La poetica dell’oggetto in Ghiannis Ritsos

Leggendo “Il guardiano del faro” e “L’ultimo e il primo di Lidice”.

Crepuscolo, una stanza pressocchè spoglia, l’apertura della scala a chiocciola, che conduce alla lanterna. Si tratta di uno di quei vecchi fari con una lampada a petrolio. Il guardiano del faro è un uomo robusto, impacciato e incerto, incline a confidarsi. Vive da solo, completamente solo, non ha moglie, figli, amici, nessuno. A un certo punto, nel suo tempo rallentato – non fermo, non circolare – compare un vecchio conoscente, venuto a fargli visita. Il guardiano comincia a parlare, a parlargli”.
Inizia così, con questa evocazione di un luogo, di un tempo e di un soggetto appena abbozzati, Il guardiano del faro, una delle opere poetiche meno conosciute di Ghiannis Ritsos, così come poco conosciuto è l’altro poema – da cui prenderò spunto in questo breve saggio sulla poetica dell’oggetto in Ritsos -, ovvero L’ultimo e il primo di Lidice.
Si tratta di due gemme preziosissime. L’una, Il guardiano del faro, per spessore poetico e psicoanalitico; l’altra, L’ultimo e il primo di Lidice, per la testimonianza storica e l’attualità che costituisce: una luce portata sui massacri compiuti dai nazisti nella seconda guerra mondiale – contro la piccola città ceca di Lidice, bruciata e rasa al suolo nel 1944, con tutti i suoi uomini, donne e bambini -, analoghi a quelli compiuti dai Russi in Ucraina, oggi, contro la città di Mariupol.
Cominciamo dal primo dei poemetti.

Il Guardiano del faro è un soggetto mitologico – tanto è esemplare nella sua marmorea grecità – ma insieme è un uomo in carne e ossa, vicino a ciascuno di noi per le sue paure e il suo bisogno di contatto; è una figura della psicopatologia, per la sua oscillazione acquorea, per il suo andirivieni dentro e fuori le relazioni umane; ma anche una figura del poetico, per la sua refrattarietà a spiegare o descrivere, per la sua inclinazione a disporre i propri gli oggetti interni così, misteriosamente deformati, sul tavolo dei versi.
È un uomo sensibile, fragile, perduto nella sua solitudine. Sei tu, sono io, è lo stesso Ritsos.
Il faro e il mare, composti, contrapposti, disposti uno di fronte all’altro, uno di sopra all’altro.
Al principio, il faro, con la sua luce che illumina il mare oscuro, evoca la tensione alla consapevolezza, alla presunzione di penetrare il buio proprio e altrui, quasi volendo fissare l’ineffabile del mondo interiore e, così, restituire a unità la frammentazione di sé generata dalle perdite. La luce dell’intelletto, la dimensione protettiva dell’intelligenza, della razionalità, è:
“…una comoda, solida cavità
sferica, scavata nell’inutile frastuono […]
una nuova arca, in cui hai radunato
ricordi, azioni e sogni, per salvarli,
e salvare te stesso assieme a loro”. (Il guardiano del faro).


Il faro e la sua difensiva capacità riflessiva sembrano rassicuranti, perfino necessari:
“Di notte ha sempre inizio la nostra sovranità. Nel buio,
con il silenzio o col frastuono del mare sotto i piedi, ci sentiamo murati dentro il faro, immedesimati con esso…”. (ibid.).


La sua fiamma siamo noi; la nostra attenzione, la nostra dedizione è al servizio degli altri, della salvezza degli altri:
“…Esistono anche qui
un mucchio di impegni, doveri e responsabilità, come si dice. Dobbiamo trasportare il petrolio, pulire la lampada,
pulire la lanterna di vetro del faro, avvolgere
il cavo d’acciaio come se caricassimo un enorme orologio […]
…E bisogna vegliare
perché non si fermi un attimo la rotazione”. (ibid.)


Ma poi, col procedere della poesia e della catabasi in se stessi, comincia a vacillare la certezza della propria funzione, della propria utilità, e allora bisogna mettersi nei panni dell’altro, al posto dei naviganti o dei naufraghi, per rassicurarsi sul proprio ruolo salvifico:
“Molte volte io stesso, per convincermi di esistere, mi trasferisco
dal mio posto immobile al posto assai mutevole
della nave, del viaggiatore, del naufrago,
per guardare alla mia importanza dalla parte opposta, nella notte, quando in un ultimo lampo crollano le nostre scenografie di cartone, e resta la scena vuota con gli elettricisti morti,
sotto le scale in frantumi e le corde spezzate,
quando le navi affondano, e gli uomini guardano adirati
il mare nudo, tentando di aggrapparsi a qualche asse di legno,
perché ovviamente non possono aggrapparsi ai raggi del faro”. (Ibid.)

Presto, il guardiano si accorge che l’immedesimazione al faro che fronteggia il mare e la notte, rischiarandone l’oscurità, è appena un’illusione per credere di esistere, di consistere, di essere desiderati. Allora: “La luce del faro [diventa] una stanchezza inafferrabile, lontana, superflua”; il faro diventa un inutile utensile che “Al massimo illumina il naufragio, mostrando più tremende le fauci delle onde”. La sua funzione riflessiva, la sua altezzosa austerità, al cospetto della “mutevolezza” nostra e del mare, diventa una prigione, la rappresentazione di quell’autosufficienza, di quell’isolamento che tradiscono il bisogno infantile di essere cercati, di quella fermezza o rigidità che è paura delle relazioni, e della tempesta emotiva che esse comportano:
“A volte ci inganniamo da soli; ogni rinuncia
è un nuovo rifugio segreto; e la nostra solitudine volontaria
è un’attesa evidente, una scommessa in cui ti giochi
tutta la vita senza testimoni, e tu sarai l’unico a pagare
col tuo netto rifiuto o con l’umiliazione
di tornare alle cose abbandonate (per provarle forse),
e quelle non hanno chiesto di te, non ti aspettavano né ti ricordavano, non hanno neppure avvertito la tua assenza; così
la prova è rimasta tutta tua, soltanto tua”. (ibid.)


Allora ti sovviene il dubbio o la consapevolezza che essere rimasti fermi alla finestra, a guardare la vita dalla tua poltrona marmorea e pesantissima, sia stata una sconfitta, la sconfitta del calcolo o della misura di fronte al buio pulsare del mare; la sconfitta di Apollo di fronte a Dioniso; del faro di fronte al mare. Di qui l’illuminazione, che talvolta si ottiene spegnendo la luce e restandosene al buio:
“Meglio al posto del naufrago che a quello del guardiano del faro
che, al riparo del pericolo, sorveglia il presunto maestoso spettacolo del temporale, a volte affascinato, a volte addirittura altezzoso
per averlo visto e illuminato. Meglio
al posto di quello che lotta con il corpo dell’acqua”. (ibid.)


Dirai che resta il mare – il buio attrattivo e periglioso dell’amore, dell’altro -; che il mare rimane comunque, al di là della rotazione intermittente della lampada del faro; che permane l’oscurità, dalla quale tutto principia e in cui tutto finisce. Ma questo mare è indefinibile; è “l’altro” dell’inconscio novecentesco che comunque si sottrae alla nostra volontà, al nostro bisogno; è l’amico, la moglie, il padre, il figlio, la cui mancanza genera “fantasticherie” – come le chiama D. Winnicott -, ovvero il racconto favoloso nel quale ti accorgi della tua importanza, e invochi l’altro:

“Altre volte ancora, quando accendevo la lampada,
me ne stavo sul balcone e aspettavo una nave,
non perché vedesse e proseguisse la rotta, una nave
diretta qui; che ormeggiasse qui; e non per evitare
qualche grave pericolo; ma sicuramente diretta qui […]
Immaginavo i passeggeri con le valigie che saltavano su questi scogli; i loro discorsi rivolti direttamente a me, simili a me […]
Aspettavo dunque di distinguere nel fragore del mare
una voce umana, un cenno, qualcosa,
un riconoscimento minimo della nostra solitudine e resistenza”. (ibid.)


E tuttavia, per quanto rassicurante, la propria pienezza genera la mancanza, la ricerca della razionalità genera il mostro dell’emarginazione, dell’insofferenza, del delirio o della vertigine:
“Quando sali la scala a chiocciola interna […]
ti coglie come una vertigine,
hai l’impressione che la scala non finisca, come se salissi
al buio più completo dentro i tuoi stessi visceri, come se ti avvolgessi intorno a te stesso, dentro te stesso,
come se ti attorcessi da solo nell’ignoto
e a poco a poco sfuggissi alla forza di gravità; – una vertigine […] Allora non devi guardare né sopra né sotto,
soltanto dritto davanti a te, all’altezza degli occhi,
e allora gli occhi sono come due ampie ali aperte che ti reggono
in equilibrio immobile, profondo e vacillante, tra la terra e il cielo”. (ibid.)


Un equilibrio raggiunto attraverso l’introspezione, dunque, la discesa nelle proprie viscere; il punto mediano ma vacillante sulla verticale tra terra e cielo, ovvero tra l’abisso onirico della perdita definitiva – del sogno, della poesia – e la sofferta verminosa densità della terra, tra le cui radici tentacolari nasciamo e ritorniamo.
La solitudine genera sempre l’allucinazione. L’allucinazione del desiderio, come la chiama S. Freud, quel bisogno incoercibile di contattare nuovamente il corpo morbido e madido da cui sei nato; ma anche l’allucinazione intesa come onirizzazione della realtà, come passaggio d’infante dalla concretezza vuota e solitaria della realtà all’illusione della presenza dell’oggetto, dell’altro, della cura. Un andirivieni continuo, la risacca del mare contro gli scogli, l’intermittenza esitante dell’uomo intorno a se stesso. Per i greci, il termine “catastrofe” ha il senso, per noi più comune, di disastro, ma anche quello di ritorno all’immobilità di una corda musicale, dopo che essa ha oscillato e vibrato. Pertanto, l’immobilità è catastrofica, è il contrario del movimento. Meglio l’oscillazione, foss’anche violenta, tra diversi vissuti e diverse rappresentazioni di sé; foss’anche intollerabile, angosciosa, defatigante. Un’oscillazione viva e vitale, qui interessante nella misura in cui è anche poetica, ovvero intranea alla versificazione, costitutiva della struttura e della sequenza dei vari “pezzi” di ogni singolo poema di Ritsos.
C’è sempre una successione nei poemi di Ritsos tra la dimensione poetica – buia, misteriosa, fatta di oggetti incomprensibili, deformati, fluttuanti – e la dimensione noetica, fatta di illuminazioni improvvise, che si inscrivono per sempre sul frontone dell’Umanità, proprio per la loro stupefacente complessità.
Ma l’oscillazione, quando è continua, produce deragliamenti, esondazioni da sé, dislocamenti dereistici. Si è parlato spesso di “allucinazione storica”, per definire l’operazione che Ritsos compie – soprattutto nei poemi di Quarta Dimensione, ma non solo – quando restituisce la parola a personaggi mitologici, ripresentificandoli, trasformando un’assenza in presenza, percorrendo a ritroso il sentiero che porta dalla cosa al suo fantasma, dall’oggetto all’allucinazione.
L’allucinazione è la conseguenza, e forse anche il corollario, della pulsione di morte, ovvero della spinta a slegare l’oggetto, a se-pararlo. Pulsione che conduce alla morte fisica o alla follia. In Ritsos l’allucinazione è certamente una figura preponderante e richiamata. Ma se allucinazione vogliamo chiamarla, allora questa dev’essere complessizzata. Qui, infatti, l’allucinazione è il viatico per una nuova, più profonda e poetica ricostruzione di sé. Ritsos non si limita a rilevare come la perdita generi la destrutturazione del pensiero: egli indugia anche – o finalmente – a far comprendere come la scomposizione, la fluidificazione di pensieri e vissuti pietrificati, possa portare a un nuovo inizio, a una nuova e meno difensiva ricomposizione di sé; a un soggetto non reificato ma vivificato, proprio perché correlato all’altro. Certo, la strada per questa costruzione è la perdita. Soltanto colui che ha perso o s’è perso può nascere di nuovo, in modo nuovo. Ma ove questa perdita sia avvenuta, ecco la consolazione dell’unione ritrovata, la soluzione:
“Forse noi due, che abbiamo appreso come non esista alcuna
consolazione a questo mondo, forse, proprio per questo, noi due (anche se ciascuno per conto suo) riusciremo di nuovo a consolare, e forse a essere consolati”. (Il ritorno di Ifigenia).

