Leggendo “Il guardiano del faro” e “L’ultimo e il primo di Lidice”.
“Crepuscolo, una stanza pressocchè spoglia, l’apertura della scala a chiocciola, che conduce alla lanterna. Si tratta di uno di quei vecchi fari con una lampada a petrolio. Il guardiano del faro è un uomo robusto, impacciato e incerto, incline a confidarsi. Vive da solo, completamente solo, non ha moglie, figli, amici, nessuno. A un certo punto, nel suo tempo rallentato – non fermo, non circolare – compare un vecchio conoscente, venuto a fargli visita. Il guardiano comincia a parlare, a parlargli”.
Inizia così, con questa evocazione di un luogo, di un tempo e di un soggetto appena abbozzati, Il guardiano del faro, una delle opere poetiche meno conosciute di Ghiannis Ritsos, così come poco conosciuto è l’altro poema – da cui prenderò spunto in questo breve saggio sulla poetica dell’oggetto in Ritsos -, ovvero L’ultimo e il primo di Lidice.
Si tratta di due gemme preziosissime. L’una, Il guardiano del faro, per spessore poetico e psicoanalitico; l’altra, L’ultimo e il primo di Lidice, per la testimonianza storica e l’attualità che costituisce: una luce portata sui massacri compiuti dai nazisti nella seconda guerra mondiale – contro la piccola città ceca di Lidice, bruciata e rasa al suolo nel 1944, con tutti i suoi uomini, donne e bambini -, analoghi a quelli compiuti dai Russi in Ucraina, oggi, contro la città di Mariupol.
Cominciamo dal primo dei poemetti.
Il Guardiano del faro è un soggetto mitologico – tanto è esemplare nella sua marmorea grecità – ma insieme è un uomo in carne e ossa, vicino a ciascuno di noi per le sue paure e il suo bisogno di contatto; è una figura della psicopatologia, per la sua oscillazione acquorea, per il suo andirivieni dentro e fuori le relazioni umane; ma anche una figura del poetico, per la sua refrattarietà a spiegare o descrivere, per la sua inclinazione a disporre i propri gli oggetti interni così, misteriosamente deformati, sul tavolo dei versi.
È un uomo sensibile, fragile, perduto nella sua solitudine. Sei tu, sono io, è lo stesso Ritsos.
Il faro e il mare, composti, contrapposti, disposti uno di fronte all’altro, uno di sopra all’altro.
Al principio, il faro, con la sua luce che illumina il mare oscuro, evoca la tensione alla consapevolezza, alla presunzione di penetrare il buio proprio e altrui, quasi volendo fissare l’ineffabile del mondo interiore e, così, restituire a unità la frammentazione di sé generata dalle perdite. La luce dell’intelletto, la dimensione protettiva dell’intelligenza, della razionalità, è:
“…una comoda, solida cavità
sferica, scavata nell’inutile frastuono […]
una nuova arca, in cui hai radunato
ricordi, azioni e sogni, per salvarli,
e salvare te stesso assieme a loro”. (Il guardiano del faro).
Il faro e la sua difensiva capacità riflessiva sembrano rassicuranti, perfino necessari:
“Di notte ha sempre inizio la nostra sovranità. Nel buio,
con il silenzio o col frastuono del mare sotto i piedi, ci sentiamo murati dentro il faro, immedesimati con esso…”. (ibid.).
La sua fiamma siamo noi; la nostra attenzione, la nostra dedizione è al servizio degli altri, della salvezza degli altri:
“…Esistono anche qui
un mucchio di impegni, doveri e responsabilità, come si dice. Dobbiamo trasportare il petrolio, pulire la lampada,
pulire la lanterna di vetro del faro, avvolgere
il cavo d’acciaio come se caricassimo un enorme orologio […]
…E bisogna vegliare
perché non si fermi un attimo la rotazione”. (ibid.)
