Chiara



Entra, siediti, accomodati.
Così a lungo sei rimasta nel serraglio
ch’è quasi un miracolo vederti ancora viva.
Qui puoi sederti, e temere più niente.
Qui non ci sono più guerre tra maschi e femmine,
non più figli da crescere o madri da far vivere.
Non ci sono mariti da far schifo.
Tutto si è trasformato in questi anni, fuori di noi e dentro,
come se un cataclisma ci avesse trasmutati
al punto tale da averci ibridati.
D’altro canto, non è questo il destino di tutti?
Non è la metamorfosi – impensabile all’inizio -,
a cui siamo dannati?
Anche la tua mutazione è stata profonda,
mi pare, che quasi mi hai scioccato sulla porta,
quando sei arrivata.
Anche tu, amore mio.

Quando ti ho conosciuta mi presentasti subito,
una foto che mostrava Ifigenia,
una giovane bellissima e vera, così inquieta dietro la maschera,
e così allegra e ventenne fuori,
una soubrette televisiva tipo Carrà.
E come potevamo non incontrarci, noi, così simili
così destinati a ruotare attorno ai nostri tormenti,
alle nostre famiglie, al nostro asse?
Come potevano due stelle come noi non collidere?
Stelle, o forse satelliti dovrei dire,
perché non abbiamo mai avuto la dignità di corpi autonomi;
siamo stati vincolati alle nostre rivoluzioni,
tanto inutili quanto necessitate,
ai nostri pianeti familiari, così giganti e instabili
da esercitare su di noi un vincolo simbiotico.
E tu avevi già il tuo pianeta familiare,
quando ci conoscemmo.

Ricordo il tuo sguardo, la prima volta che arrivasti
da me in reparto.
Il tuo portamento sembrava quello di una sacerdotessa
segnata da anni di accudimento a una Dea.
Il tuo corpo era forgiato nel marmo,
una di quelle statue nella quali riconosci la perfezione
e la tristezza che c’erano prima, quando la statua era una bimba
e avrebbe potuto correre e gridare, gioire e amare… e invece,
eccola là, immobile, tenuta nel museo di una famiglia,
o forse in un tempio, vestita di quella fissità immota
che rende le statue e le donne, benché prive d’abiti,
più coperte e soffocate di una suora.
Malgrado quella posa compassata, in te riconoscevo i segni della vita,
una rianimazione possibile, purché fossi riuscito ad estrarti
da quel abito familiare che ti aveva pietrificata.

Così sei stata, per anni, triste, svalutata, confusa.
Dicevi di te stessa di essere brutta, ma gli uomini sbavavano;
dicevi di essere una tosta ribelle e scatenata,
ma dentro eri bloccata;
dicevi di amare i Philosophes, e Sartre e Simone,
ma dentro, dietro la foto coi capelli a caschetto
e lo sforzo di sorridere, avresti pianto, avresti invocato qualcuno
per fuggire lontano.
Ti rifugiavi in discoteca, in qualche angolo,
mentre le compagne di classe esibivano la propria giovanile
spudoratezza. Tu invece dormivi o ti dolevi, da sola,
nella sala da ballo.
Mio Dio, amore, com’eri severa con te stessa.
Dentro di te bollivano i desideri di una ragazza che s’affacci
alla bellezza, al desiderio, alla cultura,
ma a te tutto questo era interdetto.
Potevi soltanto correre in un angolo di casa e ascoltare Nevermind.
Potevi finger di ballare in discoteca, ma solo per guardare
da lontano, sopra un trespolo.
E quando un giovane inviato dal Fato era giunto per rapirti,
non hai potuto che innamorartene.
Così è successo. Davide ti aveva stregato, e tu ti sei lasciata
conquistare completamente al vostro amore, al suo desiderio.
Immagino i giorni felici, le corse per vederlo,
la tua passione per l’eroe che aveva sfidato la madre.
Immagino l’eccitazione e il desiderio di fare l’amore,
la prima volta, a casa sua. Ti eri vestita scegliendo con cura gli abiti,
gli stessi da togliere in fretta, da lanciare per aria non appena
la sua mano su quel letto così bello…
L’amore ti era apparso sotto una luce mai vista.
Lui era l’amore del primo giorno.
Era il corpo che si bagna, se solo ti guarda.
Tutto di lui ti attraeva,
quel modo di portare le spalle diritte, quel modo di parlarti
come si parla a una ragazza mentre si gioca su un ring
a tirar pugni per finta, per gioco, perché la sola verità
è che ti amava e tu l’amavi, e mai più avresti smesso.
Che bello quell’amore, luce di primavera, e che bello quel corpo,
quel legame reso forte dal desiderio.
Non fosse per l’adolescenza capricciosa che tutto confonde,
quell’arciere bellissimo l’avresti sposato.
Ma a quel tempo eri giovane
e ancora te stessa, diversa.
Lui cominciò a diventare bizarro, ad essere duro;
Tu cominciasti a essere isterica, a imporgli la tortura.
Le liti e i finti ricatti per farti rincorrere
erano il tuo grido d’aiuto perché non ti lasciasse.
Era troppo turbato, lui, per provare a comprenderti.
Eri troppo angosciata tu, per sfidare il divieto
e lasciarti afferrare.
I pensieri di una Dea vendicativa si insinuarono dentro di te
E tu cominciasti a mutare consistenza, diventando più dura.
La punizione doveva essere esemplare, perché la trasformazione
in sacerdotessa, e poi in statua, fosse accelerata e completa.
Gli occhi però ti furono lasciati,
per essere guardata e specchiarsi.
Così, quando arrivasti al Servizio nel quale lavoravo,
eri perfetta, fasciata di bianco, un esempio di compostezza.
E quanto ci ho messo per innamorarmi di te?
Poco, pochissimo, Chiara.

Eri seduta con la schiena vero l’ingresso del day hospital.
Di te vedevo soltanto la divisa, il caschetto,
biondo, ieratico, sixtheen. Nient’altro.
Non sentivo e non sapevo niente altro.
Ma gli occhi si muovono, col desiderio, si spostano,
ci vengono a cercare.
– Sei tu amore? Sei tornato? Sei proprio tu, mio Zeus?
Allora guardami, sono io, Chiara, la tu sposa,
Qui mi chiamano così, in questo tempo, in questo posto.
Mentre non c’eri, ho dovuto accettare di fare la brava;
Sono stata ubbidiente, ho fatto sport insieme a mio padre,
ho giaciuto con un uomo che non amo,
ho fatto l’infermiera per stare sempre a casa.
Perdonami amore, comprendimi.
Comprendi quanto è dura trasportare quella maschera di marmo
sulla faccia, per non vedere, per non baciare;
portare quel filo di ferro passato all’uncinetto tra le labbra,
infibulata, inibita, pietrificata.
Lo so che mi ami, lo vedo nei tuoi occhi che non mentono,
nella voce tua che trema, nelle lettere che scrivi.
Portami via di qui, senza preavviso, senza esitare.
Rapiscimi, non lasciarmi in questo gorgo di tristezza
in cui i lineamenti si vanno inaridendo.
Tirami fuori da queste sabbie in cui sono costretta.
Voglio viaggiare, sognare, correre e baciare;
voglio amare e desiderarti, essere amata e desiderata;
voglio spogliarmi, libera, esser presa,
voglio fare l’amore con te, per sempre.
Non so se il desiderio mi rimane, non so dentro di me
cos’è sepolto, ma portami via.
In cambio ti prometto la fedeltà, ti dono i miei occhi,
affinché tu possa guardare più a fondo la tua follia;
ti dono il mio corpo, affinché tu possa tradirlo e ritrovarti,
pure la giovinezza, ti dono,
così che tu possa arrivare all’infanzia, fino all’infanzia,
a una bimba, a una figlia, se solo giochiamo a quel gioco
del cavalluccio, uno-due-tre… – ricordi ?-,
quello in cui mi salti sulle spalle e finisci nel futuro
in cui tu scrivi di noi tutti, nostra figlia ci incanta col violoncello,
e io mi lascio trasportare tra le braccia, nelle vostre valigie,
ovunque vogliate -.

Così è stato.
Mi sono innamorato di te, di schiena, senza vederti,
perché il dolore, il tuo dolore bianco come una garza
volava nell’aria. Non avevo bisogno di comprenderlo dagli occhi.
Era antico il mio cercare gli abbracci spezzati, i cuori infranti.
Facevo il terapeuta, io; coglievo cocci di anfore rotte
e poi li rincollavo, ricomponevo la bellezza,
il loro valore, la loro unicità.
Tu eri il mio vaso François, che da sempre cercavo,
la giara della vigna in cui giocavo da bambino;
eri la bellezza e la rivoluzione anni ’70,
la libertà di pensiero, la cultura, l’impegno,
eri la Grecia, l’Italia, la Svezia.
Quando le tue colleghe ti avvertirono che ero arrivato
tu ti voltasti per presentarti, ma io ero già perso,
già preso da te…
Ti ho rapita come fa Zeus, camuffandosi da povero;
ti ho incantato con la lira di Apollo, con la poesia,
ti ho trascinato lontano da Aosta
come nessuno avrebbe fatto,
in quella casa in cui mai eri stata libera di essere e fare.
Essere filosofa, fare l’analista, a Siena, a Pisa, ovunque sia.
Ti ho portato a Roma, nella casa di Via Alessandria,
dove tutto è esploso, del nostro amore, del desiderio.