Dove il lavoro dell’allucinazione si sia potuto svolgere in presenza dell’altro, dove cioè il lavoro dell’allucinazione sia stato una trasformazione che porta l’uomo a raggiungere la propria verità, esso può costituire un nuovo soggetto, legato, proteso all’altro; un soggetto generato dal dono di se stessi:
“Perché allucinazione dunque? Un altro faro più lontano si occuperà tra poco delle navi. La lampada esiste,
noi esistiamo. E siamo noi
che costruiamo la lampada; noi che l’accendiamo
nel cuore della notte. E possiamo dire di essere noi
la fiamma della lampada […] Comunque le navi si orientano con la nostra stella […] Non ci basta sapere che sono arrivate o arriveranno? […]
Esiste sempre dunque il modo di donare qualcosa
E forse di restare anche noi con quello che doniamo. Ogni mattina
Ci sarà un colore adatto al nostro sguardo […]
Ora posso tacere di nuovo e accendere la nostra lampada”. (Il guardiano del faro).


Nella poetica di Ritsos, il monologo non è mai un vaneggiare sul vuoto di se stessi, non è mai il soliloquio del folle di fronte alla luna. C’è sempre un altro, richiamato sin dall’introduzione prosaica in quasi tutti i poemi; c’è sempre un interlocutore muto che permette al personaggio di esprimersi, di raccontare o di associare liberamente. Non è questa, forse, la condizione della nascita e della crescita? Non è questa cornice duale il setting di ogni processo evolutivo? L’altro, la presenza silenziosa dell’altro, è proprio colui grazie al quale il delirio o l’allucinazione vengono compresi, arricchiti, trasformati: vedi per esempio la chiusa di La casa morta:
“Non avevo capito niente. Un senso di terrore magico
si era impadronito di me, come se d’un tratto mi fossi trovato di fronte
tutto il fascino e la decadenza di un’antichissima civiltà.
Ormai era notte […] Alle mie spalle avvertivo la massa oscura di quella casa, come una tomba antica, maestosa.
E, se non altro, avevo imparato almeno quello che devo e dobbiamo evitare”.


In Ritsos non riesci mai a capire se il silenzio dell’interlocutore sia “Sfinimento, saggezza, inconsapevolezza, tolleranza, comprensione, condanna generale, accettazione generale, affetto, affermazione, rifiuto, ostilità, demenza, o un suo sogno particolare” (Sotto l’ombra del monte).

Talvolta l’interlocutore disvela il non dicibile sul personaggio, come nella chiusa prosaica di Elena, nella quale l’assenza di eredi – cui fanno alludere i sigilli apposti alla casa della regina – ci parla della tragica “dépense” della Bellezza. Talaltra, esso coincide con la chiusa stessa, che quindi non è solo didascalia di scena, né soltanto motore dell’azione drammatica, quanto invece ombra dell’oggetto.
Ė così che accade, per esempio, in Ismene, che nella chiusa prosaica dell’opera si rimette nei panni della sorella Antigone, dopo essersene distanziata per tutta l’opera, e in questi panni non vivibili, non suoi, in questa alterazione impossibile decede.
Dunque, ne Il guardiano del faro, e in generale nella poetica di Ritsos, l’allucinazione produce una costruzione di sé proprio perché incardinata in un lavoro terapeutico a due; essa permette di sciogliere i propri nodi inconsci e dare senso all’inaudito.


Eppure, non tutti i poemi di Ritsos passano per il lavoro dell’allucinazione e conducono a una nuova relazione, alla costruzione.
Ne Il guardiano del faro e ne L’ultimo e il primo di Lidice – come anche nella maggior parte dei poemi di Quarta Dimensione – è ancora visibile un soggetto, un Io narrante che parla della propria storia attraverso di sé, attraverso i ricordi, i vissuti, le proprie pulsioni.
In questi poemi, l’occhio della narrazione poetica ci fa ancora vedere un soggetto, una persona (non un personaggio) seduta davanti a una sorta di finestra, che parla a un interlocutore fuori scena. E dove c’è ancora un soggetto che parla in scena, che parla di sé in carne e ossa, c’è ancora uno spazio delimitato, confinato, che rappresenta la sua “pelle psichica”, e c’è ancora un tempo, una temporizzazione degli avvenimenti. Ė questa per esempio la cornice spazio-temporale de Il guardiano del faro.
Al contrario, dove il soggetto è sparito, annichilito dal peso delle proprie sconfitte, delle proprie ferite, della perdita o della mancanza; dove questa dissoluzione del soggetto è avvenuta, o nella misura in cui è avvenuta, compare e prende piede un fenomeno di oggettivazione dei propri fantasmi, dei traumi, delle perdite, un fenomeno di reificazione di sé e dei propri sentimenti, dei propri deliri o allucinazioni. Si sviluppa e si manifesta un fenomeno opposto, che definirei di animazione degli oggetti.
Ė come se quell’uomo davanti alla finestra, quel soggetto che fissa immobile gli oggetti dentro e fuori la propria casa, poco a poco si stancasse di tanta solitudine. Come se quel soggetto, che fino a un certo punto della propria storia riesce a essere presente e ad abitare la scena (la sua stanza), da quel punto in poi non riuscisse più a contenere e “fissare” i propri oggetti, e morisse psichicamente risolvendosi in essi – una pentola, una porta chiusa, una tovaglia di broccato, le ombre che risalgono su un tavolo, una scopa, delle scarpe di cuoio -. A quel punto, gli oggetti rimangono a fluttuare nell’aria, non più contenuti, e anzi alterati, deformati, spesso incomprensibili – gli “oggetti bizzarri” di W. Bion, quelli che pendono dal soffitto nella scena di Atto senza parole di S. Beckett – perché non più compresi nella mente del soggetto.

Nella misura in cui il soggetto scompare, prende piede una sorta di allucinosi: il soggetto si trasforma da protagonista, definito e storicizzato, in oggetto che trasporta nella spazio della relazione narrativa uno sciame di oggetti bizzarri che sono, insieme, la concretizzazione dei propri fantasmi e i frammenti disorganizzati di se stesso. Oggetti sospesi nel tempo e nello spazio, visto che, con la sparizione del soggetto, il personaggio che rimane è “osceno”; ma anche oggetti deformati, alterati o alienati dal lavoro di deformazione psichica conseguente ai traumi subiti e alla solitudine prolungata, all’abbandono.
Via via che sparisce, il soggetto narrante si risolve nei suoi oggetti, e prende piede un fenomeno di reificazione, di oggettivazione di sé. Allora gli oggetti prendono a muoversi, danzano, si vendicano, vengono amati o odiati, custoditi o abbandonati: si animano, insomma.
Il processo di diffusione e oggettivazione di sé va dunque di pari passo col fenomeno dell’animazione degli oggetti. Ė questa l’anima della poetica di Ritsos, il tratto peculiare e unico della sua poesia.
Mai come in Ritsos gli oggetti sono trattati come soggetti, e fatti vivere; mai come nei suoi poemi essi sono stati così a lungo compresi, messi in scena e animati:
“Annoverarli tutti non è dato […] Possiamo campionare. Lo specchio che scompone e ricompone. Il chiodo, ambiguo, perché sostiene, dalla sua microscopica crepa nel muro, ma la ferita dell’intonaco è la prima nota del declino, del tempo che sfarina tutto, della casa che implode, del quadro che sembra tuffarsi nel nulla. Il lenzuolo che vela la poltrona sfondata, il triangolo di un ginocchio amato nel letto dell’eros, ma soprattutto le rigide statue dei giovani morti sui camion, nella guerra civile ellenica che ha avuto Ritsos come attore, pubblico e taccuino critico. Il fazzoletto che orna il grigiore delle vecchie contadine in campagna […] Poesia di cose” (E. Savino, “La poesia delle cose”, Poesia, Crocetti Editore, n. 239, giugno 2009).
Forse questo processo di oggettivazione di sé è necessario, per chi è costretto a rimanere da solo di fronte alla finestra, nella propria stanza, con i propri oggetti domestici. Forse è inevitabile, in una condizione di privazione affettiva, come quella subita dal poeta nell’infanzia, allucinare gli oggetti, farli lievitare col pensiero e riportarli in vita, immedesimarsi con essi e vivere in essi. Fatto sta che nessuno, come Ritsos, ha istituito una vera e propria poetica dell’oggetto:
“Non resta altro, per un bambino privato troppo precocemente della tenerezza materna, che la familiarità degli oggetti […] il ricorso ad essi diverrà uno dei temi più importanti della sua opera. Vi è, nel chiaroscuro di una casa austera, la nascita di una complicità che legherà per sempre un uomo alle cose, queste testimoni del dramma. Lo legherà agli utensili, alle porte, alle finestre, alle tende, ai tavoli, alle statue innominabili di cui saranno pieni i suoi poemi. Poiché le cose sono un’altra maniera di ritrovare l’altro; esse ci rinviano un’immagine dell’uomo più tollerabile, pacifica, un riflesso del suo lavoro, del suo agire, un’eco addolcita delle sue passioni; esse invecchiano, anch’esse, ci accompagnano. Perfino nella loro rassegnazione finale esse ci offrono l’esempio luminoso di una riconciliazione col mondo”. (ibid.)