Ma poi, col procedere della poesia e della catabasi in se stessi, comincia a vacillare la certezza della propria funzione, della propria utilità, e allora bisogna mettersi nei panni dell’altro, al posto dei naviganti o dei naufraghi, per rassicurarsi sul proprio ruolo salvifico:
“Molte volte io stesso, per convincermi di esistere, mi trasferisco
dal mio posto immobile al posto assai mutevole
della nave, del viaggiatore, del naufrago,
per guardare alla mia importanza dalla parte opposta, nella notte, quando in un ultimo lampo crollano le nostre scenografie di cartone, e resta la scena vuota con gli elettricisti morti,
sotto le scale in frantumi e le corde spezzate,
quando le navi affondano, e gli uomini guardano adirati
il mare nudo, tentando di aggrapparsi a qualche asse di legno,
perché ovviamente non possono aggrapparsi ai raggi del faro”. (Ibid.)
Presto, il guardiano si accorge che l’immedesimazione al faro che fronteggia il mare e la notte, rischiarandone l’oscurità, è appena un’illusione per credere di esistere, di consistere, di essere desiderati. Allora: “La luce del faro [diventa] una stanchezza inafferrabile, lontana, superflua”; il faro diventa un inutile utensile che “Al massimo illumina il naufragio, mostrando più tremende le fauci delle onde”. La sua funzione riflessiva, la sua altezzosa austerità, al cospetto della “mutevolezza” nostra e del mare, diventa una prigione, la rappresentazione di quell’autosufficienza, di quell’isolamento che tradiscono il bisogno infantile di essere cercati, di quella fermezza o rigidità che è paura delle relazioni, e della tempesta emotiva che esse comportano:
“A volte ci inganniamo da soli; ogni rinuncia
è un nuovo rifugio segreto; e la nostra solitudine volontaria
è un’attesa evidente, una scommessa in cui ti giochi
tutta la vita senza testimoni, e tu sarai l’unico a pagare
col tuo netto rifiuto o con l’umiliazione
di tornare alle cose abbandonate (per provarle forse),
e quelle non hanno chiesto di te, non ti aspettavano né ti ricordavano, non hanno neppure avvertito la tua assenza; così
la prova è rimasta tutta tua, soltanto tua”. (ibid.)
Allora ti sovviene il dubbio o la consapevolezza che essere rimasti fermi alla finestra, a guardare la vita dalla tua poltrona marmorea e pesantissima, sia stata una sconfitta, la sconfitta del calcolo o della misura di fronte al buio pulsare del mare; la sconfitta di Apollo di fronte a Dioniso; del faro di fronte al mare. Di qui l’illuminazione, che talvolta si ottiene spegnendo la luce e restandosene al buio:
“Meglio al posto del naufrago che a quello del guardiano del faro
che, al riparo del pericolo, sorveglia il presunto maestoso spettacolo del temporale, a volte affascinato, a volte addirittura altezzoso
per averlo visto e illuminato. Meglio
al posto di quello che lotta con il corpo dell’acqua”. (ibid.)
Dirai che resta il mare – il buio attrattivo e periglioso dell’amore, dell’altro -; che il mare rimane comunque, al di là della rotazione intermittente della lampada del faro; che permane l’oscurità, dalla quale tutto principia e in cui tutto finisce. Ma questo mare è indefinibile; è “l’altro” dell’inconscio novecentesco che comunque si sottrae alla nostra volontà, al nostro bisogno; è l’amico, la moglie, il padre, il figlio, la cui mancanza genera “fantasticherie” – come le chiama D. Winnicott -, ovvero il racconto favoloso nel quale ti accorgi della tua importanza, e invochi l’altro:
“Altre volte ancora, quando accendevo la lampada,
me ne stavo sul balcone e aspettavo una nave,
non perché vedesse e proseguisse la rotta, una nave
diretta qui; che ormeggiasse qui; e non per evitare
qualche grave pericolo; ma sicuramente diretta qui […]
Immaginavo i passeggeri con le valigie che saltavano su questi scogli; i loro discorsi rivolti direttamente a me, simili a me […]
Aspettavo dunque di distinguere nel fragore del mare
una voce umana, un cenno, qualcosa,
un riconoscimento minimo della nostra solitudine e resistenza”. (ibid.)