Mai più scorderò quei paesaggi assolati e folli
delle estati romane.
Ricordi mia stella? Ero stregato dalla tua bellezza.
Ero drogato. Non riuscivo a farne a meno.
La tua bocca mi chiamava a baciarti a perdifiato,
a esplorare quelle labbra così ampie e oscene.
Ci puòi far tutto con quelle labbra… – mi dicevano gli amici
di biliardo -, mentre io ti fissavo le cosce,
appena intraviste da quella gonna verde scuro,
E il culo, che si mostrava così tondo e sodo appena ti piegavi
maliziosa sul biliardo…
Quel culo mi drogava, mi consumava…
e la tua rosa, così bagnata, così pronta alla gioia…
Ricordi? I nostri viaggi per l’Italia, nella Tipo di mio padre?
Stavi seduta accanto a me, poggiata di schiena sulla spalla;
ti spogliavi completamente; ti coprivi le cosce col cappotto,
e io ti carezzavo per ore. Chilometri e chilometri,
orgasmo dopo orgasmo, ci guardavano dai camion, ci suovanavo
col clacson, ci fermava la Polizia, sorridendo di quell’amore sfrontato.
Ci perdevamo, in quei viaggi.
Sul tuo viso scendeva la pace e lo sfinimento, la gioia.

Avevamo percorso tutta l’Italia di notte,
le mie mani dentro te – ti prego amore, continua, non smettere,
ho voglia delle dita che mi cercano, mi trovano, mi appagano,
e io ero bagnato, con te, insieme a te,
disfatto, venuto, stordito…
Ricordi? La vedi quella foto lì, sul mobiletto?
Eravamo a piazza del Popolo, tra i giovani ribelli Girotondi.
Ci eravamo tuffati in quella mischia.
Avevo sul collo un fazzoletto annodato, color blu;
tu avevi messo un vestitino di cotone, smanicato, molto corto,
che lasciava intravvedere tutta la tua… bellezza;
a un certo punto ti ho sollevata su un muretto,
perché vedessi meglio il concerto della sera,
ed è stato uno spettacolo…
Mai potrò scordarlo! Non avevi messo le mutandine,
eri nuda e bagnata… ti ho sollevata, t’ho aperto le cosce
reggendoti da sotto, e mi son perso…
La tua viola era pazzesca, non volevo che baciarla e succhiarla.
Come d’altronde si faceva di sera e di mattina,
in ogni luogo, in ogni angolo del mondo…
Ricordi quel pomeriggio da zio Cosimo? Eravamo soli,
noi due, la moquette e il divano.
Ci eravamo desiderati con gli occhi, ci siamo rotolati per terra,
nudi ancor prima di spogliarci. Ti ho presa in braccio,
t’ho adagiata. Tu hai alzato le braccia dietro la testa,
perché fosse più chiaro che volevi essere presa…
Hai spalancato le ginocchia, io sono scivolato di sotto,
ti ho preso le cosce sulle spalle e ho cominciato baciarti,
poi son venuto sopra di te, dentro di te;
mi sono tolto, ho ripreso coi baci, col sesso, senza sfinimento,
perduto nella gioia della tua magnolia, così morbida e larga
che alla fine, per scherzare, l’abbiamo misurata!
Era il gioco di noi bimbi. Il sorriso della gioia…
Non avevo mai visto una rosa così vasta…
Abbiamo riso, un po’ ti sfottevo, larghissima e bagnata,
come l’inconsapevolezza e il desiderio di quegli anni,
come l’amore che ci univa e ci avrebbe unito,
come la felicità e il dolore di tutte le cose che avresti
causato e curato – figli, tradimenti, aborti, malattie – .
Ma il nostro amore era quel gioco,
io e te non facevamo che giocarlo tutto il tempo.

Ricordo Novelletto, un sogno memorabile portato al mio analista:
cercavo di entrare negli occhi di mia madre,
senza riuscirci; cadevo per terra e mi rotolavo a fare l’amore con te.
Era il modo di calmarci, di ritrovarci, di assicurarci che mai
t’avrei perduta o mi avresti perduto.
E quella volta – ricordi? – mi venne voglia di legarti
con lo spago sul tavolo di legno della sala.
Mi lasciavi fare, tu; ti lascivi trasportare nell’ignoto,
per amore, perché il divieto degli adulti era lontano,
Eri libera di gioire, di fumare, trasgredire…
Ti annodai i polsi e le caviglie ai piedi del tavolo,
perché restassi spalancata…; ti sollevai i lombi con un cuscino
e cominciai a carezzarti con le dita, seguendo la rima delle labbra,
scendendo nelle pieghe, cercandoti il piacere,
coprendoti di baci, di amplessi, dovunque…
Tutto di te sapeva di sesso, di noi, del nostro amore…
Eravamo sfiniti e diveriti, eravamo innamorati.

Mi perdonavi la mia vita parallela con un l’altra,
perché era chiaro che ero perso per te, per il tuo corpo,
immerso nei tuoi occhi profondi, nelle labbra;
con te dappertutto, sapevi che sarei rimasto,
che il desiderio, quello, era tuo soltanto.

Mio dio, amore, quanto è lunga la nostra storia,
quanta passione ci ho messo per amarti,
quanta passione e dedizione ci ho messo per tenermi.
Ero sempre dislocato, sempre lontano, da qualche parte.
ma tu mi prendevi la faccia tra le mani,
mi scuotevi da me stesso, mi avvicinavi al tuo viso,
mi sorridevi. Mi baciavi a lungo. E allora, prestissimo
tornavo da te, con te, dentro di te;
tornavo tuo, tornava la passione, il sesso, il godimento.
Ci hai messo il corpo e l’anima per stare insieme,
per tenere uniti i pezzi, miei e tuoi;
c’è riuscito il tuo corpo, desiderio che permane,
che trascende tutti e tutto.

È stata dura, la nostra storia, difficile.
Certe volte ci siamo persi nella foresta; c’è venuta paura
che saremmo rimasti soli, che la notte ci avrebbe divisi,
che il freddo, i cinghiali, i lupi, i fantasmi
ci avrebbero ammazzati, di nuovo…
Credevamo che avremmo pagato per la gioia di quegli anni
come una colpa da espiare, senza sapere che indietro si torna
sempre, che il tempo è ciclico, è curvo, è perverso;
che l’amore ha il disamore,
che il desiderio è il respiro della vita che sale e scende,
che apre e chiude le porte del corpo, lo spazio per l’altro,
e occorre traversarlo questo mistero,
occorre accettarlo, magari scrivendone,
magari portandosi avanti col viaggio.

Ti ho scritto mille volte coi testi delle canzoni;
Ho lasciato mille lettere di te nella mani degli amici;
ho messo la vita in poesia insieme a te, spesso per te,
malgrado le cesure, le intermittenze.
una sola lunghissima poesia d’amore.

Chiara, mia stella, con te ho viaggiato fino al limite estremo
di mettere al mondo una figlia, Elène,
di scrivere l’intera vita di una regina.
Ma questa è un’altra storia, di cui riparleremo, se vuoi.
Adesso ci sei tu, invece, solo tu.
Per questo ti dico, entra, siediti, accomodati.

Non puoi non riconoscermi, sono l’uomo che ti ha colta,
sono il bimbo con cui giocavi a cavalluccio,…
Siamo gli aquiloni volati lontano,
per fare l’analista, tu, e curare il dolore di tua madre e il tuo,
per fare il poeta, io, e scrivere di noi, di questa storia di amanti
che si trovano, si rinnovano,
dopo Orfeo e Euridice, Ginevra e Lancillotto, dopo Zeus e Leda.

Entra, accomodati. E sorridi!
Non perderti per sempre dietro la maschera di gesso della durezza.
Della tristezza. Sei viva, amore,
non porti la colpa della vecchiaia di tua madre, del suo dolore,
non perderti per lei, non aggrapparti al suo sguardo.
La vita è questo vento che va e ritorna,
che sperde le ceneri ma porta la memoria.
Tua madre si perderà – come tutti, nel tempo -,
E tu l’hai amata fin tanto, fino allo spasimo.
La vita continua anche per lei,
nessuno sa quanto, e tu ci sarai, sempre,
anch’io ci sarò sempre, accanto a lei.
Ma adesso è necessario che tu ti sieda, ti accomodi un poco.
Vieni, ti faccio un thè verde al limone, che tu adori tanto,
ti porto una pastetta, magari di quelle che prendemmo a Polignano,
fragranti e gustose, con quella crema all’amarena. Vieni, ascoltami.

Adesso ti vedo, da vicino finalmente.
Vedo i tuoi occhi cerchiati di nero, così stanchi che si chiudono.
Sono ancora bellissimi. Ho bisogno di quegli occhi,
neri e immensi, per navigare, per ritrovarmi,
per sapere che il tempo che ci attende è quello dell’estate,
che la rotta è serena.
La morte non spaventa se tu mi guardi,
se tu mi riconosci, amore.