E L’ultimo e il primo di Lidice è tra i primi esempi poetici, probabilmente, di questo genere.
Com’è noto, il poema rievoca la cittadina ceca di Lidice, annientata dai nazisti nel 1944. Lo sterminio di un’intera popolazione – tutti tranne uno, il soggetto narrante dell’opera, l’ultimo della vecchia Lidice e il primo della nuova ricostruita Lidice – permette al poeta di far parlare gli oggetti, che qui si assumono la responsabilità di testimoniare l’orrore avvenuto.
Lidice comincia proprio con la catastrofe e col dovere di ricordarla, dovere affidato agli utensili di quel borgo di minatori che fu Kladno. In tal modo le cose più umili diventano esse stesse le vittime dello sterminio:
“Vi mostro le cose che si sono salvate per evitare di mostravi quello che non si è salvato […] Era una notte di urla e pietre –
Il sangue colava silenzioso nella gola nera della morte […]
Credo che i campanelli delle case suonassero impazziti
premuti dalle dita dell’incendio; una sedia
si sollevò come un cavallo su due gambe
saltando nel caos dalla finestra; una brocca
si fermò in aria, per un istante si portò le mani alle tempie
e con un grido si fiondò nel nulla…”, (L’ultimo e il primo di Lidice)


E ancora:
“Una grande tovaglia di broccato
si levò dalla Santa Mensa della chiesa,
oscillò sospesa sotto la cupola,
ruppe con un angolo la vetrata della grande finestra e uscì come un grande uccello cavo,
un uccello spiumato, disossato,
splendido nella sua diafana nudità…”. (ibid.)


La distruzione di Lidice costituisce l’antefatto da cui parte il processo di risignificazione e ricostruzione poetica. Il cui processo essenziale è la memoria, il dovere di ricordare:
“Non volevo ricordare. Mi sono tormentato
per uccidere la memoria. Ora mi tormento
per uccidere l’oblio che si stende dolcemente sui giardini, copre la collera, l’odio, il dolore, la paura,
[…] l’oblio copre ancora una volta gli uccisi
non con i tre metri di terra
ma con un pensiero rivolto al domani,
rivolto a un mondo migliore. Non so se l’oblio
sia saggezza o viltà o stanchezza. Voglio ricordare. Voglio accordare il perdono non per via del dolore,
non per via della stanchezza. Voglio ricordare e riflettere, annullare con la riflessione il dolore
non nascondere il dolore con la riflessione”. (ibid.)

Dall’estetica all’etica. Ritsos non è un accademico intellettuale. La sua vicenda esistenziale gli permette di essere credibile come uomo; la sua deportazione a Makrònissos, a Leros; il suo confinamento a Samo, gli permette di essere credibile come testimone, come politico. La poesia di Ritsos è sempre politica, è sempre testimonianza e invito etico.
In Lettera a Joliot-Curie, M.me Curie resiste all’internamento, e la sua vicenda diventa materia poetica:
“Così da isola deserta a isola deserta
Portando da una pena all’altra il nostro fagotto
Portando il nostro cuore nel nostro fagotto
Portando la nostra fede nel cuore
Tante volte senza pane
Tante volte senz’acqua
Con le mani in catene
Senza avere il tempo di far confidenza con un albero o una finestra Con le mani sempre in catene
Dato che siamo uomini tanto semplici
Certe teste dure
Che mai abbiamo smesso d’amare,
come te, libertà e pace”.


In Makronissos leggiamo:
“Ed ebbe inizio la selvaggia, sterminatrice persecuzione contro i combattenti della resistenza. Migliaia dei quali sono stati giustiziati sommariamente per le strade, centinaia di migliaia terrorizzati e maltrattati brutalmente di notte da bande di mascherati, che all’alba si trasformano in illustri rappresentanti della legge. E giorno e notte sono riuniti i tribunali militari, dove basta la deposizione di un ex collaboratore della Gestapo per farti condannare a morte tre volte. E le carceri si riempiono di combattenti e ricompaiono i ghetti hitleriani e si moltiplicano le tombe. Si assassina un popolo a freddo”.


E anche in Grecità:
“…sarà difficile che dimentichiamo le loro mani,
difficile che mani incallite sul grilletto interroghino
una margherita, dicano grazie posate sul ginocchio,
sul libro o sul busto del chiarore stellare. Occorrerà tempo. E dovremo parlare. Finché trovino pane e giustizia”.


In molti suoi poemi Ritsos ricorda e richiama al dovere di ricordare:
“Questi timori ho adesso,
e gioisco di queste mie paure così diverse: – non essere dimenticati. Voglio dire
per un’amicizia positiva, ragionevole, basata
sul ricordo e sull’interesse di tutti. Coltivo questo giardino
della “Pace e dell’Amicizia Mondiale”, come lo chiamiamo” (L’ultimo e il primo di Lidice).


Il lavoro poetico e terapeutico della risignificazione permette di rivivificare gli oggetti morti, e così di riportare in vita gli uomini, le donne, i bambini. Le rose che il protagonista cura sono “petali caduti e rimasti sotto il ghiaccio come gocce di sangue nero, o come gli occhi rossi per l’insonnia”; rappresentano ognuna delle vittime dell’ingiustizia umana che abbia subito delle amputazioni.
Il lavoro del “ricordare e riflettere” ne permette la palingenesi, la trasformazione sotto forma di verità universale, coltivata e fiorita in ogni parte del mondo, per tutti i “sommersi” e dimenticati del mondo:
“Coltivo questo giardino, ricordo e rifletto. Aspetto
che cominci la ricostruzione socialista a Dìstomo,
a Kokkinià, a Kalàvrita; che fiorisca il Roseto mondiale
nel poligono di tiro di Kessarianì, a Hiroshima, a Oradour-sur-Glane
e a Stalingrado. Abbiamo tutti da lavorare
in molte parti del mondo; e dobbiamo ricordare, riflettere e lavorare” (L’ultimo e il primo di Lidice).

Qui, la poesia ritrova la sua altra dimensione – consustanziale all’estetica -, quella etica, che favorisce la libertà di vivere, anzitutto, ma anche di distinguere il bene dal male, la vittima dal carnefice, l’olocausto dal riduzionistico suicidio collettivo di un popolo:
“Distinguere le cose, nominarle, mi fa sentire dolcemente felice, e la felicità mi fa sentire libero,
perché solo chi è libero può distinguere
i colori, i profumi, il silenzio e le forme
del passato, del presente, del futuro […] Solo chi è libero
può determinare la differenza e l’unità, può dare
un nome esatto alle cose, alle azioni, ai sentimenti
e perfino alle idee e alle visioni” (L’ultimo e il primo di Lidice).


Ne L’ultimo e il primo di Lidice, il lavoro della memoria e quello devoluto per il bene degli altri permettono all’uomo reificato dagli avvenimenti storici di rianimarsi, proprio come l’amore del padre Geppetto e della Fata permettono al burattino di legno, Pinocchio, di rianimarsi e tornare ad essere un bambino vero e proprio:
“Allora il mio gatto cammina pian piano per non svegliarmi da questa felicità.
Ma io non dormo. (Tutti i gatti camminano pian piano.) La luna
entra anch’essa pian piano dalla finestra, e quell’uccello d’oro della Lidice perduta, che aveva rotto la vetrata della chiesa e si era perso in una breccia della serenità, entra di nuovo in casa mia, radioso, e si distende da solo sul mio tavolo nudo come una tovaglia di broccato” (L’ultimo e il primo di Lidice).


Non che le cose abbiamo minore dignità degli esseri umani: sono state anch’esse viventi, hanno anch’esse sofferto e bruciato; anche la loro morte partecipa alla responsabilità del futuro, come i defunti. Ma il ritorno all’azione, al momento umano del tempo storico:
“Ė una ristrutturazione silenziosa della giustizia in uno spazio più profondo.
Non è l’imitazione di un antico equilibrio […]
Ė la nostra azione. Un prolungamento, un’unità e una comprensione
– più profonda della comprensione – la felicità del nostro reciproco rispetto”. (ibid.)

In ogni catastrofe sopravvive qualcuno per testimoniare, per insegnare a ristabilire l’unità della storia e della stessa vita. L’ultimo e il primo di Lidice è sopravvissuto, come Ritsos al regime dei Colonnelli.
E in fondo, il suo messaggio è lo stesso de Il guardiano del faro:
“Esiste sempre dunque il modo di donare qualcosa
E forse di restare anche noi con quello che doniamo”.

La grande poesia è tale nella misura in cui richiama l’uomo agli uomini, alla matrice dello spirito, alla natura originaria della esperienza originaria della relazione con l’altro:
“Quello che possiedo
devo lavorarlo ancora per poterlo restituire
a tutta la vita, moltiplicato per tutte le mie morti successive
e per la mia morte ultima, che non avrà più niente
da prendermi, perché ho donato tutto alla vita, e la vita, che ve l’offre,
me lo conserva doppio per spartirlo, e vi conserva, mi conserva”. (L’ultimo e il primo di Lidice).

La dimensione della perdita. Poesie, 2002–2016



Il contadino giù nel cortile ha abbattuto l’albero
di fichi – un albero bellissimo, maestoso,
avrà avuto cent’anni -.

È un tipo pratico lui, risoluto;
indugia sulle rape, così buone, terra terra,
mentre abbatte senz’indugio quell’intreccio di profumi,
di sapori, di freschezza.

L’inquilino del terzo piano s’era lagnato,
gli toglieva la vista sull’arteria commerciale – dice –
dove la gente, a piccoli passi, brulica nel minimarket,
ignara degli slanci, delle altezze, dei ripari.











Vieni a prendermi se puoi,
sono solo, ho bisogno di te.
Vieni a prendermi se puoi.
La cena si fredderà, la mangeremo così;
la gita programmata la faremo più avanti,
quando le stagioni si saranno già aperte.
È il tempo della privazione, questo.
Gli alberi si stanno spogliando per andare a letto.
I fiumi si ritirano nel letto, filiformi ed invisibili.
Io e te ci tocca affondare nella neve,
tracciare una strada per la nuova primavera,
dedicarci alla speranza.













Avevo aperto la porta, sovrappensiero.
Nella stanza pochi oggetti: tavoli, sedie, cose del genere.
Uno in particolare, un paio di occhiali
appartenuti a qualcun altro, privi di una lente.
Gli avevano ricordato qualcosa.
Anni prima, li aveva fotografati per gioco,
accostati a una rosa sul tavolo di una terrazza.
Un particolare gli aveva rivelato tutto il vuoto del mondo.
Una sola lente. Un’enorme mancanza.