E tuttavia, per quanto rassicurante, la propria pienezza genera la mancanza, la ricerca della razionalità genera il mostro dell’emarginazione, dell’insofferenza, del delirio o della vertigine:
“Quando sali la scala a chiocciola interna […]
ti coglie come una vertigine,
hai l’impressione che la scala non finisca, come se salissi
al buio più completo dentro i tuoi stessi visceri, come se ti avvolgessi intorno a te stesso, dentro te stesso,
come se ti attorcessi da solo nell’ignoto
e a poco a poco sfuggissi alla forza di gravità; – una vertigine […] Allora non devi guardare né sopra né sotto,
soltanto dritto davanti a te, all’altezza degli occhi,
e allora gli occhi sono come due ampie ali aperte che ti reggono
in equilibrio immobile, profondo e vacillante, tra la terra e il cielo”. (ibid.)
Un equilibrio raggiunto attraverso l’introspezione, dunque, la discesa nelle proprie viscere; il punto mediano ma vacillante sulla verticale tra terra e cielo, ovvero tra l’abisso onirico della perdita definitiva – del sogno, della poesia – e la sofferta verminosa densità della terra, tra le cui radici tentacolari nasciamo e ritorniamo.
La solitudine genera sempre l’allucinazione. L’allucinazione del desiderio, come la chiama S. Freud, quel bisogno incoercibile di contattare nuovamente il corpo morbido e madido da cui sei nato; ma anche l’allucinazione intesa come onirizzazione della realtà, come passaggio d’infante dalla concretezza vuota e solitaria della realtà all’illusione della presenza dell’oggetto, dell’altro, della cura. Un andirivieni continuo, la risacca del mare contro gli scogli, l’intermittenza esitante dell’uomo intorno a se stesso. Per i greci, il termine “catastrofe” ha il senso, per noi più comune, di disastro, ma anche quello di ritorno all’immobilità di una corda musicale, dopo che essa ha oscillato e vibrato. Pertanto, l’immobilità è catastrofica, è il contrario del movimento. Meglio l’oscillazione, foss’anche violenta, tra diversi vissuti e diverse rappresentazioni di sé; foss’anche intollerabile, angosciosa, defatigante. Un’oscillazione viva e vitale, qui interessante nella misura in cui è anche poetica, ovvero intranea alla versificazione, costitutiva della struttura e della sequenza dei vari “pezzi” di ogni singolo poema di Ritsos.
C’è sempre una successione nei poemi di Ritsos tra la dimensione poetica – buia, misteriosa, fatta di oggetti incomprensibili, deformati, fluttuanti – e la dimensione noetica, fatta di illuminazioni improvvise, che si inscrivono per sempre sul frontone dell’Umanità, proprio per la loro stupefacente complessità.
Ma l’oscillazione, quando è continua, produce deragliamenti, esondazioni da sé, dislocamenti dereistici. Si è parlato spesso di “allucinazione storica”, per definire l’operazione che Ritsos compie – soprattutto nei poemi di Quarta Dimensione, ma non solo – quando restituisce la parola a personaggi mitologici, ripresentificandoli, trasformando un’assenza in presenza, percorrendo a ritroso il sentiero che porta dalla cosa al suo fantasma, dall’oggetto all’allucinazione.