Ho bisogno del tuo sorriso, ne ho bisogno di continuo.
Ti do la vita in cambio, il gioco, la fedeltà che finora
ho disdegnato;
Ti do le case che insieme ricostruiremo;
i viaggi in Africa o a Tokyo.
Ti dono le poesie che ancora dovrò scrivere;
ti dedico l’amore e il tempo che ancora porto dentro;
ti amo, ti bacio. Faremo l’amore.
Ma tu devi sorridere, sorridermi, sorridermi.
Il tuo sorriso è il nutrimento,
Il tuo sorriso è l’ebbrezza, la follia.
Il tuo sorriso mi fa vivere e volare, mi fa vivere e sognare.
Senza il tuo sorriso – lo sai – divento cupo, violento,
cattivo. Torno a combattere la Sfinge,
corro verso la perdita, la divisione, la falsità.
Per questo, ti prego, sorridimi sempre.
Ti renderò gioia per amore, sorriso per fedeltà,
sorriso per abbraccio, preghiera, poesia.

E poi ho bisogno del tuo desiderio.
Non importa se destinato per me soltanto.
Ho bisogno del tuo desiderio.
Eravamo ad Ascoli – ricordi? Molte estati fa. Giovani.
Dormivamo al piano di sopra. La porta era chiusa,
il mondo lontano, la notte alta.
Frastuono di cicale, resina di pini, e noi sudati, sudatissimi.
C’è bastato guardarci… mi sei salita sopra,
m’hai fatto entrare dentro. Eri bagnata già prima di iniziare.
Mi hai danzato sopra con la forza e il desiderio d’una marea.
I tuoi capezzoli si gonfiano, il tuo seno ch’esplodeva di piacere
sotto la lingua.
Ti sei lasciata amare, distesa sul letto, la schiena inarcata.
Ti son venuto sopra, e dentro.
Abbiamo respirato; viaggiato insieme,
ci siamo trovati insieme, abbiamo gridato insieme.
Ho chiamato il tuo nome, amore.
Hai chiamato il mio nome, amore.
Per questo, dicevo, ho bisogno del tuo corpo, del desiderio.
Ho bisogno di sentirti bagnata.
Non conterò i giorni o i mesi, ma il tuo profumo è vita,
il tuo sapore mi rende felice, il desiderio mi tiene unito,
un solo corpo, un solo uomo, una sola parte del mondo.
Voglio restare da questa parte con te,
attendere come i girasoli che si alzano stupiti e che ruotano
alla luce, a nostra figlia, al nostro amore.
Ho bisogno che la strada sia fatta fianco a fianco,
labbra su labbra.
Lasciamoci la storia alle spalle.
La storia e la realtà ci uccidono, ci rendono statue.
Ci servono le favole.
Ci serve una favola, una fiaba solo nostra.

Qui il tempo è un indovino che sale e scende per i fianchi
di un vulcano. Intorno è l’estate.
Il grano è trebbiato; le pesche e le albicocche profumano.
Ciò che doveva maturare è pronto al raccolto.
Tutto ciò che non è nato, non nascerà più.
Io sono l’indovino che sul culmine del monte
lambisce il cratere in cui si può rinascere o cadere.
Ti trovo per caso, mia sposa, ma tu a stento mi guardi.
Hai il dolore nel petto, ti manca il fiato,
la scarpata, tutta, nel passo.
Ti porto una lettera. La tengo aperta
perché tu possa leggerla.
Ti ringrazio per avermi aspettato,
per avermi dimostrato fedeltà.
Ma le frasi cominciano a sparire, rapide,
le lettere scolorano, il testo è senza senso.
Allora mi guardi, confusa…
Mi tolgo l’abito, sto nudo. Fai lo stesso pure tu, come atto di fede.
Sei nuda, ti lasci baciare. Non basta.
Ti chiedo il desiderio. Chiudi gli occhi finalmente.
In alto, il nuovo giorno si colora di luce.
– Indovina, amore mio – ciò che voglio non è scritto
nella lettera ma in queste rughe della pelle,
in questo viaggio che ho fatto per raggiungerti fin qui.
Se mi abbracci lo capirai: le rughe dei nostri corpi
diventano una clematys, le mani e i piedi diventano radici.
Poco a poco i nostri sguardi si sciolgono nel desiderio,
nel bacio d’amore vero.
Il tuo profumo nell’aria si leverà, e poi sverremo.
Sorridimi, abbracciami, baciami.
Ti renderò gioia per gioia,
per fedeltà -.





Napoli, luglio 30 luglio 2021 – 31 maggio 2022

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Elna



I. LA SCOPERTA

Elna, memoria del corpo, memoria dell’infanzia,
respiro che distende, si stende, che si apre finalmente
sul bordo del piacere;
battito del cuore che accende al tuo sorriso
se solo ti vedo passare in una stanza;
Elna, sorriso che spalanca, sorriso che distende il viso e l’anima,
sorriso che diffonde su di ogni carezza, parola, promessa
sfiorata sul corpo;
Elna, voce di farfalla, di grazia, soffiata,
serena, sì lieve, gentile, avvolgente
come il tuo sguardo, che mette imbarazzo,
che porta desiderio,
che induce all’abbandono, limpido e buio,
ordine e caos, topazio,
vulcano che inghiotte, gioia infinita e dolore,
dolore che cambia per sempre nel corpo e l’anima;

Elna, di seta liscia, veste del mare su cui la mano scende e sale,
eterna carezza che cerca il mistero, il sesso intenso,
e il ventre profuma e si spalanca, antro dell’infanzia,
gioia di prenderti per ore, per giorni;
luce che filtra nella camera dal mare,
alito che corre sulle cosce e sulla schiena,
mani e poi dita che scrutano vogliose, trattengono, separano,
perché tu possa riprendermi e accogliermi più dentro,
accogliermi per sempre sul brivido dei gemiti
che corrono nel corpo sfinito di piacere,
e il viso che si stende sul bordo del tuo letto,
si stende a questa vita che stiamo vivendo;
le labbra che si chiudono si sfiorano si cercano si uniscono
all’unisono respirano lo spasimo l’unisono ti amo;
Elna, mia stella, mattina adolescenza, pazzia ritrovata
dolcissima infanzia verace, schiarata
la fiaba in te avvera, s’incarna;

Elna, sudata, bagnata da me, per me, insieme,
due anime che scoprono l’amore a prima vista
la vera mai vista e esposta nudità,
per quanto il giorno cada nel tramonto,
e il buio del ritorno, a casa, il pentimento;
Elna nuda infanzia infinita, fammi entrare dentro te
dove morte non arriva, dove amore s’avvera,
tienimi la mano sul ventre, la bocca sulle labbra,
e il corpo sul corpo,
dammi la gioia di prendere il volo, morire perfino
se tu te ne vai da questa vita straziata e segreta,
dammi la forza a seguirti nel vuoto di un salto
nel buio d’un ospedale,
portami con te, amore totale ferita mortale;

Elna, profumo di Chanel unica Chance che penetra
nel buio della vita in cui mi perdo,
privo di te, dolcezza infinita, cos’altro mi resta?
Cosa diranno i nostri demoni, gli idioti che sempre
ci attendono al varco,
diranno son pazzo, diranno sei pazza,
diranno puttana, adultera madre indecente,
madre che lascia perfino i suoi figli;
Elna, compagna, il giudice condanna, tu stessa ti condanni
ti infili un fil di ferro spinato tra le labbra per non parlare più,
per non gioire più, per non cercarmi più,
per non toccare più l’oceano dei corpi bagnati;
ti cuci pure gli occhi per non guardarmi più,
mentre piango e ti ringrazio, ti conosco, unica vita;

Elna la pazza, asservita e ribelle,
Elna, adorata, memoria dei sensi,
Elna futuro che deve tornare,
non ti scordare che io ti sto amando,
malgrado quel volo spiccato sul baratro,
malgrado le maschere – e quante – di scena,
non ti scordare di questa stagione
ch’è stata spezzata, violata, stuprata,
proprio adesso che sul corpo di fata la bestia infierisce;
Elna, adorata, aspettami lontano, nel buio dell’anima,
in cui gli altri non arrivano e il mostro non può scendere,
dove un tempo m’hai pregato di restare,
Elna, non ti scordare che molto t’ho amata,
che ancora ti amo, e che adesso, da qui, ricominciamo.




II. LA CAMERA SUL MARE

L’avevi già detto al telefono l’amore, mia Elna,
tornare felici soltanto per un giorno, eterni bambini eterni
che al telefono già dicono non dicono promettono s’accendono…
t’immagini mio amore… mi tocchi sui capezzoli…
e un po’ me ne vergogno,
l’amore non l’ho fatto, l’amore quello vero…
t’immagini mio amore, bagnati già al telefono,
perché la voce s’incendia, m’incendia e mi bagna,
e me ne torno a casa stordita, ubriaca,
nel bagno mi richiudo, per terra, mordendomi le labbra,
mi accascio contro il muro, mi siedo, mi tocco lungamente…
così vorrei sfiorarti domani, nel nostro piccolo antro
e il blu è un fondoscena, e il mare una distesa di lino
profumata… -.