Il giardiniere ha notato una lucertola,
piccola piccola,
dimenarsi sulla soglia della cucina.
Ha urlato, per spaventarla.
Poi l’ha schiacciata, senza finirla.

Io ero distante, ho sentito le urla;
sono corso anch’io, d’istinto,
con tutta la poesia, la cultura e l’umanità
che mi ritrovo.
Anch’io sono corso, per finirla.









Soltanto l’uomo profondamente solo può viaggiare
nel treno di notte, senza prender sonno,
passando le ore a guardarsi nello specchio,
andare avanti e indietro nel vagone letto,
sobbalzando ad ogni scambio di rotaie,
e quando è l’alba scivolare in silenzio dal finestrino,
inghiottito fra cielo e mare












Ho incontrato un uomo per strada.
Era una di quelle giornate in cui la terra ti impaurisce,
nuvole nere, un vento basso, freddo, che spezza i virgulti.
Era solo, ero solo anch’io.
Cosa abbiamo appreso oggi – gli ho chiesto -?
E cosa abbiamo disperso invece?
Mi sembra di essere rimasto solo – ha biascicato -.
Gli uomini, in masse, hanno lasciato i villaggi, tralasciando i mali.
Sono andati altrove, per costruire una Babele
e finirla con la follia.
Qui c’è rimasta soltanto l’ombra, che è ricordo, poesia, malinconia,
la dimensione di una perdita totale.
Io sono rimasto a completare l’opera, affinché non rimangano tracce.
Ho seppellito mia moglie, bruciato la casa; ho tagliato anche le piante,
tutte, per non avere rimpianti.
Ho lasciato in piedi il vecchio ulivo, per impiccarci i cani.













Certe sere passano a correggere poesie già scritte,
così, tanto per restare fedeli al mestiere. Succede,
quando non hai nulla da dire ma non sai rinunciare a dire.
Certe vite passano a riparare gli errori commessi,
le perdite subite o inflitte,
giusto per mestiere, senza un orizzonte, senza desiderio,
senza apprendere niente.
Si va avanti per abitudine, senza il coraggio di smettere.









Come da un grandangolo.
Un ragazzo africano è in primo piano, a sinistra.
Magro, malandato, cammina su una bici innocente, quasi fermo.
Più in lontananza, verso il centro dello sguardo,
uno spazio che si perde all’infinito,
un campo di grano deserto, desolato,
un borgo silenzioso, cadente, disabitato.
Il vento smuove le cose, solleva polvere,
fa sbattere imposte, ma tutto in silenzio, in silenzio.
Stavo passando di lì in macchina, coi miei pensieri.
L’ho sorpassato da destra, lentamente.
Come filmando un ciclista,
la sua fatica, il respiro stanco, la sua faccia scioccata.
Dal finestrino, andando veloce, ho guardato prima di lui,
e ho avuto paura.
Ho visto lo spazio perdersi a vista d’occhio,
la sua solitudine tragica, assoluta,
l’abbandono della casa per andare verso il nulla.
Ho avuto paura, tanta paura.
– È tutto da percorrere, e lui non lo sa ancora -.








Adesso dormi.
Domani faremo il resto.
Ci sarà tempo per sistemare le carte,
dividere le pentole,
decidere dei figli.
Troveremo la strada per finire.
Le senti le carezze?
Sono andato già avanti.
A domani.












La bella estate è finita.
Come finisce uno sguardo, un sorriso, un bacio
prima dell’addio;
come si spegne il televisore sul mondo in festa,
come si chiude una finestra, silenziosa, dietro le spalle.
La bella estate dei ritorni dal mare,
degli amori vecchi e nuovi, dei ricordi inventati.

Se mai un giorno ritorneremo vivi
dovremo cercarle le parole,
per raccontare cos’è stata questa felicità e questa perdita,
dopo la quale non sei più com’eri,
in piedi nel primo mattino del nuovo inverno.










L’autunno comincia quando dormi da un’altra parte.
Dici che hai i dolori, e ce li hai,
che nel sonno t’inseguono i fantasmi, che lei russa,
oppure che la bimba si mette di traverso.
L’autunno dell’amore, intendo, quando ti separi dal branco,
presentendo che sei vecchio, sei diverso, sei di troppo.
Loro – madre e figli – sono giovani e concordi,
si ritrovano su tutto.
Sei tu l’eccezione, la variabile indesiderata,
l’insoddisfazione da espungere.










Dal buio è emersa quest’alba fredda, immobile,
questo grigio che si stende sul mondo come una tela trasparente.
Ci su muove cauti, privi dell’orientamento del sole o delle nuvole.
Quest’oggi si tratterà di sopravvivere – penso -;
ciò che doveva morire è morto,
ciò che la vita ci ha dato l’ho raccolto ormai.
È tempo di attesa, questo.
Non abbiamo altro da fare, nessuno da invocare;
restiamo piegati sul pozzo.
Il nostro viso ci spaventa, immobile, freddo, ci paralizza.
L’abbiamo guardato, purtroppo.
È tempo di desolazione, questo.










Sentimmo bussare alla porta.
Non aspettavamo più nessuno,
nessuno ci aspettava più, da anni.
Ci guardammo, chiedendoci chi di noi
avrebbe dovuto rischiare la vita, e aprire la porta.
Toccò all’ospite il compito ingrato.
Il vento sembrava cieco, disorientato, infreddolito.
Nonostante l’arcana paura,
nonostante il nostro terrore umano,
il vento ci chiedeva riposo, si mostrava nudo,
ci implorava il perdono.
L’ospite, lo straniero,
gli aveva offerto una vela da gonfiare.
L’aveva invitato ed accolto.













Quando uscimmo all’aperto, gli altri se n’erano andati.
Avevamo tutti la sensazione di qualcosa di sospeso,
o forse d’incompleto.
Era il tempo, il tempo passato, ridotto ad osso, a vestigia.
La compagnia di giro era transitata anni prima,
lasciando sulla battigia qualche maschera di cartone.
Qualcuno ne raccolse un pezzo, se lo mise in volto,
cominciò a ballare mimando Dioniso,
a recitare la parte di se stesso prima della catastrofe.
Doveva essere bello.
Qualcun altro si avvicinò alla vite, lentamente,
mimando il gesto della vendemmia.
Improvvisamente la mano gli si staccò.
Un guanto di cartapesta, posato sui tralci
forse per spaventare i passeri.
Non aveva guadato con attenzione.
Tutto il suo braccio, tutto il suo corpo,
forse anche il sorriso, era stato maschera, un tempo.











Si incamminarono al mattino presto, prestissimo.
La notte era fonda.
La baia da traversare estesa, pericolosa, profonda.
Il mare li sommergeva quasi.
Non c’erano guide, né rotte sicure.
Nessuno ci aveva ancora provato.
Camminavano lenti, ciascuno con le proprie angosce,
col proprio minuscolo uomo da trasbordare.
Camminavano in silenzio, ciascuno da solo con se stesso.
Avevano cercato tutto, tranne la felicità.
Avevano trovato tutto, tranne l’amore.









Nel giardino che coltivo da anni,
il conto tra la vita e la morte è ampiamente dispari.
Per ogni pianta che resiste, due ne sono morte.
Il freddo, il vento della neve, i parassiti e la caducità
hanno strappato moltissime piante.
Ho dovuto raccogliere il corpo dei fiori che avevo più amato,
uno dopo l’altro, e seppellirli, coprirli di terra, proprio loro,
i fiori, che per terra hanno le gambe,
che per terra si nascondono a metà, la metà dimenticata,
quella che non profuma, ch’è difficile da amare.
Nonostante mi sia chinato sull’erba per molto tempo,
il diario di un giardiniere è il racconto di una perdita,
di un vuoto non colmato,
di un conto pareggiato solamente in primavera.













Camminavano per le strade silenziose della sera.
Neve, neve, neve. Dovunque un bel tepore natalizio
una bianca coperta distesa sulle case, per consolare.
Guardavano le finestre illuminate per la festa,
lì nel borgo medievale;
dentro, persone serene, indaffarate le une con le altre.
Non c’era tristezza nei loro occhi, ma disincanto, perdizione.
Non sapevano dove andare,
non sapevano che senso dare alla loro ammirazione
per quelle vite viste così, dalle finestre,
riscaldate, rassicurate, lente.
Non sapevano più nulla da molto tempo ormai.
Erano rimasti gli ultimi a sognare qualcos’altro.










Così si compie l’inverno,
come una luce spegnendo sul buio della notte,
come un sipario sul tuo e nostro amore,
sulle cose, le illusioni che di solito sogniamo
di fronte alle angosce.
L’inverno del cuore,
un suono che si perde dentro una litania,
una poesia da cui il senso fugge via,
il punto in cui silenzio prelude alla morte.
L’inverno del tempo
quand’è tempo di campare giorno dopo giorno,
scrivendo del presagio o del tramonto,
volendo esorcizzare.










Resta a casa, riposati,
concediti di attendermi senza più ansia.
Arriverà il tempo in cui la paura sarà scomparsa,
la paura di restare da sola, di perdersi per strada,
la rabbia d’aver steso la mano per un po’ di vicinanza.
Arriverà quel tempo,
arriverò io stesso a rincuorarti, a riprenderti e giocare,
a dirti che ti amo, che l’infinità è nostra,
che siamo lontani persino dal presagio della morte,
e che se mancano i presagi allora siamo salvi.










L’uomo che si incammini dentro se stesso,
o che sia condannato a farlo, deve sapere che dentro di sé
c’è un mondo di persone amate odiate con cui ci mascheriamo,
ci fondiamo, ci perdiamo;
dev’essere conscio che quel cammino è costellato di morti
che fanno male, di ceneri che sembrano neve;
che passeggiandoci si sentirà più solo – non meno solo -;
si pentirà d’aver cominciato.
Sappia, lo sfortunato, che non c’è gloria in tutto questo,
c’è poco merito, nessun ringraziamento,
e che si vive più soli, si muore più soli.












Dopo tanti anni di reciproco silenzio
lei gli dice che avrebbero dovuto cambiare strada,
prendere e partire verso un mondo lontano,
di modo che si possa riprendere una vita più vicina.
Lei intende che così com’è diventata la loro storia
sembra un film muto,
e forse pure quello ha paura che finisca.
Di qui la svolta, la remissione dell’ignavia e il nuovo inizio.
Non importa se è tardi, se tutto ciò che li animava s’è spento,
se la morte nell’anima di lei e di lui
– così ricercata per scongiurare l’infedeltà –
è ormai visibile dai visi, tirati e conformi, come sarcofaghi.
Dopotutto, cambieranno i calendari sul muro
per aggiornare il tempo,
i mobili di casa per aggiornare lo spazio,
e il tipo di materassi per aggiornare l’amore.