L’allucinazione è la conseguenza, e forse anche il corollario, della pulsione di morte, ovvero della spinta a slegare l’oggetto, a se-pararlo. Pulsione che conduce alla morte fisica o alla follia. In Ritsos l’allucinazione è certamente una figura preponderante e richiamata. Ma se allucinazione vogliamo chiamarla, allora questa dev’essere complessizzata. Qui, infatti, l’allucinazione è il viatico per una nuova, più profonda e poetica ricostruzione di sé. Ritsos non si limita a rilevare come la perdita generi la destrutturazione del pensiero: egli indugia anche – o finalmente – a far comprendere come la scomposizione, la fluidificazione di pensieri e vissuti pietrificati, possa portare a un nuovo inizio, a una nuova e meno difensiva ricomposizione di sé; a un soggetto non reificato ma vivificato, proprio perché correlato all’altro. Certo, la strada per questa costruzione è la perdita. Soltanto colui che ha perso o s’è perso può nascere di nuovo, in modo nuovo. Ma ove questa perdita sia avvenuta, ecco la consolazione dell’unione ritrovata, la soluzione:
“Forse noi due, che abbiamo appreso come non esista alcuna
consolazione a questo mondo, forse, proprio per questo, noi due (anche se ciascuno per conto suo) riusciremo di nuovo a consolare, e forse a essere consolati”. (Il ritorno di Ifigenia).
Dove il lavoro dell’allucinazione si sia potuto svolgere in presenza dell’altro, dove cioè il lavoro dell’allucinazione sia stato una trasformazione che porta l’uomo a raggiungere la propria verità, esso può costituire un nuovo soggetto, legato, proteso all’altro; un soggetto generato dal dono di se stessi:
“Perché allucinazione dunque? Un altro faro più lontano si occuperà tra poco delle navi. La lampada esiste,
noi esistiamo. E siamo noi
che costruiamo la lampada; noi che l’accendiamo
nel cuore della notte. E possiamo dire di essere noi
la fiamma della lampada […] Comunque le navi si orientano con la nostra stella […] Non ci basta sapere che sono arrivate o arriveranno? […]
Esiste sempre dunque il modo di donare qualcosa
E forse di restare anche noi con quello che doniamo. Ogni mattina
Ci sarà un colore adatto al nostro sguardo […]
Ora posso tacere di nuovo e accendere la nostra lampada”. (Il guardiano del faro).
Nella poetica di Ritsos, il monologo non è mai un vaneggiare sul vuoto di se stessi, non è mai il soliloquio del folle di fronte alla luna. C’è sempre un altro, richiamato sin dall’introduzione prosaica in quasi tutti i poemi; c’è sempre un interlocutore muto che permette al personaggio di esprimersi, di raccontare o di associare liberamente. Non è questa, forse, la condizione della nascita e della crescita? Non è questa cornice duale il setting di ogni processo evolutivo? L’altro, la presenza silenziosa dell’altro, è proprio colui grazie al quale il delirio o l’allucinazione vengono compresi, arricchiti, trasformati: vedi per esempio la chiusa di La casa morta:
“Non avevo capito niente. Un senso di terrore magico
si era impadronito di me, come se d’un tratto mi fossi trovato di fronte
tutto il fascino e la decadenza di un’antichissima civiltà.
Ormai era notte […] Alle mie spalle avvertivo la massa oscura di quella casa, come una tomba antica, maestosa.
E, se non altro, avevo imparato almeno quello che devo e dobbiamo evitare”.
In Ritsos non riesci mai a capire se il silenzio dell’interlocutore sia “Sfinimento, saggezza, inconsapevolezza, tolleranza, comprensione, condanna generale, accettazione generale, affetto, affermazione, rifiuto, ostilità, demenza, o un suo sogno particolare” (Sotto l’ombra del monte).
Talvolta l’interlocutore disvela il non dicibile sul personaggio, come nella chiusa prosaica di Elena, nella quale l’assenza di eredi – cui fanno alludere i sigilli apposti alla casa della regina – ci parla della tragica “dépense” della Bellezza. Talaltra, esso coincide con la chiusa stessa, che quindi non è solo didascalia di scena, né soltanto motore dell’azione drammatica, quanto invece ombra dell’oggetto.