Così s’è cominciato, d’un tratto, all’improvviso,
non rito d’adulto, non mossa di teatro… mi sono inginocchiato,
tu stavi adagiata sul bordo del letto, me solo attendendo,
ti ho tolto le scarpe di nera vernice borchiate,
i tacchi da bambina che gioca a far la donna,
mi sono piegato e mi hai detto, – per vezzo -,
ti piacciono le unghie? Le ho fatte red cristal come desideravi -;
Elna, mio amore, di te mi piace tutto,
perfino quella polvere sterrata sui talloni,
perfino il cinturino che stringe alle caviglie
gonfiate da quel sole sotto il quale ti precipiti vogliosa,
truccata al primo mattino,
dopo un rapido sott’occhio timidissimo al concierge…

E togli via le scarpe, togliamoci la gonna, le calze,
togliamo la camicia di cotone, quella bianca, quella azzurra,
quell’azzurra come il mare che intanto ci consola…
Così rapidi, e poi nudi, di fronte al primo amore
ma già rigenerati da mille e mille baci,
segreti confidati su quel che mi dispiace o piacerebbe…
– vorrei che lo sentissi Chanel o Terre d’Hermès,
l’ho messo su per te…, vorrei salissi sopra,
vorrei scoprissi tutto ma tutto proprio tutto di me…
di te l’ho già sentito da un pezzo, il respiro,
lo vedo dai tuoi occhi, mi piace stare sopra… -;
allora vieni sopra, inarcati e poi strusciati,
e bagnami sui lombi col nettare divino,
e tienimi le braccia schiacciate sopra il letto,
tienimi le gambe spaccate sopra il letto, e muoviti, e danzami,
e cercami, vicino, vicinissima… ci sei quasi… oplà,
m’hai vinto, catturato, sciulato nel tuo lago,
a lungo hai respirato, chiamato il mio bel nome, amore,
goduto ad occhi chiusi, goduto ad occhi aperti…
abbiam buttato via la cima della nave…
l’amore non finisce, non sopisce,
l’amplesso sale e scende come un flutto,
fino all’alba, fino a sera, fino a notte;
la nostra prima volta, sfinita ed infinita
volevi raccontarla di sera ad una cena
o solo per scherzarci tra di noi,
per dire che alla fine l’abbiam fatto sette ore,
l’amore, quello vero, l’amore, cento orgasmi,
e iscriverlo per sempre nel diario della vita.

Elna, mia dolce, ho tutto il tuo sapore sulle labbra
sulla pelle, e tutta la tua pelle sa di sesso, la mia pelle;
cambiamo le parole, mia stella bell’aprile,
la nostra prima volta è ancora da scoprire…
Sei stato un pazzo amore, ed io son la più pazza,
son stata tutto il tempo lì a danzare su di te,
l’hai visto che mi piace chiuder gli occhi e farti entrare,
respirare e farti entrare,
Elna, mia stella, la schiena tra le mani sui fianchi
sul tuo vitino-vespa, sul tuo culotto morbido
che adagia su di me, la notte, il desiderio,
lo sguardo sul tuo seno, e poi l’uno nell’altra, distesi,
di fianco, di fronte a questo mare.






III. IL BOSCO DI CAPODIMONTE

La veste era leggera, una maglietta rossa,
la borsa da picnic, e poi la gonnellina dipinta da Andy Wharol,
la gonna scampanata, su gambe disvelate…
E il Bosco era un’estate d’aprile, profumata,
giocosa, spensierata…

Passeggiavamo lieti, la mano nella mano,
il braccio intorno al braccio, più stretti, più protetti…
passeggiavamo lenti, dicendoci ti amo,
dicendomi sono pazza, mio principe, di te.

Così ce ne andavamo, cercando un nostro antro
in cui poterci stare, cercare, e trovar l’anima.
Che è quello che cercavi, ch’è quello che cercavo,
sul piccolo spiazzetto nascosto tra li rami
sommerso dalle voci dei passanti, qua e là,
distesi su quel telo di gomma dechatlòn,
distesi e sorridenti di fremiti e parole,
aperti sulla vita, la vita che sorprende – ti ho tolto le scarpette,
baciato le caviglie di terra appena sporche,
di menta, appena fresca,
t’ho stesa lì di fianco per mettermi di dietro,
di dietro alla tua schiena,
t’ho alzato quei capelli lunghissimi a nascondere
il tuo e il mio respiro,
e intanto con la mano salivo per le cosce,
e intanto con la lingua seguivo la tua rima…
e tu che all’improvviso, “amore, che ne dici, ci vieni dentro me…”,
ed io che proprio quello da sempre m’aspettavo,
qualcuno che vedesse, scorgesse e m’invitasse,
battendo la vergogna lo sguardo dei passanti…
ho alzato la tua gonna, che tutta eri bagnata,
balzato sul tuo corpo fremente che aspettava,
e insieme abbiamo spinto,
insieme abbiam gridato, gioito, volato…

Elna, sorpresa, che ancora mi stupisce
l’ingenua tua follia, follia che non indugia,
mia piccola monella che più non sa rigare, diritta, ricordi?
Già prima, in quel di marzo, lo spiazzo del Leroy,
mi afferri per la mano l’infili tra le calze
mi vuoi fare vedere le nuove brasiliane… Mio Dio,
quanta impazienza, che fretta, che imprudenza…
mi hai stretto la mano serrata senza muoverti
bagnandoti, bagnandomi,
facendomi volare sul miele dell’amore che ognuno
all’improvviso apprende al primo bacio
felice, beato, ammaliato in mezzo al Bosco…

Ci siamo sollevati, levati inappagati;
Ci siamo guardati negli occhi e poi baciati
facendo ancor l’amore con gli occhi dentro gli occhi,
perdendoci e trovandoci ancora dentro gli occhi.
Ci siamo rialzati, perduti, stupefatti.
Son contenta – mi hai detto -, che poi ci ritorniamo,
promettimi, promettilo.





IV. Il PRIMO ABBRACCIO

Nascevi dalla spuma del mare, come Venere,
nascevi nell’amore, mia Elna, da sempre…
Sei giunta come un’onda imprevista, una scoperta.
Ti lascio un libro mio, con sopra quella dedica
“per Elna, trasporto e conoscenza”.
E tu ti sei lasciata portare da quell’impeto
che già da tempo avevi sentito dentro te.
Mi stavi già osservando da un anno – dicevi -…
La “casa delle bambole” adesso aveva luce;
la danza dell’infanzia metteva le scarpette.
Indietro son tornato per prendere il telefono.
Ho chiuso la tua porta, guardando a testa bassa,
mi sei saltata al collo, stringendomi fortissima.
L’abbraccio, chi lo scorda!
C’è forza e c’era incontro, in quella prima stretta,
c’era anche la sorpresa di chi trova l’infanzia
e prende, s’intrattiene, si fa cogliere e baciare.
Non c’era un solo giorno in cui non m’abbracciavi…

Entravi nella stanza, saltavi tra le braccia,
come un adolescente, mostrando forza e gioco,
coraggio e verità;
m’abbracci ad occhi chiusi, mi baci e io ti bacio,
ti sfioro sotto gonna sotto veste
mi bagno di quel nettare che annunci così buono,
dolcissimo e copioso…

I giorni ci sorpassano, mio amore, ci rincorrono,
io corro a ritrovarti per gli angoli di strada, di vita, di città,
per ogni santo giorno che Dio ci ha permesso.
Ricordi quei mattini, quell’orzo, i biscottini,
con gli occhi nei miei occhi, cerchiati dall’eye liner
perché non si vedesse del mare la tristezza…
Quel mare in cui scendiamo talvolta di nascosto,
a amare e consolarci.





V. LA FIAT 500

Seguimi mio amore, perdiamoci di fuori
del tempo, fuori strada. Fermiamoci qui sotto,
la puzza e l’abbandono di questo asse mediano,
che poi chissenefrega…
ho voglia di restare, di stare insieme te.
Fa presto, monta in macchina, abbracciami poi baciami,
questi occhi voglio chiuderli sulla mia vita orribile,
ho voglia di scordare, non piangere, sognare.
Stringimi, e abbracciami, e baciami poi baciami, –
ti piacciono le labbra? Sono morbide, son belle?
Per te sono speciale? -.
Ma certo, sei speciale, sei sole e meraviglia.
– Per te me le son fatte ste labbra, questo filler -.
Baciami, e abbracciami, e spegnimi le angosce.
Ho voglia di te, ti prego, rapiscimi, poi toccami,
mi stringo alla tua mano che cerca fino a dentro,
mi perdo nel tuo vivido profumo desiderio.
Le calze, le unghie rosse, così nere le tue ciglia,
e poi quei tacchi così alti piantati nella porta,
le cosce spalancate, la gonna bianca e rossa, fiorita,
sollevata sullo scandalo, gli slip abbandonati,
le mani che mi spingono più dentro, le dita che s’insinuano,
e il tuo respiro sale, ed io e te che sale, insieme,
bagnati, per ore, mi senti ancora amore?
Bellissimo, continua… e tu lo senti amore, lo senti come sto?
Mi fai venire sempre, continua, che ti amo,
non smettere non smettere non smettere ancora.
E gli occhi che si chiudono, le bocche che si aprono,
si baciano, ti adoro.
La vita è in questa macchina, i ponti, l’autostrada.
La vita è solo questa, e tu mi fai sognare,
mi levi dal mio piombo, mi porti più lontano.
La vita è questi baci, in queste dita, è in te che scendi,
mi cerchi, mi carezzi, e stella mi fai essere…
L’amore è stato un sogno, per me. Un lungo sogno.
Per me tu sei Tesèo, l’amore che ho rapito.
Io sono la tua Elna, che a te si lascia andare.
Lontano. In questa nave.


VI. LE TELEFONATE

Son sempre così lunghe, le tue telefonate.
Mi cerchi di continuo. Chiamate su chiamate,
mattino e poi di sera, il tempo ch’è possibile.
Le nostre chiacchierate, son belle, sono allegre,
giocate, sorprese, i bimbi, i sacrifici,
le pene, le speranze, le promesse.
Le nostre chiacchierate, ricordi?