Ogni giorno che tolgo al nostro tempo,
mia stella adorata,
ogni ora sottratta a restare con te,
è un cielo buio nel quale ricado, una tristezza.
E non c’è niente, proprio niente che possa fermarmi.
Scivolo inerte tra la gente che svanisce.
Un armonio, poche note che si volgono alla fine.
C’è solo da rimpiangere d’averti lasciata,
c’è solo da rimpiangere la vita scambiata
per le cose più futili, e tornare da te, amore mio,
e non farlo mai più.










Ho percorso di notte i tornanti di montagna
che conducono a casa.
Volevo godermi le poche ore di serenità prima del sonno,
dopo una giornata di lavoro.
La neve cadeva copiosa contro il vetro della macchina,
stancamente, silenziosa.
Mi sono fermato, ho considerato la sua traiettoria
obliqua, rallentata.
Ho provato amarezza e disincanto
per tutte quelle vite così fragili ed effimere
da essere visibili soltanto nell’ultimo metro
prima dell’asfalto.










Aspettami sottovento.
Sarà più facile passeggiare, o almeno camminare insieme.
Lo so, non l’abbiamo mai fatto noi due,
abbiam sempre faticato contro l’opinione comune,
e spesso, molto spesso, abbiamo perso.
Per cui adesso è come camuffarci,
come inventarci daccapo, così, senza ombrello,
senza impermeabile,
tenendoci per mano tra i giardini a Notre Dame.



La dimensione della perdita, poesie 2002-2016.
Crocetti Editore, Milano 2016

Disamore. Poesie, 2016–2017

Talvolta, nel bel mezzo di una festa,
di un giorno qualunque,
mi coglie la sorpresa di un brivido,
la sensazione di aver concluso nulla.
Mi prende un impulso, oscuro.
Vorrei scappare, sparare, sparire.
E così accade.

Il suono squarcia l’illusione.
Riporta le cose così com’erano,
al grado zero di ogni mattino,
quando mi sveglio, mi stendo,
e con la mano l’avverto che il letto è vuoto,
che tu, l’amore, poesia, la vita.
Tutto finito, consumato.
Risolto.








A luci spente, dopo la fine,
ti dico che ho vissuto da solo, proprio da solo;
che tu non ci sei stata, nei momenti più bui,
quando avevo più bisogno di una stretta,
quando proprio m’assaliva la paura.
Paura di fiatare, di cedere alla follia,
trovarmi lì da solo con tutti i miei fantasmi
che mi guardano allo specchio – ecco.

Se questo è disamore lo capisco.
Non capisco l’amore forse,
non capisco la nostra vicinanza quando tutto fila liscio,
quando tutti stanno bene.
Capisco la solitudine, invece;
sento il battito, il brivido,
a luci spente, dopo la morte.
Ed è lì che t’aspetto.
Solo questo volevo dirti – ecco.








E così finalmente il cielo si è posato
sugli occhi tuoi chiusi da troppo tempo,
dal disincanto.
Possiamo ricominciare adesso.
L’amore ritrovato ce lo consente, di andare insieme,
di sussurrare al tramonto che belli i tuoi anni
così pochi così tanti, e che bello il tuo viso,
così ancora disteso, assolato, bambino.
Dai vieni, ridiamoci la mano,
prepariamoci di nuovo a quel vecchio viaggio,
a un appuntamento stavolta ben più profondo,
ben più lontano.








Improvvisa, una luce mattinale apre una porta.
Nuovi pretendenti si parano davanti,
in modo da costringerlo a deviare ancora
dal suo viaggio verso casa.
Questa volta si tratta di inezie – diciamo così –
una promozione al lavoro, l’eccitazione per qualche soldo,
una fase di armonia coniugale ritrovata. Che dire.
Almen o così quell’angoscia dei mattini l’ha scampata,
quella premonizione di una fine normale e di una vita normale.
Perché è così che ci si arma di fronte ai creditori,
facendo altri debiti, rimandando i conti.








Nulla di durevole puoi scriver tra di noi.
Lo vedi anche tu.
Il mare cancella ogni volta la pagina.
Gli occhi ti si chiudono ancor prima di guardarmi.
Nulla che rimanga si può scrivere adesso.
A meno di non allontanarsi dalla sabbia
e inoltrarsi verso l’interno.









Improvvisa, una luce mattinale apre una porta.
Non ci incontreremo mai – le disse –
troppo lontana dal dolore,
troppo vicina alla maschera,
quella che io metto per incantare te.
È come nella favola di Biancaneve
con lo specchio delle brame
– ti guardi mi guardi,
ti odi mi odi -,
ma se è questo che vuoi.








Sono rimasto con la mano tra i capelli di mia figlia.
Non riusciva a addormentarsi.
Forse il lupo della favola l’aveva spaventata
o interrogata sulla profondità del bosco, del sonno.
E poi forse chissà, tutti i nostri fantasmi,
così vicini, così lontani…
Sono rimasto con lei, disteso sul cuscino,
dicendoci che i lupi, pure i lupi si trasformano,
diventano mansueti cappuccetti di peluche.
Allora un angelo è passato su di noi – ha detto amen –
Fissandoci in quell’attimo ad amarci per la vita.








Come tutti, io potrei ammazzare.
Ammazzare in modo premeditato o casuale,
una bestia, un cucciolino, un uomo indifeso.
Come tutti, mi rifiuto di pensare che posso ammazzare,
che riesco a ammazzare.
Come tutti, reagisco con violenza a chi mi addita come un mostro,
dico che mi conosco, non l’ho mai fatto, nemmeno ci penso.
Ecco. È questo il punto, certo.
Non pensarci mai,
non avere mai varcato la soglia della caverna,
dicendosi sicuri di non esser Polifemo.








È il momento giusto – mi dico – per scrivere poesie.
Il giorno è andato male.
Il cielo è grigio, minaccioso, domenicale.
Nostra figlia ha tentato di tutto per amputarsi,
cercando di riunirci, asserenarci. Poverina.
Noi due siamo distanti, fermi, divaricati
come le lame dell’orologio.
Di sera, prima di separarci,
ci diamo la buona notte, nemmeno mentendo,
piuttosto preparandoci ad altra vita,
sicuri che l’abbiamo trascinata troppo avanti
questa commedia.









Com’è facile perdere tutto.
Uno si illude che l’amore sia eterno.
Mette su moglie, figli, case.
Dimentica d’un tratto la propria dipendenza.
Poi magari la moglie se ne va,
il figlio semplicemente cresce.
Qualcosa ti riporta alla paura di morire,
ti priva di tutto, ti atterrisce.
Così, senza più metafore.







L’amore vero è intermittente, è ondivago.
Dare braccia vigorose ai remi non è cosa da poco,
non è sforzo che puoi fare di continuo,
tutto il giorno, tutto il tempo.
Remare contro il mare, contro la rotta,
e spesso contro vento.









Immagina.
Sono stato per venti anni in una cella,
una cella molto stretta. Sembrava di impazzire.
Ero sempre in compagnia di qualcun altro
– molte voci, molte ombre, molte ossessioni -.
E molti corpi.
Non riuscivo a star da solo con me stesso, mai.

Poi sono cambiato. Ho incontrato te.
E immagina.
Mi son trovato in una steppa, deserta,
senza nessuno, nessuna.
Mai un eco, una carezza, un vissuto condiviso.
Non ho fatto che restare tutto il tempo con me stesso,
da solo con me stesso. Ecco.
Com’è stato insieme a te.









La vita felice, è quando usciamo insieme per strada,
d’estaste, tra la gente chiassosa che danza o canta,
quando ci fermiamo sotto il portone
ad aggiustarci il vestito dopo l’amore.
Col volto disteso, la mano nella mano, l’umore contento.
O almeno quando ci penso.









Chiudi la lampada, mi dico, vattene a letto.
Cerca di raggiungere tua moglie, tua figlia, quelli normali.
È già passata la mezzanotte.
Cosa vuoi che aggiungano due chiacchiere, ancora,
a una vita sbagliata fin dall’inizio, e mai vissuta.









Quando sono entrato in galleria
avevo gli occhi gonfi di lacrime.
Forse è sempre così, prima di morire,
quando è chiaro che è tutto finito.
Tutto il fragore della vita,
tutta la corsa fatta per raggiungerti ed amarti,
la corsa per cambiarmi.

Ho chiuso gli occhi per non sentire più
l’angoscia e la delusione.
Ho tolto le mani dal volante
per sognare un’altra vita.








Andando tra i banchi dell’istituto Colosimo,
a Napoli, incontri bimbi ciechi, muti, sordi,
con la loro accettata tragica serenità.
Soprattutto trovi i loro disegni, dipinti nel buio,
a tratti larghi e neri.
Grandi facce sconfinate, dalle orbite giganti
come se avessero paura di non guardare abbastanza,
o come per sconfiggere il buio eterno e folle
dentro di loro, e intorno.
Ritraggono gli altri – dice l’istruttore –
così come li sentono attraverso le mani, le strette,
le carezze. Non tanto se stessi.
E colgono la verità.










Nel posto in cui sprofondi
non posso più raggiungerti.
Ci provo, ci riprovo.
Quanto dolore, quanta disperazione.
Le mani si stanno spaccando.
Continuo a picchiare sul portone
ma è inutile, non è nessuno.
Vorrei portarti indietro, nel giorno più bello
in cui qualcuno, almeno uno, ti ha cercata e sorriso,
non ci riesco.

Dicono che questa è l’anticamera,
che dove sei andata c’è la morte.
Là in fondo non posso raggiungerti,
nel corpo, non posso raggiungerti.
Ma sono là vicino, così tanto vicino
che ti abbraccio, ti stringo.
Con l’anima, amore, ci sono.
Ci sono.










Voglio starti vicino
fino all’ultimo respiro,
fino all’ultimo sguardo,
fino all’ultimo sorriso,

così che quando sarò solo
nel mondo, senza te,
avrò preso il tuo fiato
per andare lontano,
avrò messo i tuoi occhi
per andare nel buio,
avrò addosso il tuo sorriso
per attendersi di là.






Stiamo insieme sul divano.
Nel silenzio della stanza.
Chissà a cosa pensi, seppure mi pensi.
Chissà dove siamo, se ancora ci amiamo.
Sembriamo entrambi persi.

Un filo di vapore traversa la penombra.
Lo seguiamo con gli occhi, lentamente.
Vediamo dove ci porta.









Oggi la tempesta è passata.
Qualunque insulto o maledizione
ci siamo lanciati oggi è schiarita.