Ė così che accade, per esempio, in Ismene, che nella chiusa prosaica dell’opera si rimette nei panni della sorella Antigone, dopo essersene distanziata per tutta l’opera, e in questi panni non vivibili, non suoi, in questa alterazione impossibile decede.
Dunque, ne Il guardiano del faro, e in generale nella poetica di Ritsos, l’allucinazione produce una costruzione di sé proprio perché incardinata in un lavoro terapeutico a due; essa permette di sciogliere i propri nodi inconsci e dare senso all’inaudito.
Eppure, non tutti i poemi di Ritsos passano per il lavoro dell’allucinazione e conducono a una nuova relazione, alla costruzione.
Ne Il guardiano del faro e ne L’ultimo e il primo di Lidice – come anche nella maggior parte dei poemi di Quarta Dimensione – è ancora visibile un soggetto, un Io narrante che parla della propria storia attraverso di sé, attraverso i ricordi, i vissuti, le proprie pulsioni.
In questi poemi, l’occhio della narrazione poetica ci fa ancora vedere un soggetto, una persona (non un personaggio) seduta davanti a una sorta di finestra, che parla a un interlocutore fuori scena. E dove c’è ancora un soggetto che parla in scena, che parla di sé in carne e ossa, c’è ancora uno spazio delimitato, confinato, che rappresenta la sua “pelle psichica”, e c’è ancora un tempo, una temporizzazione degli avvenimenti. Ė questa per esempio la cornice spazio-temporale de Il guardiano del faro.
Al contrario, dove il soggetto è sparito, annichilito dal peso delle proprie sconfitte, delle proprie ferite, della perdita o della mancanza; dove questa dissoluzione del soggetto è avvenuta, o nella misura in cui è avvenuta, compare e prende piede un fenomeno di oggettivazione dei propri fantasmi, dei traumi, delle perdite, un fenomeno di reificazione di sé e dei propri sentimenti, dei propri deliri o allucinazioni. Si sviluppa e si manifesta un fenomeno opposto, che definirei di animazione degli oggetti.
Ė come se quell’uomo davanti alla finestra, quel soggetto che fissa immobile gli oggetti dentro e fuori la propria casa, poco a poco si stancasse di tanta solitudine. Come se quel soggetto, che fino a un certo punto della propria storia riesce a essere presente e ad abitare la scena (la sua stanza), da quel punto in poi non riuscisse più a contenere e “fissare” i propri oggetti, e morisse psichicamente risolvendosi in essi – una pentola, una porta chiusa, una tovaglia di broccato, le ombre che risalgono su un tavolo, una scopa, delle scarpe di cuoio -. A quel punto, gli oggetti rimangono a fluttuare nell’aria, non più contenuti, e anzi alterati, deformati, spesso incomprensibili – gli “oggetti bizzarri” di W. Bion, quelli che pendono dal soffitto nella scena di Atto senza parole di S. Beckett – perché non più compresi nella mente del soggetto.
Nella misura in cui il soggetto scompare, prende piede una sorta di allucinosi: il soggetto si trasforma da protagonista, definito e storicizzato, in oggetto che trasporta nella spazio della relazione narrativa uno sciame di oggetti bizzarri che sono, insieme, la concretizzazione dei propri fantasmi e i frammenti disorganizzati di se stesso. Oggetti sospesi nel tempo e nello spazio, visto che, con la sparizione del soggetto, il personaggio che rimane è “osceno”; ma anche oggetti deformati, alterati o alienati dal lavoro di deformazione psichica conseguente ai traumi subiti e alla solitudine prolungata, all’abbandono.
Via via che sparisce, il soggetto narrante si risolve nei suoi oggetti, e prende piede un fenomeno di reificazione, di oggettivazione di sé. Allora gli oggetti prendono a muoversi, danzano, si vendicano, vengono amati o odiati, custoditi o abbandonati: si animano, insomma.