Nel bagno ti chiudevi, nascosta, sussurrando,
ti voglio mio bel principe, quand’è che ci vediamo?
La camera d’albergo, ho voglia dell’amore…
Ti piacciono i Foo Fighters? Ascoltati Everlong.
Ci ho pianto. È proprio bella.
E senti Chris Cornell, ascolta Like a Stone,
bellissima anche quella;
ascolta bene Thank you, per te, amore mio…
La sento nella macchina quando mi metto in viaggio,
l’ascolto di continuo; tu senti i Negramaro, è bella, fa tremare
e “mentre tutto scorre” -, ti mando un’astronave,
ti mando la Presenza l’eterna di Pessoa;
ti ho scritto una poesia, l’ennesima…
l’ho letta amore mio, lo dico a bassa voce,
sto in macchina coi bimbi, lo sai che io ti amo, ti prego
ancora un attimo, stasera e poi stanotte;
lo sai che m’addormento nel letto col telefono,
aspetto di sentirti, non riesco a stare senza,
ma tu mi fai impazzire, con tutto questo amore…
Elna, le nostre chiamate dal mare, dal piazzale,
dal buio del garage, le nostre chiacchierate così lunghe,
e ricercate sul lavoro, dentro casa, per le sere…
le nostre sussurrate, bagnate dalla voce
che è gioia lingua e sesso, che incanta e che spalanca,
che induce a accarezzarsi.
La tua chimera voce, che chiama a far l’amore,
mia stella così bella
– domani ci vediamo, la nostra cameretta
facciamo tutto il giorno l’amore, tutto il tempo…
che bello, tutto il tempo -.



VII. L’OSPIZIO DEI POVERI

La camera all’ospizio, l’amore tuo continuo, mai visto,
gli amplessi, gli orgasmi, a ondate su ondate
di baci su baci…

Elna, bel corpo, mia stella adorata,
ricordi ogni bagliore di quelle mattinate?
La camera nell’ombra di fronte a quell’ospizio,
immersa nel calore dell’estate,
vocìo dei commercianti e delle strade.
Apri il ventilatore, le tende son farfalle,
il letto chiama a sé le sue odalische…
Mi piacciono le unghie, mi piace accarezzarti,
mi piaccion le caviglie, le scarpe di vernice
nerissime e buttate per aria come vele,
le gonne già sfilate, bagnate dall’inizio
le nuove brasiliane, confetto rosanero…
cercavo quegli sguardi, l’attesa, il desiderio…

Già persi ci eravamo già prima di trovarci;
e quella cameretta per noi era un passaggio
tra il prima ed il domani, l’immenso ed il profondo mai visto,
che gli altri poi ci invidiano, gli Dei pure ci invidiano…
Elna, bambina, buttata su lenzuola di organza, la pazza,
le gambe appena schiuse, le mani sul mio corpo
– posso toccarti amore? E posso accarezzarti…
…baciare il tuo bel sesso, finora non l’ho chiesto per vergogna,
ma adesso ne ho più voglia, adesso ho più coraggio -,
Elna, mia amica, mio cuore, vieni sopra,
vieni dentro, resta dentro, mia Elna, mia stella…
mio principe, di schiena, e toccami, poi aprimi, poi baciami,
poi prendimi davanti, poi prendimi da dietro,
e prendimi, e leccami, e prendimi dovunque,
dimmi le parole che ti vengono alle labbra,
fammi quelle cose che ci donano piacere,
fa’ come i primati che si leccano i capezzoli, i genitali;
fa come un amante che l’ha fatto a mille donne.
Ti aspetto. Tutto è bello del tuo mondo, mi dà gioia;
ti apro il cuore mio e il corpo mio,
ti prendo dentro l’anima, per sempre.

Elna, miraggio,
trasluce il pomeriggio nell’alcova dell’ospizio,
l’amore mai visto, la nostra prima volta,
l’amore amore vero, l’amore arcobaleno,
gli amplessi gridati o soffiati a migliaia
di baci e di carezze, di orgasmi.
Son sfinita, amore mio, non ci ero abituata,
per me non c’è mai stata, mai stata tanta gioia…
Prometti amore mio che ci ritorneremo.
E questo mi dà forza di tornare giù in prigione.
Voglio fare l’amore, mio principe,
sei pazza, mia stella, adorata,
dal viso vedi l’anima, che torna adolescente,
mi contieni, mi fai perdere, mi rendi verità.






VIII. POESIA ININTERROTTA

Poesia ininterrotta la nostra, la vita che tramanda,
malgrado la cenere, le maschere, e i palpiti nel vuoto.
Venuta da lontano, è antico il tuo cercare
mia vita, amore vero, rispetto, desiderio.
Giocavi con le bambole sognavi quella casa
che ancora sta incompleta.
Volevi già danzare staccarti dal tuo suolo,
ma giudici ignoranti t’hanno imposto di atterrare,
di smetter di sognare e immaginare maghi e favole.
Un bacio era uno schiaffo agli occhi di tuo padre.
Un bacio si torceva come un salto minacciato
da tua madre alla finestra.

Oh, Elna, che bello richiamarti, sentire il tuo bel nome,
contare della grazia che pure hai conservato
malgrado le minacce l’orrore il matrimonio,
vergogna di esser stata trattata come un secchio,
lo scolo mattutino e coniugale…
L’hai tenuto, quell’amore, nascosto in un diamante,
di quelli G e F che tu adoravi tanto,
racchiuso nel tuo cuore prezioso, un bel “minou”,
bellissimo il tuo nome di luce scintillante…

Ricordi dell’inizio? Stavamo nella Panda,
la mano mi hai poggiato sulla mano, lentamente.
È nato il nostro amore, sugli occhi ricambiati
gli sguardi ricambiati, le stanze, nel segreto.
È nato, il nostr’amore, quel giorno di febbraio,
la mano e la promessa che insieme partivamo,
che il nostro desiderio profondo era sincero
su tutto, e condiviso.
L’amore era già nato, laggiù, in quello spiazzo,
s’un bacio e una promessa, buttare via la croce,
la vita è così bella se poi torna all’infanzia,
se amore è delicato, gentile, appassionato,
totale, unico e vero, esposto nudo e vero.

E noi siamo rimasti, verissimi e nudati.
L’invidia ci appestava, ma noi rimanevamo,
esposti e fieri e nudi.
La Bestia ci braccava,
ma noi resistevamo, ignari esposti, nudi,
a prenderci per strada,
a amarci nella camera, la camera sul mare.
Mai niente è stato semplice, nessuno ha mai volato,
ma siamo stati insieme nel buio e nell’offesa.
Poesia ininterrotta la nostra.
Ci siamo ritrovati perfino in ospedale – ricordi? –

Io ero là da solo, e tu sei corsa indietro a prendermi un pigiama,
m’hai fatto compagnia, mi hai steso, dissetato,
lavato e fatto uscire.
E poi tutta tremante, di fronte al melanoma,
di fronte alla vergogna di un seno troppo piccolo,
di fronte all’imbarazzo di essere spogliata…
ma io ci sono stato. Ti ho stretto la mano – mi sento protetta,
hai detto -, sulla spalla,
mentre aspettavamo l’avvocato che voleva
prenderti per mano e portarti via dal ghetto…
…ah, almeno ci siamo incontrati e insieme buttati
nel vortice dei sensi che chiamano infanzia,
infanzia o tradimento,
ma che per noi è amore, desiderio, unicità.






IX. LA FINE

Elna, memoria del corpo, memoria che risplende,
mia anima dolente. Da quanto stai piangendo?
Metto la mia faccia sul ferro che va ad Auschwitz,
chiedendo se verrai. Vengo a prenderti, a cercarti,
giro in casa, giù per strada, sperando che tu riesca
a uscire dal cancello, un attimo almeno.
Che cosa ti è successo? Che cosa ti hanno fatto?

Ho sentito dal telefono, percuotere il tuo corpo.
Ho intravisto tuo marito maledire le tue labbra,
strappare le mie foto, sputare su quei baci trafugati
da spioni volgarissimi assoldati per stuprarti.
Ho visto i suoi compari sbottonarsi i pantaloni…
i mostri suoi incarnati, uomini folli, draghi.
Ti ho vista inginocchiata, col viso insanguinato,
le cosce lacerate, a chiedere perdono.
Ti ho vista deprivata di tutti i tuoi averi,
difendere i tuoi figli da quel porco, Mangiafuoco.
Ti ho vista al suo guinzaglio diventare una cagna,
trasformata, nella luce plenilunia, affamata.

Elna, mio amore,
non posso più spiegarti il dolore che provo
di giorno, di sera, da solo.
Nemmeno ho più la forza di andare a lavorare.
Vorrei solo buttarmi su un divano. E poi morire.

Abbiamo navigato per lunghi cinque mesi.
Un tempo che dura un’estate, e vale una vita.
I ricordi sono vividi, ancora, il cuore è sottosopra.
Mai visto tanto amore – dicevi – tanta gioia,
Mai vista tanta grazia, dicevi, sono pazza.
Per me sei perfettissimo, sei l’uomo più speciale -.
Per me tu sei la prima, la gioia mai provata.
Mai più potremo amare così profondamente.
Tra noi c’è quel cordone di una madre col suo piccolo,
la mano dell’acrobata serrata al suo compagno,
il cuore condiviso dei siamesi…

Elna, tesoro, la bestia ti dà caccia.
La bestia che si aggira con il fuoco nella gola;
lo zoccolo schifoso che ti schiaccia a poco a poco…
E devi sopravvivere, salvare almeno i figli
ché un giorno riconoscano in te l’unica stella.
Ma il mio delirio è acuto e ancora ti vorrei
baciare un’altra volta, ancora un’altra volta.