Finalmente ho capito
che quando mi arrabbio con te
è perché non ti capisco.

Dietro le nuvole confuse della demenza
non trovo più la mia stella.
con cui dialogare.

Finalmente ho capito
che quando mi arrabbio
è perché ti ho perso,
e sono disperato.







Mia figlia fa le bolle di sapone.
La inquadro di lato,
con il cielo sullo sfondo.
Fa le bolle e sorride,
sembra felice.
Fa le bolle e d’incanto
tutto vola lontano,
gli alberi, le macchine,
gli amanti nei dehors.
Ne afferro anch’io qualcuna.
Mi sto innamorando.








La rosa nel giardino è invecchiata.
Anni fa, quando l’abbiamo piantata,
sembrava così insolente.
Una forza incontenibile e ottusa
la spingeva ad alzarsi da terra,
a fiorire nella neve, a ferire.
Adesso, è così affranta, così debole.
Ogni soffio di vento la atterrisce,
ogni raggio di sole la fa schiudere,
ogni piccolo pioggia la trafigge.
E talvolta viene oglia di estirparla,
per non farla più soffrire.





Ho contato i passi della camera da letto.
È stupido – se vuoi – incomprensibile.
In fondo ci viviamo da vent’anni.
Non so perché l’ho fatto.
Disagio forse, malinconia, premonizione.
Non mi ero mai accorto di quanto fosse vasta
la nostra stanza fino a quando ho allungato la mano
per fare pace
e non ti ho più trovata.









Se abiti ai piedi di una montagna
prima o poi ti verrà di scalarla
per vedere cosa c’è al di là.
È umano.
Protendersi in avanti,
nel cielo, nel futuro.

Dopo gli anni però, ti ci abituerai,
riterrai normale vivere al suo riparo.
Anche questo è umano.
Accettare di convivere col rischio,
con l’ombra, la solitudine.









Immaginare come sarebbe la vita
se solo sapessimo volare;
domandarci le cose senza ferirci,
passeggiare senza fuggirci,
stendere le mani per sollevarci.

Quando proprio non c’è altro,
immaginare è già abbastanza.









Oggi maggio finisce.
Il mese più atteso,
quello che t’aspetti da più tempo
pensando che certo la primavera,
il prato fiorito, le lunghe giornate.
Poi capisci che anche stavolta
l’occasione è sprecata,
è un anno uguale all’altro
amore, delusione, disamore.
Solo qualche raggio di sole
timidissimo, fugace,
per dirti tanti auguri
e buon compleanno.

Disamore, poesie 2016-2017. La Vita Felice, Milano 2021

Rosso. Interludio, 2018-2019

Sono un volatore.
Trasmigro tra le nuvole nere dell’oblò
quando il mondo dorme.
Son costretto a volare, certo.
Presto o tardi, l’inverno ricade sul nido,
e allora bisogna tornare indietro,
trovare un comignolo.
Dire che il viaggio è stato duro non è corretto.
Ma che ad ogni stagione si perdano
voci e baci e incontri, questo sì che è vero,
e non è poco, l’incerto.












Stavo per scriver “rosso fine”.
Come titolo pareva efficace.
Rosso è quel sangue rappreso
che asciuga nelle vene.
Dopo la guerra, dopo le ferite.
Rosso va bene allora. Non lo vedi.
Secoli interi di solitudine nascosta dai vetri,
venti di aquile che sferzano il cielo
e ancora siamo qui a litigare,
però della fine – dici – non voglio parlare.








Ti amo come può amarti un vecchio,
in quel modo patetico dei vecchi,
con quei baci gaglioffi dei quali
non resterà nulla.
Una mezza storia insomma,
eppure con l’imbarazzo che uno lo veda
come siamo diventati…
Un relitto profondo,
tra due mari profondi e distanti.










Chiuso lo sportello della macchina.
Via, lento verso casa.
Estate. Cicale. Condensa nell’aria.
Stanchezza, perfino di pensare.
Non sono più adatto a questo mondo.
Troppo diverso, troppo lontano.
L’aria mi chiude i polmoni.
Sono arrivato.








Siamo troppo feriti.
Siamo schegge di ruggine.
Ci siam sputati addosso
tutto quello che pensiamo.
E dopo, tutto è stato chiaro.

La distanza ha dissipato la storia
il piacere, il passato.
La rabbia ha bruciato l’amore.
Un silenzio pauroso, lontanissimo,
è rimasto.









Di me dice che sono un violento bamboccio
suburbano, che ho bisogno di includere.
L’ho preso da mio padre.
Di te dice che sei un’ingrata bamboccia
provinciale, capace di escludere.
L’hai preso da tua madre.
Ce l’ha detto il genetista,
studiando le carte.










Ho sempre sognato di stare insieme,
di vivere insieme.
Forse per non farmi spaventare dalle onde
del vuoto che improvvise mi assalgono.
E non solo noi due, ma tutti insieme
– noi, loro, miei, tuoi, madri, padri, amici, nemici -.
Un insieme che termina col mondo intero,
se solo ci penso, o col tuo disgusto,
quando torno a casa e fa buio presto.












Passo le sere a chiacchierare.
Tavolo amici vino.
La felicità si riduce a questo, in fondo.
Le parole scorrono oziose e esagerate.
D’altro canto, tu non hai niente da contare.









Non so cos’abbiano i tuoi occhi.
Odio, costanza, pentimento,
inganno, seduzione, malinconia.
Ma tutti i giorni ci penso,
Mi dico che prima di finire
voglio sparirci dentro.
Fame d’aria, dolore, nostalgia.












Eccolo il buio dalle persiane.
S’infiltra nella stanza,
prende il posto di quel poco che rimane
di un amore.
E tu non dici niente, perché è chiaro
che siam fatti a stare insieme,
adesso, dopo vent’anni, dopo una figlia.
Ma questo è il nostro modo di strafare,
parole che conseguono a parole.
Non c’è successo nulla veramente.
È questo il male.









È appena un lampo questo sorriso?
Questo brivido che mi hai lasciato
sotto il tetto, così, salutandomi?
Perché io invece mi riparo da un temporale,
mi preparo per l’amore e per il male.











Mi ero preparato
le dita per toccarti
gli occhi per guardarti.
la bocca per baciarti.

Ma questi fiori della notte
non vedranno il mattino.
Vattene. Fa’ presto.









Che c’è?
Non è niente.
Le parole si possono dire, si devono.
Un bacio è solo un bacio.
Dopo, ognuno rimane se stesso.
Più ricco, meno violento.











Cado. Mi illudo. Cado.
È questa l’altalena della vita.
In questa solitudine continua
mi giro, e non trovo il tuo sguardo.









Se vuoi trovarmi, cercami dove non sono,
dove non dovrei stare, non dovrei dire,
non dovrei fare.
Probabilmente è lì che mi trovo,
con tutta la verità che nascondo.










Ma tu quest’amore l’hai buttato,
giù, con leggerezza,
come si butta un fazzoletto dal balcone,
sudato, dopo pranzo.
Uno dopo l’altro, uno fra i tanti.
Appena usato.









Quando hai un buco libero da impegni,
tra un amante e l’altro, una fuga e l’altra,
scrivimi, chiamami, ricordati di me.
Sono il tuo desiderio inesausto, il tuo bene.
Sono il filo che traversa le perle, e le tiene.











La prima volta che ho capito
di amarti davvero
è quando ti stavo tradendo
eppure a te pensavo.








Dì parole chiare, lapidarie.
Ti amo. Non ti amo.
Questo o quello.
Non tremare.










Fece la pace la guerra l’errore
l’unità la divisione. Fece l’autunno.
Ma il giorno dopo sulle mani
aveva ancora quel profumo
che l’amore avea lasciato.









Provo a capire come sarà la vita
quando sarai cresciuta,
quando il sorriso che mi consola
sarà lontano, quando il senso e lo spazio
senza la tua musica sarà vago.
Provo a capire come sarà la vita
quando si è liberi di andarsene via,
trascinati dal tempo e dal mare
come una conchiglia.











Se ci fossero ancora le solitudini
vorrei costruirci un faro,
e restarmene nudo e silenzioso assieme a te,
a guardare le navi che di notte si perdono,
o che pagano il prezzo mortale
del più folle desiderio.









Oppure è un interludio tutto questo,
sì, ci voglio credere.
Appena mi guardi dimentico tutto,
appena mi tocchi, mi chiami, sorridi.
Sei la rosa bagnata in cui torno,
e io sono il drogato di sempre.

Rosso. Interludio. Poesie, 2018-2019
Raffaelli Editore, Rimini 2022

Prepararsi alla fine. Poesie 2022

Qui il viaggio finisce,
perché ogni viaggio finisce,
e occorre prepararsi.
Lasciare la piazza del borgo
in cui si è stati felici, aperta sul mare
graffiata dalle voci degli amanti.
Andare verso la scogliera
dove il mare si chiude tra due ali di roccia.
Lì lo sguardo diventa piccolo,
il tempo sembra fermo
e grande è il silenzio.
Perché il viaggio finisce,
e occorre prepararsi
alla fine.





Stasera mi tieni la mano,
mi carezzi come una bimba,
forse avvertendo la fine vicina.
Il locale è superbo,
l’estate, la cena, gli amici di sempre.
Io sono lontana, angosciata.
Cammino sopra un ponte tibetano,
mentre parlo sorrido rimpiango.
La mia storia è minima.
Non so dove vada, verso il buio forse.
A trovare Orfeo, sperando che lui almeno
si accorga di me.





Com’è bello quel bacio,
ieri, a teatro. Dolce, inaspettato.
Hai indugiato sulla mano come una farfalla.
“Guarda che ti amo” – m’hai detto -.
E i miei occhi si son chiusi nuovamente,
per sognare.
Sognare che un giorno troviamo l’amore io e te,
nel cielo dei giorni che adesso ci invitano,
e che il buio non ricopra i girasoli
che attendono la luce.





Non ti vesti più per me, si vede.
Una volta ti svegliavi appassionata
e le gonne più belle, le stelle
rivestivano il tuo corpo.
Adesso sei sbadata.
L’amore è passato, quel fragile papavero
che poco perdura è soffocato
dal grano, dai fagioli, da cicorie.
Così arriva la fine, senza ragione,
nel ciclo naturale di ciò che nasce, vive
e muore.




Le sedie vecchissime di vimini,
lasciate in campagna,
un asse anni ’50 coperto da una cera,
rossa e bianca.
Il vino, le fave, il pecorino.
Le voci degli amici e le cicale,
le lampade gialle, i fichi, le zanzare.
E tutta l’abbrezza di amarci ancora
dopo un secolo,
l’ebbrezza di trovarci a raccontare
che la fine vissuta insieme
non è il finale.