Il processo di diffusione e oggettivazione di sé va dunque di pari passo col fenomeno dell’animazione degli oggetti. Ė questa l’anima della poetica di Ritsos, il tratto peculiare e unico della sua poesia.
Mai come in Ritsos gli oggetti sono trattati come soggetti, e fatti vivere; mai come nei suoi poemi essi sono stati così a lungo compresi, messi in scena e animati:
“Annoverarli tutti non è dato […] Possiamo campionare. Lo specchio che scompone e ricompone. Il chiodo, ambiguo, perché sostiene, dalla sua microscopica crepa nel muro, ma la ferita dell’intonaco è la prima nota del declino, del tempo che sfarina tutto, della casa che implode, del quadro che sembra tuffarsi nel nulla. Il lenzuolo che vela la poltrona sfondata, il triangolo di un ginocchio amato nel letto dell’eros, ma soprattutto le rigide statue dei giovani morti sui camion, nella guerra civile ellenica che ha avuto Ritsos come attore, pubblico e taccuino critico. Il fazzoletto che orna il grigiore delle vecchie contadine in campagna […] Poesia di cose” (E. Savino, “La poesia delle cose”, Poesia, Crocetti Editore, n. 239, giugno 2009).
Forse questo processo di oggettivazione di sé è necessario, per chi è costretto a rimanere da solo di fronte alla finestra, nella propria stanza, con i propri oggetti domestici. Forse è inevitabile, in una condizione di privazione affettiva, come quella subita dal poeta nell’infanzia, allucinare gli oggetti, farli lievitare col pensiero e riportarli in vita, immedesimarsi con essi e vivere in essi. Fatto sta che nessuno, come Ritsos, ha istituito una vera e propria poetica dell’oggetto:
“Non resta altro, per un bambino privato troppo precocemente della tenerezza materna, che la familiarità degli oggetti […] il ricorso ad essi diverrà uno dei temi più importanti della sua opera. Vi è, nel chiaroscuro di una casa austera, la nascita di una complicità che legherà per sempre un uomo alle cose, queste testimoni del dramma. Lo legherà agli utensili, alle porte, alle finestre, alle tende, ai tavoli, alle statue innominabili di cui saranno pieni i suoi poemi. Poiché le cose sono un’altra maniera di ritrovare l’altro; esse ci rinviano un’immagine dell’uomo più tollerabile, pacifica, un riflesso del suo lavoro, del suo agire, un’eco addolcita delle sue passioni; esse invecchiano, anch’esse, ci accompagnano. Perfino nella loro rassegnazione finale esse ci offrono l’esempio luminoso di una riconciliazione col mondo”. (ibid.)
E L’ultimo e il primo di Lidice è tra i primi esempi poetici, probabilmente, di questo genere.
Com’è noto, il poema rievoca la cittadina ceca di Lidice, annientata dai nazisti nel 1944. Lo sterminio di un’intera popolazione – tutti tranne uno, il soggetto narrante dell’opera, l’ultimo della vecchia Lidice e il primo della nuova ricostruita Lidice – permette al poeta di far parlare gli oggetti, che qui si assumono la responsabilità di testimoniare l’orrore avvenuto.
Lidice comincia proprio con la catastrofe e col dovere di ricordarla, dovere affidato agli utensili di quel borgo di minatori che fu Kladno. In tal modo le cose più umili diventano esse stesse le vittime dello sterminio:
“Vi mostro le cose che si sono salvate per evitare di mostravi quello che non si è salvato […] Era una notte di urla e pietre –
Il sangue colava silenzioso nella gola nera della morte […]
Credo che i campanelli delle case suonassero impazziti
premuti dalle dita dell’incendio; una sedia
si sollevò come un cavallo su due gambe
saltando nel caos dalla finestra; una brocca
si fermò in aria, per un istante si portò le mani alle tempie
e con un grido si fiondò nel nulla…”, (L’ultimo e il primo di Lidice)
E ancora:
“Una grande tovaglia di broccato
si levò dalla Santa Mensa della chiesa,
oscillò sospesa sotto la cupola,
ruppe con un angolo la vetrata della grande finestra e uscì come un grande uccello cavo,
un uccello spiumato, disossato,
splendido nella sua diafana nudità…”. (ibid.)