Elna, piango. Non so più come vivere.
Per me non c’è più posto in cui poter restare.

Noi siamo due bambini che vogliono giocare
che parlano con gli occhi, che esplorano coi corpi.
E adesso, quest’infanzia, quest’infanzia finirà?
La musica che amiamo sfumerà?
Lo vedo, sei tornata nella gabbia,
ma sotto le tue unghie trovi ancora quello smalto
con cui c’incontravamo di nascosto a far l’amore.

Un giorno, quest’amore approderà,
farà il giro per il mondo, per le terre e per i mari, nel fuoco.
La poesia fa già posto alla gioia,
al coraggio conquistato di vivere davvero.
E tu sarai lì, aspettando qualcosa, qualcuno, chi lo sa…
Una voce che ti coglie, nel traffico, distratta;
una chiamata orribile sperata da una vita,
la voce mai scordata di me che ti richiamo…

Elna, la vita non è andata ma io sono rimasto,
trent’anni t’ho cercata, trent’anni, ti ho cercata.
Adesso tocca a te, restare almeno un giorno.
Ti aspetto nella camera sul mare,
dove un tempo siamo stati giovanissimi e beati.
Lasciami rientrare nuovamente dentro te,
dove l’odio non arriva, dove il caso non arriva,
di modo che un bel giorno si possa raccontare
che al mondo c’è pur stato un rifugio nel quale
due pazzi sono vissuti giocando a far l’amore,
due amanti sono morti giocando a far l’amore.




Napoli, luglio – dicembre 2021

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Leda



Clap. Fu l’ultimo suono che udii dietro di me,
il rumore della porta dell’ingresso si chiudeva,
un rumore sordo di colpa, di rimorso,
il passo di qualcuno che ha fretta,
e quel leone dorato sul battiporta, stanco di ruggire e intimidire
– Cos’altro d’altronde? Chi altri arrestare sulla soglia
di questa casa da cui tutti noi siamo partiti?
Io sono l’ultima a restare ancora un pò,
fissa, impalata dietro i vetri invecchiati della finestra,
quella più grande su al piano di sopra, dietro cui mi nascondo
a scrutare dai vetri, a contare le macchie prodotte dalle muffe
simili a briciole di pane o minuscoli fiori;
e allora quelle macchie cominciano a muoversi
riempiendo tutto il vetro,
coprendomi la faccia, le mani, il corpo intero.
Io stessa divento un quadrifoglio,
un asfodelo, un papavero, immerso nella trasparenza
indiscreta della finestra,
a contare chi parte e chi arriva dal fronte dell’estate,
al di là della quale vecchi eserciti in ritirata vengono sostituiti
da nuovi soldati in cerca di felicità –
padri, nonni, madri, zii, cugini -,
ognuno con la sua utilitaria,
con la propria valigia di stoffa o di cartone,
ognuno un corriere di giocattoli ancora innocenti
nella loro infantile utilità (secchielli, palette, palloni di spugna),
tutto l’armamentario per vivere distratti in questa estate che qui,
in questa casa e in questa famiglia sferzata dai venti dell’odio,
ingoiata da un mare invisibile e nascosto al di là delle montagne,
annunciava una saga, e forse lo era.
Io sono l’ultima, dunque, osservo dalla finestra
l’ultimo soldato appena partito dopo un’ultima notte
trascorsa qui nella mia casa,
nella mia stanza da letto, nuda, ancora calda dei corpi,
disfatta, tanto che ancora potresti avvertire il cigolio della rete
arrugginita muoversi su e giù, lentamente, continuamente,
come volendo ancor fare l’amore con un corpo immaginario,
o come i bambini quando si divertono a mimare i vagiti degli amanti.
Quel soldato è stato il mio amore, l’ultimo,
anche se mi vergogno ad assegnare a me stessa una tale fortuna;
l’ho visto vestirsi in fretta, come sopraffatto da un richiamo
inspiegabile, da una sorta di comando interiore,
o da un altro amore,
la giacca di lana verde appena aggiustata sul petto villoso
su cui ho intravisto piccole gemme di sudore,
macchie di sperma o di rossetto, il mio!
L’ho guardato sorridendo, malgrado non avessi avuto
nemmeno il tempo di salutarlo come si deve;
solo un battito degli occhi, un silenzioso addio,
mentre usciva imbarazzato, lui,
saltando le scale a quattro a quattro,
sbattendo la porta dietro di sé, per non scordare,
lasciando pure un guanto di pelle appeso alla maniglia
della porta richiusa in fretta. Clap.
Era l’ultima ombra che volevo osservare e poi lasciare,
l’ombra di un amore e di una guerra che non voglio dimenticare,
sebbene sia così personale, interiore, indescrivibile.

Sono stata una sacerdotessa, io.
Mi piaceva restare intere giornate in quella posa tipica
dei figuranti di scena – il tailleur anni ’30, nero,
il bel cappello a falde strette, le mani giunte a trattenere una pochette,
i piedi immobili e segreti nelle scarpe di vernice a tacco basso -,
addossati a una delle quinte laterali,
confusa tra le pieghe delle tende pesantissime di seta
che i miei piazzavano ai balconi per distendere un fondale,
su cui mettere in scena la guerra quotidiana
nella quale mio padre e mia madre si battevano
senza parlare, urlando proclami assoluti quanto inutili
sulla fedeltà, sui figli, sul dovere di ubbidire al capoclan,
o anche sul bisogno di serbare il vecchio armadio anni ’50.
Oh, com’erano sfibranti e dolorose quelle liti o quelle recite,
nelle quali non c’erano vincitori né vinti, né torti né ragioni.
C’eran solo coltellate che ci ferivano profondamente,
lasciando in ognuno di noi una lama di ferro verticale
che ogni volta, recita dopo recita, ci divideva sempre di più,
al punto che non sapevi più chi scegliere tra te e l’altro,
per chi parteggiare, a chi appartenere.
Eppure, quelle tende di velluto drappeggiato mi piacevano,
mi proteggevano dalla luce impietosa della realtà;
ci permettono di creare nelle nostre stanze
e in ognuna delle nostre vite quell’atmosfera crepuscolare
in cui tutto diventa inconscio,
tutto si confonde con tutto,
l’innocenza con la colpa, la vita con la morte,
e dove tutto è incerto e può arrivare.
Allora ti sembra di sfogliare una margherita,
se mi ama o non mi ama, e tutto può cambiare.
L’uomo che avevi amato diventa un mercenario
che tu hai fatto entrare nel ventre con forza,
per trattenerlo o per ucciderlo.
Piccoli canarini saltellano qua e là,
e ti chiedi se parlino dei frutti ormai maturi –
ciliegi, albicocchi, bei prugni -,
oppure se sussurrino i versi segreti del tuo diario,
quelli più intimi che mai hai pubblicato.
Sì, quelle tende ci riportavano in quella scena
originaria che noi tutti abbiamo condiviso,
e devi chiederti solo se l’ultima carta del cartomante
sarà quella della morte o dell’eternità.
Io, quella recita la guardavo in disparte,
come a dire che ne sorridevo, sapendo bene
che io stesso le assegnavo una forma e un’espressione,
e anzi, le conferivo quella coscienza che nessuno dei miei
aveva avuto.
Confusa nelle pieghe della tenda a me destinata,
passavo il tempo dell’estate a immaginare, allucinare
qualcosa che non avevo, o proprio d’inesistente –
di solito principi o matti cappellai.
Mi piacevano gli oggetti strani, o dismessi.
Una giara di terracotta giaceva da secoli su in cima
alla scala di legno della soffitta.
Nessuno ci aveva mai guardato dentro,
sebbene, in quel pozzo oscuro e senza fondo,
fossero state conservate per anni le ceneri di infiniti
amori bruciati,
e con essi gli oggetti più tipici dei romanzi d’appendice –
lettere, separazioni, baci appassionati,
verità poco vere o svelate après-coup -.
In essa potevi sentire la voce di ognuno di loro,
se solo vi accostavi l’orecchio;
potevi sentire le grida di gioia o disperazione;
potevi respirare il profumo dei loro corpi,
sentire il caldo avvolgerti a lungo,
tanto che mi veniva voglia di calarmici dentro.
Così, spesso mi nascondevo per ore in quell’urna cineraria.
Incontravo tutti coloro che erano morti per amore,
ossia per consegnarci l’attrazione verso l’ignoto e l’insensato.
A cominciare da te, mio principe amato.
Mi sentivo a casa, tornavo a essere invocata, adorata
“Leda, Leda, aspettami amore, ho bisogno di te”.
Immersa in quella cenere potevo rivivere tutta la vita
e la storia già vissuta, in forme diverse, in epoche diverse.
Ero Crisotemi e Ifigenia, Persefone e Euridice;
potevo restare bambina a guardare i bei giorni
nella giusta dimensione della meraviglia.
Immersa nel segreto della giara, mi abituavo a restare morta,
ad essere polvere, e quella sensazione d’indeterminatezza
mi piaceva: potevo diventare una farfalla azzurro e bianca,
impalpabile e luminosa,
sventolare sul mondo un messaggio di fratellanza, di equità.
Mi reincarnavo nella vita di mia madre, così presto scomparsa.
Era la mia regina, la mia sicurezza,
il divano su cui volevo stendermi.
Nella sua camera da letto ci custodiva le foto d’infanzia,
quelle incorniciate in argento fra tutti i parenti e gli amici,
quelle che teneva sulla cassettiera accanto al letto matrimoniale.
E già mi vedevo, in quella foto, bella e paffutella, identica a lei.
Nel grande specchio, mi piaceva imbellettarmi coi suoi cappelli,
così nobili e demodé. E nel grande armadio bianco,
amavo nascondermi per intere giornate,
in modo da rubare i segreti che “i grandi” si scambiano a letto,
al riparo del dovere della serenità da infondere ai figli.
Vicino alla sua casa d’infanzia, scorreva il piccolo ruscello
al cui fianco c’era il vecchio lavatoio.
Mia madre e le altre ci portavano cesta di lenzuola e cenere e sapone
ricavato dai maiali.
Quella cerimonia era una preghiera per me, un rosario,
in cui si alternavano auspici per un futuro di ricchezze
e piccoli rancori su questo o quel marito, quell’amante, quel cornuto.
Di fianco alla parrocchia di sant’Orso, gli uomini si ritrovavano
Nella bettola di Marcel, alticci e straqqui,
come ci immaginiamo i maschi a fine giornata,
capaci di quella leggerezza che noi donne non abbiamo,
così cariche di ricordi, maledizioni, mancati amori.
Tutte quella cerimonia, quella vita, non era la mia:
mia madre mi raccontava di suo zio prete,
del vociare della strada, della fame e la durezza
dei suoi quattordici anni;
non era mia quella vita, eppure là dentro,
in quella giara cineraria, potevo essere lei,
entrare e uscire da una storia, da un corpo,
da un tempo e una città come si entra e si esce da un pensiero,
leggera, eterea,
senza la preoccupazione della coerenza e l’esattezza.
Mi piaceva chiudermi in questa casa, nella mia stanza,
di fronte al balcone spalancato sul terrapieno.