L’ultimo paesaggio che avrò negli occhi
sarà quel giorno in cui mi hai fatto entrare
dentro di te, nella camera sul mare.
Tu eri l’incarnata libertà che avevo sognato,
e io, chi ero? Mia figlia, mia moglie,
gli amici i fratelli le madri e i padri,
tutti quelli con cui io stavo in pace.
Ti ho chiesto se c’era un posto
in cui trovare senso, in cui sentirsi amare.
Hai chiuso gli occhi, m’hai fatto entrare.




Scrivendo sul muro
ho provato la durezza dei mattoni, le asperità,
le schegge di vetro che tagliano le mani.
Volevo scrivere il tuo nome,
come si fa a diciott’anni per non dimenticare.
Poi le cose son cambiate.
Era troppo difficile impegnarsi nell’amore.
Son rimasto a guardare contro il muro
la bellezza delle lucciole.




Mia madre è lì, sul divano,
la vecchia.
Guarda dai vetri il suo nulla
e chissà se ricorda,
se ancora ci crede all’amore,
alla gioia dei figli,
se ancora ci spera.
Tu entri distratta, la superi in fretta,
come la vita d’altronde, come il tempo,
non saluti, non la vedi.
Così fa la morte – mi dico –
ignara e sleale.
Non guarda, non ride, non abbraccia.
Prende, non ringrazia.




Non lo vedi che quel lume è troppo debole,
lì, sull’angolo del tavolo addossato alla finestra,
al cielo che scurisce o che fa festa? Spegnilo,
seguiamo l’orario dei vecchi che cenano presto,
di modo che si abbia un po’ di tempo
per credere negli angeli e metterci a letto.




Estraneo, lo sono sempre stato.
A partire dai compagni di classe
con cui mi strapazzavo, studiavo o cazzeggiavo.
Mancava qualcosa per esserne parte,
un animo illeso, una gioia ereditata.
Eppure, qualcuna mi ha amata,
e questo per un poco ha annacquato la distanza.
Poi si sa, gli amori imbruttiscono,
l’amico sparisce, i figli fanno guai,
ed essere estranei significa trovarsi da soli
in un mondo di dinosauri.





Mi piacerebbe diventar vecchio
andando per borghi, per luoghi già stati,
per mari e poderi che una volta ho visitato.
Mi piacerebbe andarci d’estate,
nell’ora in cui la gente dorme,
e non senti che cicale.
Mi piacerebbe pranzare su un tavolo piccolo,
un pezzo d’agnello, un bicchiere di vino.
E stando seduto, ciarlare coi morti,
mio padre, mio zio, l’amico più caro. Ecco.
Mi piacerebbe diventare vecchio
come un pezzo di pane lasciato sul tavolo,
tra gli avanzi ed il resto.





Ho trovato il cammino a poco a poco.
È stato lungo, faticoso.
Ogni amore, ogni padre, ogni amico
ch’è mancato mi ha reso più vuoto.
Sono quello che è rimasto di me,
mettendo parole una sull’altra,
per colmare la falla.
Appartengo ai poeti adesso,
ma è un vortice di anime
che si amano perdendo.





Mezzogiorno. Rintocco di campane.
Per strada c’è il vuoto, il deserto.
Lei guarda dal balcone rovente di un’estate.
È in abito da sera, elegante.
L’altro è seduto su un gradone della chiesa,
in giacca e cravatta, all’ombra di un lampione.
Non si aspettano più niente.
Si preparano alla morte.





Devi arrivare alla fine per dire chi sei,
se hai amato qualcuno,
se hai creduto in qualcosa.
Devi arrivare alla fine per dire
se è bisogno o passione.
Prima, il caso e la fortuna ti confondono,
e puoi solo sperare di arrivare
fino in fondo.





Parlare di te,
scegliendo i precetti più veri,
silenzio, perdono, assumersi il torto.

Attendersi. Fare posto all’ignoto.

Tenersi per mano ogni giorno,
anche dopo.

Non scordare. Da te ho appreso l’amore.
Non smettere. Da te ho preso a resistere.
Ringraziare.

Chiudere gli occhi, e venirti incontro.





Scrivo, sul taccuino della notte.
Le voci basse, le luci fioche,
poco o niente da svelare.
È così che impariamo a inoltrarci
nel mare, nel buio, nel tempo.
Precede la morte, la fantasia.
e il tuo amore, vita mia,
è la guida per l’eterno.





Guardo la scena da lontano. È estate, ora di pranzo.
Siamo al tavolo del nostro ristorante,
una di quelle volte in cui stiamo insieme, tu e io,
e ridiamo, giochiamo, ci stringiamo, amico mio.
Il Bene siede in mezzo a noi, con sua moglie Felicita.
E il tempo passa spavaldo, sfidando pure Iddio.
Guardo la scena come fossi lontano,
da un balcone, un proiettore, un aeroplano.
Adesso che non ci sei più, le cose sono memorie.
La Morte ci caccia dal tavolo, come a dire –
andatevene, basta, altra gente ha prenotato -.




Basta che tu volga lo sguardo,
e io mi sento perso,
come se qualcosa stesse arrivando,
qualcosa di angosciante, che mi fa sentire oppresso.
È che tu sei il ponteggio che mi àncora alla vita,
e se ti allontani, se sciogli la cima,
io resto una zattera,
che vaga alla deriva.





Se vuoi prepararti all’approdo
devi farlo seriamente,
altrimenti corri il rischio di affogare.
E il segreto è far le cose lentamente,
rileggere ogni pagina di quello che hai scritto,
rigo per rigo,
considerare il bene che hai fatto, dall’inizio.
Su tutto, provare l’amore che hai dato e ricevuto,
gesto per gesto, minuto per minuto,
in modo da comprenderlo più a fondo.
E forse così puoi giungere sereno nel porto.





Ci si potesse ubriacare prima morire
sarebbe bellissimo.
In fondo l’incoscienza ci rende più veri,
capaci di concludere,
e in fondo c’è sempre una crepa nel muro
grazie al quale anche l’oscuro ci pare prezioso.
Oh, sì. Potessimo sciulare nel bel mezzo di noi stessi
saremmo tutti ragazzi, poeti ed amanti.




Il balcone è spalancato. L’aria stenta a entrare,
come in chiesa quand’è estate.
Mia madre è sul divano, invecchia qui accanto.
Nessuno di noi ha più voglia di parlare.
Tutto quello che c’è stato adesso è nelle cose,
disposte per casa come in un quadro,
– il vaso di gerani ormai sbeccato, un cesto di frutta
sul tavolo, un avanzo nel piatto -.
Così diventa l’amore, tra due anime dannate.
Una sacra natura morta.





Se è vero che mi ami, non dirmelo più.
Le parole stancano. Tutte già usate.
Usa le mani, le braccia, la bocca.
Stringimi, baciami, sorridimi.
E soprattutto, apri gli occhi,
fammi entrare.




Metti in tasca un fiammifero,
ti servirà a ritrovare la via
se ti perdi di notte.
Tieni in tasca del sughero bruciato,
ti servirà a nascondere gli occhi
quando mentirai.
Conserva nella piega della tasca
una penna, un chiodo, una lama,
ti servirà a incidere sul muro il mio nome
quando lo scorderai.




La vecchia passa le giornate sulla sedia di vimini.
È il suo posto nel mondo, il suo nascondiglio.
Guarda la vita che scorre col suo saliscendi,
le voci dei passanti, e chissà se vede,
se ascolta davvero o si perde nel ricordo, demenza,
stanchezza.
Gli altri, le passano accanto con lo stesso falso zelo
– Stai bene zia Mè -? Se ne fregano.
È un centrino fuori moda, lei, un libro da posare.
Un libro di storia, quando la storia diventa
ingombrante




C’è sempre qualcuno che rimane per ultimo.
Quaggiù, si tratta dello scemo del paese,
quello senza soldi, senza figli né mogli.
È solo come un cane.
Passa il giorno al camposanto, non sa dove andare.
Noi morti gli sorridiamo, lo ringraziamo.
Spazza le foglie, aggiusta corone,
riaccende quei lumini che il vento ha soffocato,
e quando è l’ora di andare, viene a dirci buonanotte,
chiamandoci per nome,
come nessuno ha mai fatto nemmeno da vivi.
E noi lo salutiamo, come un fratello, come un amico,
come il prossimo dimenticato.




M’insegui con gli occhi,
come fanno i cuccioli in cerca di sguardi
o di amore.
Mi chiedi se finisce tutto questo,
come i cuccioli tremando,
quando i grandi se ne vanno e rimangono da soli.
E io non so se termina la strada,
o se potrò tornare.
Però ti lascio tante briciole per terra,
così puoi ritrovarmi, un’altra volta,
un’altra vita.




Il foglio bianco. La luce strana.
Sul tavolo, un bicchiere di aranciata,
bevuta chissà quando,
un’agenda ancora bianca,
il tempo fermo d’orologio alla parete,
una penna con cui non so che fare.
Oggetti che sanno di noia,
un mondo che forse una volta…
Una natura morta.




Oggi parto per le vacanze.
Non è più come una volta, lo sai.
Il mare se n’è andato,
la festa patronale ha disertato,
l’amico mio d’infanzia è morto presto.
Ma io parto lo stesso.
Vado a vedere i luoghi fantasma,
gli spazi deserti, i ricordi mancanti.
Devo scegliere il mio vuoto
per l’estate.




Udire il favonio tra gli alberi stormire,
vedere nei campi la danza dei papaveri,
sentire il profumo di pesche e di fichi,
avvolgersi dell’aria che si alza tra i capelli.
L’estate è un corteo di frutti magnifici,
di rossi e arancioni vivacissimi,
di essenze e di piaceri così intensi che tu cedi,
stupisci, t’immagini una vita
che invece svanirà.




Sul taccuino dei giorni infelici
metterò tutti i ritorni a casa,
dopo l’estate, dopo l’infanzia,
quando la luce si abbassa,
le ombre si allungano,
e sull’uscio di un inverno che non passa
ogni mattino ravviva l’angoscia,
ogni rientro acuisce la mancanza.




Il mare.
Il mare d’estate, il mare d’inverno.
Il mare che si agita e stanca,
che oscura e ruggisce.
Il mare da soli, senza ricordi,
senza più tempo,
senza ombrelloni.
Il mare e il mare.
Il mare e basta,
quand’è tempo di stare,
lasciar andare.
Il mare.




Sotto il tendone ce ne stiamo,
aspettando che il vino e l’amicizia
faccian la sua parte,
a spulciare il tempo e la memoria,
a trovare l’amore.




