scorrono
nel sangue di pene e di promesse
a tuo nome da assegnare
senz’altro contrattare la sera
che un mezzo finto orgasmo
per me e forse manco

















Torna da me per un momento

Torna da me per un momento
ti prego fa’ finta – chessò
per sacrificio per rimorso
– dammi un bacio una promessa
una volta per lo meno
fai finta d’esser me

















Vecchia darsena lunare

Vecchia darsena lunare

Mute sagome di barche
brevemente si salutano

si perdono nel mare

















Le undici

Le undici
Sono rientrato
Le solite riviste sul tavolo
noiose
la mosca sul vetro
finalmente tacitata
e il fiore tuo sfiorito
a cui mi rassomiglio
tentando di resistere

















Ho chiuso gli occhi per un istante

Ho chiuso gli occhi per un istante

Dieci anni passati
e non un fiore spensierato

















Dici che dovremmo chiarirci

Dici che dovremmo chiarirci
parola per parola, punto per punto,
è stupido buttare dieci anni così,
senza spiegarsi. D’altronde la voce
scioglierà questa tensione,
ci farà più accorti, più pacati finalmente.

Fuori nevica.
Guarda, di là della finestra
è un silenzio di rovine.

















Non ricordo come finì in quell’occasione.

Non ricordo come finì in quell’occasione.
Doveva essere settembre, ore diciotto,
fine turno. Si avvicinò alla vetrina illuminata
dal neon, perché fosse più chiara la lama
dei suoi denti: credo che non… ti amo ma…
non è come credi…
Fu un brivido appena.
Mi guardai nella pozza dell’asfalto.
Mi era forse sfuggito l’inizio del discorso
o i sospensivi. Hai il rossetto sbavato
– soggiunsi.

















Il vero diamante è quello nero della notte

Il vero diamante è quello nero della notte,
quando il resto scompare e ci restano le cose,
le statue ormai vuote di noi che non parliamo,
tutto fissato, immobile, dita, labbra, lenzuola,
forse anche una farfalla, rimasta sulla bocca
come una domanda.

















A volte passeggiamo, io e te

A volte passeggiamo, io e te,
per qualche strada, di qualche città.
Non vedo niente io,
troppo angosciato dal tuo viso, troppo legato.
Non vedi niente tu, troppo lontana, leggera:
ti volti, sorridi, cambi passo.
Fermati amore, considera il baratro,
guarda le mie mani, ferite per tenerti.
Sii dolce. Il vento precipita gli aerei.
Abbi cura di te.

















Amare è inoltrarsi, uscire in mare aperto

Amare è inoltrarsi, uscire in mare aperto
senza bussola, senza cognizioni,
attendere a un approdo di là della speranza
a un incontro, di là della ragione.
Il resto è sofferenza. Tutt’al più.

















Nel corpo tuo rimorso, poesie 1986-2002.
Crocetti Editore, Milano 2002

Attendersi di là, poesie 2017

Uscendo di casa
sentii un profumo fortissimo
fruttato, trascinante.
Gelsomino forse,
un corpo nudo,
il fresco del bucato appena fatto.
Chiusi gli occhi,
feci cadere la risma dei fogli
che avevo tra le mani.
Ero lontano ormai,
leggero, distaccato.
Potevo tornare a sognare,
tornare all’amore, ai vent’anni.
A domani.









Dopo l’inverno, l’estate.
Dopo il disamore, l’amore.
È il ciclo delle stagioni
che si rinnova.

Sotto la gronda,
già vedo due rondini
rincorrersi nel vento,
ricamare che è vero
che la vita ritorna.











Mia figlia mi tocca, di notte,
col suo morbido braccio.
Si stende nel letto, si rotola, si allarga,
come se io non ci fossi.
Oppure, come se ci si potesse scambiare
di corpo, di spazio, di sogno.
Attendendo che Orfeo







Eccomi qui, di nuovo,
nella casa dell’infanzia
la sola che ho amato, mi ricordi.
Forse.
Ma qui le cose sono leggere.
Un ragno s’arrampica sopra la tenda,
sapendo di non essere temuto;
la polvere si posa sui mobili
senza destare occupazione.
Qui le cose capitano all’aria,
lente, appena riscaldate dal sole;
qui il tempo può fare il suo corso,
andarsene e tornare,
sbiadire ed ammalare, senza scalpore.
Tu dici solitudine.
Io parlo di altro amore.












Scrivo il tuo nome con una margherita
e il cuore torna ad essere incantato, felice,
scaldato dall’estate dei tuoi occhi.

Scrivo il tuo nome con una farfalla
e il cuore torna ad essere leggero, bambino,
nel cielo variopinto dei capelli.










Qualunque sarà la casa in cui finirò
mi porterò appresso la tua fiducia, il tuo amore,
e sarò al sicuro.

Qualunque sarà la strada che prenderai
ti porterai appresso il mio sguardo, il mio amore,
e non sarai più sola.












L’estate con te è quando nel mare
cadeva una stella,
e tu per magia correvi a riprenderla.

L’estate con te è quando anche il cuore
cadeva sulla spiaggia,
e non si rompeva.