D’estate, nel primo pomeriggio, approfittavo del pisolino
dei grandi e dei fratelli per sognare e desiderare…
Restavo in mutande, distesa sul letto,
a sognare del primo fidanzato – come lo si chiamava prima del ’68 -;
lo desideravo ancor prima di conoscerlo o amarlo,
e quel desiderio senza oggetto mi bagnava davvero,
come fosse già dentro di me…
Il vento caldo della strada, sfuggito agli scuri della finestra,
mi accarezzava come una mano tra le cosce,
stendendo quel nettare sul ventre, sulle labbra, lungo il collo…
Giornate come quelle hanno costituito la trama
di ogni mio racconto;
mi hanno permesso di crescere ed entrare nella vita
con la consapevolezza che sognare è più che ottenere,
desiderare è più che potere,
e forse per questo non ho paura a nascondermi in quella giara,
in quel dominio oscuro in cui mi fanno compagnia
gli amori e gli dèi, gli eroi e i perdenti.

Non sono stata capace di essere una prima donna,
non ho saputo far fuori le altre,
come si dice facciano le donne capaci di soggiogare
un marito – come mia madre -.
Sono stata un’ultima, sono rimasta, come vedi,
in questa casa come nella tua vita,
benché spesso sentendomi sola e desolata.
Ho amato e sofferto in silenzio,
sempre all’ombra dei grandi eroi da celebrare –
mia figlia regina di Sparta e suo padre Zeus -;
mi sono prestata a essere Leda, a interpretare un ruolo,
a custodire le camicie che mi obbligavi a stirare,
(talvolta cogliendo impercettibili macchie sul colletto);
a riporre nel cassetto i troppi rossetti di tua figlia regina,
facendo attenzione a che il tappo non rovinasse la cera;
ho raccolto gli spartiti che voi lasciavate sul tavolo,
contenti di aver guadagnato un altro grado di bravura;
mi accontentavo di farmi bella da sola,
quando voi non c’eravate,
di guardarmi coi tuoi occhi,
di toccarmi con le tue mani, lentamente, la sera,
nell’ora in cui i gatti saltano dai tetti
e la luna ci presta le sue lenzuola più bianche,
mi sedevo di fronte al lavabo, passandomi la crema e il balsamo,
scendendo lentamente lungo i fianchi,
come avrei voluto facessi tu,
per liberarti dall’incombenza di un desiderio intermittente.
E quella maschera di alghe che talvolta mi concedevo
era un gioco, un divertimento,
un modo per non svelare che la maschera,
tra noi due, la mettevo soltanto io, per proteggerti.
Tu invece, mio re, non creavi maschere ma personaggi,
o meglio trasformazioni da incarnare di continuo,
per sedurre e conquistare.
Eppure ti ho amata, qualunque cosa voglia dire questa parola;
la tua inafferrabilità mi ha permesso di continuare a immaginarti
come ti vorrei,
ha impedito che un sogno mirabile d’amore si riducesse
a un marito.
O forse avevo bisogno che tu mi stessi un po’ a distanza,
lasciamelo dire: noi cigni abbiamo il collo fragile
e le piume bianchissime; abbiamo paura di essere divorati
o peggio sporcati da mani da meccanico.
E dunque ti ho amato, e pure lo son stata, amata,
sono rimasta in questa storia che tu hai scritto per questa famiglia,
per me, per tua figlia, per tutti noi,
assegnando ad ognuno un abito e un testo.

Questa recita è stata la vita che abbiamo condotto,
non tanto come falsificazione quanto come pubblicazione,
come rappresentazione di ciò che il fondo di una giara cineraria
può contenere – il vento, il fuoco, la conoscenza,
la contraddizione, la moltitudine, l’instabilità -.
E in questo, la verità e la durata del desiderio,
per quanto un desiderio può durare,
oppure nella forma reale in cui un desiderio può persistere.
In quei pochi gesti d’amore, in quegli occhi lucenti
che in qualche notte mi cercavano,
in quelle pagine in cui mi hai fatta vivere,
ho riconosciuto tutto l’amore che tu mi hai riservato.
Trovarsi a invecchiare con te era la prova che non m’ero sbagliata,
che la costruzione di un vestito sartoriale è cosa da pungersi le dita
mille volte.
Dipingere con te questa casa,
viaggiare sulle tue ali o le tue armi, foss’anche al supermarket,
intorno all’isolato, mi ha reso serena,
mi ha trattenuta in vita, dando un senso di dignità
e rispetto al mio essere ultima.
Mi segui, mio re?

A volte parlo da sola, o forse sempre,
in questa casa di cui custodisco lo spirito dei muri
dei pavimenti, l’alito caldo che dai muri si riversa sui nostri corpi,
quando la sera tardavamo a prendere sonno,
tormentati dall’umidità e le zanzare.
Se sono una statua? Una sacerdotessa?
Oppure io stessa un’allucinazione?
Che importa ormai.
Quell’ultimo soldato mercenario con cui ho giaciuto
in quest’ultima notte eri tu.

Ho riconosciuto il profumo del tuo corpo e del tuo sesso;
ho rivisto la leggerezza del tuo animo, del tuo desiderio;
ho sentito il tu passo veloce correre via, chissà dove,
ancora e ancora. Lo vedi?
Mi hai lasciato il tuo guanto sulla maniglia,
per abbracciarmi ancora,
e io l’ho indossato, mi ci accarezzo, mi consolo.
Mi hai lasciato ancora il peso sulla rete del letto,
e il tuo peso si muove sopra e sotto,
mi fa fare l’amore. E poi, lo so,
hai fatto il giro dell’isolato,
sei rientrato chissà da quale piano di questa casa ormai vuota
ma popolata dai tuoi fantasmi e dai miei desideri.
Lo vedi?
Le tue scarpe di vernice nera – quelle che indossavi
nelle grandi occasioni o nei ricevimenti degli dèi –
sono proprio qui sotto i miei piedi,
in questa plica di velluto rosso addossato alla finestra.
Mi sorreggono, mi sollevano.
Le tue mani mi stringono.
Balliamo il tango che io ho amato tanto,
l’oblivio fa da sfondo ai nostri pensieri,
la musica ci avvolge e ci trasporta, dove nulla più si perde,
in questa casa priva dell’inutile ed effimero.
Le note mi consolano,
le mani tue mi guidano,
il tono di questa musica ci porta lontano, finalmente,
come due novelli sposi, come all’inizio,
quando non c’era che questa casa e il nostro amore.
Mi porta fuori di questa finestra,
volandomi accanto,
dicendomi “ti amo”.





Napoli, 25 maggio 2022

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Euridice


(Scena vuota. Luce crepuscolare, all’inizio, poi cangiante da un estremo all’altro dello spettro. Pochi oggetti di scena: una panca, una colonna, fogliame, qualcosa che evochi un bosco, un cimitero, ma senza descrizioni realistiche. Sul fondo di scena, saranno proiettate immagini evocatrici di qualcosa dell’infanzia, del mito, e spesso immagini e forme non comprensibili. Anche la musica seguirà questi passaggi, questi mutamenti, da melodie note e comprensibili a musiche e suoni inauditi. Euridice è vestita all’inizio con un abito neutro, quasi una tunica di tela; poi il suo abito cambia diverse volte, come per un prestigio. Lei parla a Orfeo, vestito di abiti borghesi, che sta sulla scena muto, ad ascoltarla.)