La distruzione di Lidice costituisce l’antefatto da cui parte il processo di risignificazione e ricostruzione poetica. Il cui processo essenziale è la memoria, il dovere di ricordare:
“Non volevo ricordare. Mi sono tormentato
per uccidere la memoria. Ora mi tormento
per uccidere l’oblio che si stende dolcemente sui giardini, copre la collera, l’odio, il dolore, la paura,
[…] l’oblio copre ancora una volta gli uccisi
non con i tre metri di terra
ma con un pensiero rivolto al domani,
rivolto a un mondo migliore. Non so se l’oblio
sia saggezza o viltà o stanchezza. Voglio ricordare. Voglio accordare il perdono non per via del dolore,
non per via della stanchezza. Voglio ricordare e riflettere, annullare con la riflessione il dolore
non nascondere il dolore con la riflessione”. (ibid.)
Dall’estetica all’etica. Ritsos non è un accademico intellettuale. La sua vicenda esistenziale gli permette di essere credibile come uomo; la sua deportazione a Makrònissos, a Leros; il suo confinamento a Samo, gli permette di essere credibile come testimone, come politico. La poesia di Ritsos è sempre politica, è sempre testimonianza e invito etico.
In Lettera a Joliot-Curie, M.me Curie resiste all’internamento, e la sua vicenda diventa materia poetica:
“Così da isola deserta a isola deserta
Portando da una pena all’altra il nostro fagotto
Portando il nostro cuore nel nostro fagotto
Portando la nostra fede nel cuore
Tante volte senza pane
Tante volte senz’acqua
Con le mani in catene
Senza avere il tempo di far confidenza con un albero o una finestra Con le mani sempre in catene
Dato che siamo uomini tanto semplici
Certe teste dure
Che mai abbiamo smesso d’amare,
come te, libertà e pace”.
In Makronissos leggiamo:
“Ed ebbe inizio la selvaggia, sterminatrice persecuzione contro i combattenti della resistenza. Migliaia dei quali sono stati giustiziati sommariamente per le strade, centinaia di migliaia terrorizzati e maltrattati brutalmente di notte da bande di mascherati, che all’alba si trasformano in illustri rappresentanti della legge. E giorno e notte sono riuniti i tribunali militari, dove basta la deposizione di un ex collaboratore della Gestapo per farti condannare a morte tre volte. E le carceri si riempiono di combattenti e ricompaiono i ghetti hitleriani e si moltiplicano le tombe. Si assassina un popolo a freddo”.
E anche in Grecità:
“…sarà difficile che dimentichiamo le loro mani,
difficile che mani incallite sul grilletto interroghino
una margherita, dicano grazie posate sul ginocchio,
sul libro o sul busto del chiarore stellare. Occorrerà tempo. E dovremo parlare. Finché trovino pane e giustizia”.
In molti suoi poemi Ritsos ricorda e richiama al dovere di ricordare:
“Questi timori ho adesso,
e gioisco di queste mie paure così diverse: – non essere dimenticati. Voglio dire
per un’amicizia positiva, ragionevole, basata
sul ricordo e sull’interesse di tutti. Coltivo questo giardino
della “Pace e dell’Amicizia Mondiale”, come lo chiamiamo” (L’ultimo e il primo di Lidice).
Il lavoro poetico e terapeutico della risignificazione permette di rivivificare gli oggetti morti, e così di riportare in vita gli uomini, le donne, i bambini. Le rose che il protagonista cura sono “petali caduti e rimasti sotto il ghiaccio come gocce di sangue nero, o come gli occhi rossi per l’insonnia”; rappresentano ognuna delle vittime dell’ingiustizia umana che abbia subito delle amputazioni.