Addio.
Questa è l’ultima volta che ci vediamo.
Dopo, sarò nient’altro che una voce
per te, un soffio intermittente,
un pensiero, una roba qualunque.
Tienimi dunque,
come una rosa tatuata sulla mano
che avvicini alla bocca, distratta,
mentre viaggi lontano.





È il verso scartato dall’autore,
il brano eliminato dall’album,
è quello fatto fuori dal branco.
Così va il destino.
Però che peccato.
In quello scarto c’è stata la vita,
c’è ancora l’incanto.





Eccomi arrivato finalmente sulla cima.
Un’aurora mai vista, lo sguardo sull’oceano,
un sussulto mozzafiato, bah,
chissà che mi aspettavo.
E invece, il vento è ghiacciato,
le aquile reclamano carne e spazio,
la paura di cadere mi stringe il petto,
mi toglie il fiato.
Ogni volta che tocco il cielo,
capisco di esser fatto per il baratro.




Dammi la mano, amore mio, e dormi.
La notte ci accoglierà tra le stelle
se stiamo insieme,
il sonno sarà dolce, il risveglio porterà gioia.
Dammi la mano allora,
e stringimi nel sonno, stringimi al risveglio,
stiamo insieme, ancora.





Questo libro si ferma qui,
come si ferma un’estate, una vita, un amore.
Non perché vi sia più niente da vivere o da dire
ma perché semplicemente prima o poi
qualcosa deve, o capita, e insomma s’interrompe.
Si ferma il battito. Il mare si placa.
Un popolo migra, silenzioso. Cambia la storia.
E un giorno riprende. Se riprende.
Sarà emozione, verità, testimonianza.
Sarà nuova poesia, la vita.

Prepararsi alla fine, poesie 2022, di prossima pubblicazione.

Lettura critica di Stanze di un matrimonio

“Stanze di un matrimonio”, di Hans Raimund (Editore Mobydick, Faenza, 1997, a cura di Augusto Debove; prefazione di Gabriella Rovagnati), è un autoritratto. Compiuto, fiammingo. Una di quelle tele ampie, scure, sacrali, dai colori contrastati, pastosi, stagionali.

L’interno di un amore, di quelli che valgono una vita, che stanno al posto del mondo.

A differenza che in altri passaggi poetici, in cui il poeta focalizza e dettaglia la sua casa di Vienna o quella in campagna (Fuggiasco ma con amore, scritti anche su Trieste; Villeggiante a lungo termine; Ventriloqui viennesi), qui la casa in se stessa, l’ambiente domestico reale, non è l’essenziale, poiché il mondo si risolve nell’immaginario di un matrimonio, in ciò che succede nella dimensione delle relazioni, come nel film di Bergman “Sussurri e grida”. In questa pellicola di Raimund, le biografie si intrecciano in una storia che dura da vent’anni; i conti si fanno nella rievocazione narrativa, e il conto è “in pari / Ne è valsa la pena” (“Indebitati fino al collo”); torti e ragioni, rotture e riparazioni si susseguono come in una partita silenziosa e infinita di scacchi.

Nell’aria c’è odore di Schubert, di piani e forti che incedon burrascosi: “Davvero ho un buon orecchio per il Piano Sempre / Il Crescendo graduale con ostinati Sforzandi sincopati / Fino al controllato Forte – inafferrando – Il tre-effe Fortissimo che si rovescia / Nel Piano subito – très doux avec langueur -… così / Seccamente contornato senza pedale” (“…La scarsità delle tue parole”); sequenze e sequele di ambizioni frenate dalla vergogna, dalla pigrizia, dalla colpa.

Qui, il fuori non fa’ che da sfondo alla relazione d’amore, benché questo paesaggio sia animato, sgargiante e rado come le doline. Come Duino, il suo porto, la sua bora che importa odore di salsedine e “un gusto” di nafta, oltreché di pioggia e di erbe. Oltre la finestra, oltre, ci sono “i soli gialli / Dal cuore nero pesanti sullo stelo…” (COS’ALTRO CI RESTA”); c’è il rosso d’una rosa che permane alle stagioni: “E quando il gelo della notte / La vita delle piante già da un pezzo / Ha ucciso risplendono ancora sui pallidi / Scheletrici secchi rami i tuoi frutti vermigli” (“TU SEI COME UNA ROSA”); c’è il verde d’una donna tutta “Verde dalla testa ai piedi così da parte a parte / Verde è tutto di te intorno a te indosso a te / Verde il Paradiso  di verde diaspro / Dicono il trono del nostro Dio” (“Il leone Verde”); ci sono tutti i colori di un arabesco composto con cura, dall’interno, non quelli di un arcobaleno, più naif e immediato, ma quelli ricostruiti sulla tela dal pittore, guardando di fuori, rifacendo una natura mai stata propizia o madre.

E sopra, sopra i vetri delle finestre, sopra tutto, un vai e vieni di stagioni rapide, di nubi minacciose, sconforto ed euforia, l’inverno che ricorda ciò che rimane della vita; l’estate che va riacchiappata, perché sta fuggendo.

In questo autoritratto, la vita è dentro; non si compone da congiunture esistenziali; si anima del proprio pulsare affettivo. La casa, la stanza, sono ferme; eppure “Il contatto di occhi orecchie naso mani piedi / Con la persona della casa: i muri che respirano / I pavimenti di legno scricchiolanti gli odorosi / Di cera d’api cassettoni l’armadio tutt’intorno / Di papaveri pinto e dentro / Niente i bicchieri pazienti i piatti sulle mensole / Il fuoco di giornali umidi e ciocchi / Di faggio il calore che così profuma…” (“Di qua non passa mai nessuno”).

Dentro, al centro della tela, c’è il tavolo grande, ch’è insieme tavolo e letto, altare e scrittoio. Luogo della relazione tra lui e lei, della prigionia di lui con lei, perché a quel tavolo si resta seduti; è uno spazio di libertà, perché su quel tavolo regna il disordine, si affastellano i ricordi, i racconti, le risate, le rotture; uva, mele, cioccolato, rotocalchi, funghi porcini: tutto ciò che lui porta da fuori e che lei “mangia finché non s’addormenta”; tutto ciò che lei raccoglie per lui e per loro. E allora, “Che cosa può la mia per giunta solo/ Libresca piccola Ars Amandi contro / tre chili di porcini?” (“NON CACCIATRICE RACCOGLITRICE SEI”); di fronte al raccolto, alla primavera, al mondo, ai frutti, ai fiori colorati e odorosi?

In queste “stanze di un matrimonio”, il tavolo centrale, sacrale, è avvolto dal silenzio, da un velo palpabile; il silenzio che precede una schermaglia, una separazione; quello che segue una conversazione; l’ironia tagliente, il desiderio non condiviso, non raccolto, rimasto nell’aria, sui porcini; la riflessione fugace su quanto abbiamo vissuto – quasi fosse un merito, un fatto di tenacia e non anche questione di fortuna – o quanto ci rimane. Luce di una candela che si consuma o, addirittura, Lei spegne prematura, lasciandoli al buio: ”Vent’anni! LA NOSTRA CANDELA / brucia ancora! – È quasi sempre bruciata / Da una parte sola… […] Tu / disturbato leone nella tua / Pace con forza vi ponesti / Fine […] Spegnesti / Tra due dita bagnate di pianto / Una delle due fiamme” (“Variazione I”).

Lui e lei, intorno al tavolo. Insieme.

È questo l’autoritratto, lui e lei: che poi è uno. È lui, ritratto in lei, “l’uno con l’altro”, “l’uno nell’altro”. Come nel Caravaggio, la luce grigiastra del Carso (della coscienza) attraversa le grate e raggiunge Franziska, metà del suo viso, ne illumina il profilo; un chiaroscuro di donna ch’è insieme il doppio di lui e la metà di lei; l’uno e l’altra, di fronte; lui di fronte a lei: Franzi, “leone” o “elefante”; Hans, “mosca” o “chiocciola”; lei truccata, arruffata, contrastata: un parlare pacato che all’improvviso ti grida contro: “gemiti grida scalpiti furia / Stranamente domate d’un tratto abbassate al minimo / A singhiozzi sospiri immobilità silenzio… “ (“…La scarsità delle tue parole”). Lui dimesso, accanto a lei, rifiutato, abituato al rifiuto. Raccoglie l’ombra, al massimo, “come Nabokov raccoglieva farfalle”. Lei, reale, concreta, in presa diretta; gesti e smorfie da “bambina affaccendata”. Lui riflesso, lento, allenato a “schivare al momento giusto una manciata / Di prese a rovescio di finte preparate allo specchio…” (“Da pazzi stare attaccati l’uno all’altra cos’”)! Lui che ama il vecchio, gli antenati, le nozze d’argento “Ti concedo queste pause volentieri / Dovunque io viaggi viaggio sempre / A casa da te… Tu ami il vecchio l’antico / Gli antenati le nozze d’argento d’oro / Le elegie di Marienbad i pranzi / Su ben apparecchiate tavole… cerimoniale / Vuoto ormai di senso ma ti dà sicurezza” (È solo una questione di ore”); un cerimoniale vuoto che pure da’ sicurezza, per quanto velato di scetticismo e disincanto: “Il fiore senso per me non è mai sbocciato”. S’è invece racchiuso e vissuto all’interno di lei, nel suo bocciòlo, nel suo fiorire tenace di rosa che non si “strappa dal suolo”, che resiste all’inverno del “gelo” (“Tu sei come una rosa”). Eppure, l’ombra nella quale lui sta è il vero suo posto: dietro di lei, dietro la porta, dietro la finestra, dietro la frontiera, lo schermo, lo scrittoio, dietro la nostalgia, del padre, di Vienna, la carriera da musicista. Il posto del desiderio, riposto nell’altra, nell’amata, da cui dipende, quella che da più di vent’anni sta lì da testimone di ciò che lui non sa, non osa sognare o dire.  Il posto dell’ombra, affianco a lei.

È il posto della scrittura, dove l’alterità si ricompone senza negare la differenza: “La confidenza con te sempre ancor straniera / L’intima conoscenza dell’altra faccia / Nell’esserci di ogni giorno…” (CON TE AMORE NON è STATO).

La poesia permette di cogliere l’amore al di là dell’apparenza, “sentire il segreto dietro l’assenza di segreto”. La stanza della poesia permette “di “Presagire (non sapere) la realtà dell’apparenza / Di essere l’uno nell’altro, protetti per un poco / E non nei secoli dei secoli…” (Ibidem).

È questo, “Stanze di un matrimonio”.

Un autoritratto dell’altro. La raffigurazione di un amore che muta l’effimero dell’esistenza in verità e unicità. Il senso di un’esistenza ritrovata nella relazione, rinunciando alla difesa della propria individualità, “perché lei non ha nessun nome”.

“Tu sei tutta la metà di me. Mi permetti di essere, davvero”.