Così piccola e bionda,
così agile e buona,
che sembri una vespa
discesa dal cielo
per pungere e sorridere.

– Come posso afferrarti –
dice il mare?
– Come posso ringraziarti –
dice il cuore?













Con la bacchetta magica
mi scrivi nel cielo
che cosa devo fare
per essere felice.

Con la bacchetta
mi segui anche di sera
per insegnarmi a ridere.









D’improvviso, ti vedo leggera,
felice, bambina. Una vespa.
Il cielo s’è schiarito.
L’infanzia è ritornata,
l’estate, la forza, la calma.
Dovessi ancora perderti,
almeno so che esisti.














La piccola vespa ha imparato a nuotare.
Salta, si tuffa, riemerge.
La mamma e l’amichetta la incitano a buttarsi,
a proseguire.
Adesso sa anche lei che sul buio
si può pure galleggiare.










Non spaventarti – mi dico –
ti sto solo precedendo.
Farai la stessa strada,
quella della caduta, della speranza,
troverai le bricioline che ti ho lasciato,
per dirti del senso,
e se per caso ti sentissi angosciata
sappi che è l’amore, solo questo.









La piccola si dondola sull’altalena.
Ride, promette, si burla della mamma.
Non vuole più smettere.
Si allena a prolungare l’infanzia.








Finita quest’estate, dovremo cambiare.
Troppo lungo è l’inverno,
troppo lunga la distanza
tra un viaggio e l’altro,
tra un mare e l’altro,
tra me e te.
Lasciamo perdere le navi d’altura.
Forse le barche potranno bastare,
per essere felici.










Ti ho lasciata ancora una volta.
Sola, disorientata.
Mi sono detto che così va meglio.
Stai in buone mani,
mia madre e la sua casa
non sono degli estranei,
la città è umana.
E poi, che altro dire,
laggiù in campagna
non c’è riscaldamento,
non puoi più restarci.
Questo è quanto.
Per il resto, io so e tu sai
che ci salutiamo, per sempre,
che a casa non ci torni,
che ti lascio a morire
dove e come n’era scritto che morissi,
e che a volte gli amanti
si lasciano la mano
per trovarsi più avanti.







Il fiume scorre ancora a fondovalle.
Niente di aulico.
Un fiumiciattolo, neve sciolta e fango,
che ancora fluisce sul ciglio della strada
perdendosi sotterra, nel campo del vicino.
Allora, nessuna poesia.
La vera notizia sta nel fatto
che anche noi ci siamo ancora,
qui, alla finestra,
dopo l’ultima tempesta.










Da un po’ di giorni faccio tutto da steso.
Prendo appunti, guardo la tele,
ascolto mia figlia al violoncello.
Mi alleno a guardare un soffitto insomma,
in vista dell’incontro misurato
con lo spazio angusto,
il parlar muto, il fiato lento.











Adesso ti tocco,
piccola tartaruga dagli occhi tristi.
Seguo le rughe sul tuo viso di cuoio.
Son cieco io. Ho bisogno del tuo alfabeto
per sapere quanto coprirmi nella tormenta,
quanto vento respirare,
come stringere una mano per sfuggire alla notte.
C’è piacere a medicare anche una piaga,
accompagnarti fino al fondo della strada.
Sei tu che m’insegni che questo è l’amore.








C’è una strana atmosfera oggi.
Fuori, la neve cade silenziosa e cospicua.
Sembra assicurare una calma normalità
perché ci si possa ritrarre nei vetri
con aria serena.
Dentro, la piccola e sua nonna
si stanno addormentando.
Tutto sembra avverarsi – mi dico -,
due stelle che s’incontrano
svolgendo il loro ciclo,
due capi d’uno spago che riannodo, stupito.
Posso tenere la morte e la vita con la stessa mano.












Grazie per aver aspettato a morire,
per avere tardato.
Il tuo amore mi ha aiutato a diventare grande,
a accettare di perderti senza perdere tutto,
senza perdermi.
Grazie a te son diventato più chiaro,
e forse più saggio.
Guardo la stanza, adesso,
ti vedo in ogni angolo, ma viva, davvero.
Non ti scorderò.
Nessun lutto. Nessun giro di carte.
Mi hai concesso la fortuna di essere l’ultimo
a doversene andare.
Il tuo richiamo si spande per casa,
e l’ultimo sguardo è ancora per te.









Dopo, non si può più dire nulla.
Il tempo è occupato dalla caduta verticale
nei ricordi, nell’immagine che ti assedia,
dalla discesa nella profondità.
Sei tu che stai distesa, a mani giunte
come riflessa nella luce nera del dolore,
serena, ininterrotta, conciliata finalmente.
Ogni tanto mi sento how deep is your love,
e mi dico com’era.












Finisce così, questo libro.

Quello che avevo da dire
non l’ho detto.
Sono stato scostante,
bugiardo, incerto.
Ho fatto sognare?
Ho amato davvero?
La vergine adolescente
cos’ha visto alla finestra,
un estraneo? Un padre?
Forse ho raccolto soltanto
parole d’autunno
cadute da un albero.

Finisce così, questa estate.

Attendersi di là, poesie 2017. La Bussola, Roma 2022