Il lavoro del “ricordare e riflettere” ne permette la palingenesi, la trasformazione sotto forma di verità universale, coltivata e fiorita in ogni parte del mondo, per tutti i “sommersi” e dimenticati del mondo:
“Coltivo questo giardino, ricordo e rifletto. Aspetto
che cominci la ricostruzione socialista a Dìstomo,
a Kokkinià, a Kalàvrita; che fiorisca il Roseto mondiale
nel poligono di tiro di Kessarianì, a Hiroshima, a Oradour-sur-Glane
e a Stalingrado. Abbiamo tutti da lavorare
in molte parti del mondo; e dobbiamo ricordare, riflettere e lavorare” (L’ultimo e il primo di Lidice).
Qui, la poesia ritrova la sua altra dimensione – consustanziale all’estetica -, quella etica, che favorisce la libertà di vivere, anzitutto, ma anche di distinguere il bene dal male, la vittima dal carnefice, l’olocausto dal riduzionistico suicidio collettivo di un popolo:
“Distinguere le cose, nominarle, mi fa sentire dolcemente felice, e la felicità mi fa sentire libero,
perché solo chi è libero può distinguere
i colori, i profumi, il silenzio e le forme
del passato, del presente, del futuro […] Solo chi è libero
può determinare la differenza e l’unità, può dare
un nome esatto alle cose, alle azioni, ai sentimenti
e perfino alle idee e alle visioni” (L’ultimo e il primo di Lidice).
Ne L’ultimo e il primo di Lidice, il lavoro della memoria e quello devoluto per il bene degli altri permettono all’uomo reificato dagli avvenimenti storici di rianimarsi, proprio come l’amore del padre Geppetto e della Fata permettono al burattino di legno, Pinocchio, di rianimarsi e tornare ad essere un bambino vero e proprio:
“Allora il mio gatto cammina pian piano per non svegliarmi da questa felicità.
Ma io non dormo. (Tutti i gatti camminano pian piano.) La luna
entra anch’essa pian piano dalla finestra, e quell’uccello d’oro della Lidice perduta, che aveva rotto la vetrata della chiesa e si era perso in una breccia della serenità, entra di nuovo in casa mia, radioso, e si distende da solo sul mio tavolo nudo come una tovaglia di broccato” (L’ultimo e il primo di Lidice).
Non che le cose abbiamo minore dignità degli esseri umani: sono state anch’esse viventi, hanno anch’esse sofferto e bruciato; anche la loro morte partecipa alla responsabilità del futuro, come i defunti. Ma il ritorno all’azione, al momento umano del tempo storico:
“Ė una ristrutturazione silenziosa della giustizia in uno spazio più profondo.
Non è l’imitazione di un antico equilibrio […]
Ė la nostra azione. Un prolungamento, un’unità e una comprensione
– più profonda della comprensione – la felicità del nostro reciproco rispetto”. (ibid.)
In ogni catastrofe sopravvive qualcuno per testimoniare, per insegnare a ristabilire l’unità della storia e della stessa vita. L’ultimo e il primo di Lidice è sopravvissuto, come Ritsos al regime dei Colonnelli.
E in fondo, il suo messaggio è lo stesso de Il guardiano del faro:
“Esiste sempre dunque il modo di donare qualcosa
E forse di restare anche noi con quello che doniamo”.
La grande poesia è tale nella misura in cui richiama l’uomo agli uomini, alla matrice dello spirito, alla natura originaria della esperienza originaria della relazione con l’altro:
“Quello che possiedo
devo lavorarlo ancora per poterlo restituire
a tutta la vita, moltiplicato per tutte le mie morti successive
e per la mia morte ultima, che non avrà più niente
da prendermi, perché ho donato tutto alla vita, e la vita, che ve l’offre,
me lo conserva doppio per spartirlo, e vi conserva, mi conserva”. (L’ultimo e il primo di Lidice).