Vieni, entra, accomodati,
è così bello rivederti qui, in questa casa di cemento
immersa nel silenzio, nel crepuscolo, nel verde…
È la prima volta che vieni a trovarmi, e sono emozionata.
Lo so, hai fretta di portarmi su alla vita, tu,
ma io voglio parlartene prima, e ascoltarci a vicenda,
e poi non c’è più fretta.

Qui, tra i morti, il tempo ha il passo lungo delle attese,
quel tempo che da giovani noi tutti abbiam provato
quando c’innamoriamo, la prima volta, ci stendiamo su un prato,
guardando fuori o dentro di noi, nel sole, nel cielo, per ore …
ah sì, l’amore… è così forte e giovane e bello, questo guerriero,
che ogni guerra la dura e la vince,
che umilia la morte o la deride, la disarma
assumendo su se stesso le sue fini strategie.

Anch’io son stata giovane, sai,
mi sono innamorata di te, Orfeo;
per te ero già pronta ad arruolarmi in ogni sfida,
andarmene di casa, vivendo nei boschi,
vedendoti tornare, di giorno, di sera,
sporco di terra, ma limpido e alato;
e quella luce immensa che avevi negli occhi…
quella luce mi portava dove i treni non arrivano,
nell’orto dell’infanzia dove tutto è esaudito
ancor prima che desiderato,
dove gli alberi e i fiori si fondono in nuovissimi archetipi,
profumati e rari…

Eh sì, quando si è giovani e innamorati lo spazio non conta,
non c’è voglia di case, di ville o di poderi;
si sta bene tutto il tempo tra le braccia dell’amato,
sul suo corpo profumato, distesi e soddisfatti,
dentro a una culla per neonati,
di quelle scintillanti di sete e luminarie…

Siediti dunque, ti sento ancor teso,
come se faticassi ad arrenderti all’ignoto di questo mondo.

Sai, quando fui braccata da Aristeo, capii che la mia vita
era finita.
Fino ad allora ero stata una ragazza speciale, innamorata.
Mi perdevo nei boschi, ammirando la bellezza dei fiori,
parlando con gli alberi, giocando a nascondino coi cerbiatti.
Una sorta di ebbrezza mi assaliva di continuo,
potevo sentire più cose di concerto,
amavo chiunque, saltavo sulla corda, nuotavo nei fiumi;
m’importava di dipingere ninfee, fotografare la lince
o i colori della neve.
Soprattutto mi perdevo nel desiderio di te, mio Orfeo,
non vedevo l’ora di incontrarti, perché mi baciassi,
perché mi stendessi sul prato fiorito ed entrassi… dentro di me.
Allora chiudevo gli occhi e un brivido di gioia mi prendeva
così a lungo che svenivo.
E se qualcuno mi avesse detto che potevo morire
per quell’amore gli avrei gridato sì, sì, sì…
non volevo che restare in quel deliquio che ci fa essere
fibre dell’universo, senza per questo tradire lo sposo.
Ero libera di amare, di amarti, di cambiarmi in ogni forma
del mondo,
giocando a quel teatro delle maschere che rende inafferrabili
gli amanti e le favole.
E tu eri lo sposo ideale, così abile alla musica,
così bravo da sedurre uomini e dèi, tutti,
così colto da contendere ad Apollo lo scettro di poeta.
Eri il mio doppio, sbarazzino, coraggioso, irriverente:
non avrei potuto legarmi che a te; eri il sogno di una vita
non dissolta nelle piccole incombenze quotidiane,
l’esempio di un amore non consunto o raggelato,
non mutato nel rimorso di una iena, imprevisto e ferale.
Eri un uomo, un compagno, un amore che non passa,
l’alito che attraversa ogni elemento, ogni idea,
ogni conflitto del mondo e lo compone,
lo riporta a un’unità che ci commuove.
Il sesso con Aristeo mi ha uccisa, obbligandomi ad essere metà,
una sola metà del tutto, soltanto una donna, un’adulta,
una sposa,
fissata come una statua nel ruolo di massaia.
Non mi ha uccisa il serpente.
Poverino, era solo un giocattolo di gomma.
Mi ha ucciso la prospettiva della normalità – come la si intende –
essere un’unica immutabile entità,
vivere la vita per qualcosa, per qualcuno, ma uno solo.
Mi ha uccisa la fame del controllo, del possesso, la totalità
che la vita normale – quella dei vivi – comporta.
Volevo stare al mondo senza definizione, io,
senza sapere chi essere.
Volevo gioire degli altri e con gli altri, con tutti gli altri…
Fossi rimasta viva, con Aristeo o con te, mi sarei trasformata
in una dea, adorata e celebrata, ma morta nell’animo, amputata.
Per fortuna, Persefone ha avuto pietà.
Lei conosce le lacerazioni, le divisioni, le rinunce.
Lei sa cosa significhi essere costrette a transitare
da una parte all’altra, da una maschera all’altra,
a sembrare serene mentre il fuoco e il desiderio ci posseggono.
Mi ha mandato la morte, sua ancella, a salvarmi,
mi ha mandato la sua morte a salvare la mia anima
e il mio amore per te, Orfeo. Anche questo.
Soprattutto questo.

Sai, i sogni non sono così distanti dalle cose da essere al sicuro.
Spesso può capitare di afferrarne qualcuno,
e questo scoppia come un palloncino gonfiato,
di quelli colorati che i bimbi trattengono col filo di spago.
Passare con te la vita ordinaria significa scoppiare,
e allora di quel sogno non resta che la pelle afflosciata.
Io e te diventeremmo soltanto persone, anziché sognatori,
diventeremmo sposi, anziché amanti,
soggetti alle catene del controllo, della moralità,
e del nostro amore, del nostro desiderio che ha fatto storia,
del nostro spirito che le cose del mondo ha animato,
di tutto questo non resterebbe che un rilievo di qualche artista,
sbiadito su un cratere o su una metopa.
No mio Trace, questa pena non vale noi due.

Qui, fra i morti, posso fare ciò che volevo,
fuggire dalla gabbia della coerenza o dell’opportunità
– come diciamo quando deprechiamo il desiderio dell’altro
senza apparire bigotti o invidiosi -.
Ho potuto lasciare libero te, mio amore, e tutti gli altri.
Ognuno degli amici, dei parenti, dei colleghi, dei discepoli,
ognuno è stato libero di scordarmi oppure no,
di andarsene o tornare,
guidato soltanto dalla verità di un desiderio ritrovato.
Non ho legato nessuno a me stessa,
non ho ingabbiato nessuno in un ruolo immutabile,
non ho chiesto a nessuno degli amori di amputarsi,
tanto più se ritenevo di non essere capace
a soddisfare il suo bisogno.
E gli altri defunti, hanno avuto per me lo stesso rispetto
che ho avuto per loro,
hanno condiviso non il possesso ma la molteplicità,
hanno scambiato con me la gioia del corpo,
non il piacere striminzito ed egoistico che appaga chi lo cerca.
Qui – ti dicevo – grazie alla ricchezza dei vissuti e delle forme
con cui restiamo al mondo, ho potuto sentire per te
lo stesso desiderio dei vent’anni.
E tu, sei stato libero di volermi e di sognarmi,
perché assolto dalla vita, dal legame soffocante dell’unità.
Non parlo di fedeltà, parlo di un unico modo di stare al mondo.
Sei libero, capisci? La libertà è l’essenza della vita, della verità,
anche se non della normalità, e certo del desiderio.
Ti permette di venirmi a trovare ed essere qui con me, ora.
Se ti dessi la mano, e di nuovo tornassi alla vita,
la luce ipocrita degli altri, dei giudizi e dei compromessi,
mi spegnerebbe,
spegnerebbe quel desiderio che mi anima e asserena,
che mi spinge a riconoscere il bello anche nel vuoto, nel buio.
Se ti seguissi sarei tua moglie, certo, ma solo questo,
sarei cupa e malinconica per ciò che è da rimuovere,
e i miei occhi si velerebbero di un pizzo di acredine o di colpa.
Tu saresti legato per sempre al mio viso, castrato e insoddisfatto,
proveresti colpa per me, sentiresti di non riuscire
a riparare la ferita,
faresti di tutto per me, ma inutilmente.
Ben presto la colpa e l’impotenza si muterebbero in rabbia,
in odio, e non sapremmo più chi siamo, nessuno dei due.
A quel punto, saresti anonimo, saresti Aristeo;
non ci sarebbe differenza tra te e quel pastore possessivo.
Capisci? Per questo son felice di restare qui altrove.

No mio Trace, questa pena non vale per noi due,
Orfeo e Euridice rimarranno due stelle, saranno galassie,
per sempre ammirate.
Ognuno potrà intravvederci la luce dei suoi sogni.
Per me resterai il compagno di viaggio, stimato, desiderato.
Nonostante le molte forme che la mia esistenza assumerà,
nonostante gli elementi naturali con cui mi fonderò,
sarai lo spirito che non si perde, l’alito che tiene in vita,
la stella a cui rivolgersi.
Ti conosco, Orfeo. Ci conosciamo, siamo uguali io e te.
Per questo, comprenderai.

Qui, la morte s’inchina all’Amore e al Desiderio,
sapendo di non essere all’altezza degli dèi;
qui, la Vecchia non riesce a levarsi più in alto della terra,
e, su tutto, si vergogna di bastare a nessuno,
nemmeno a se stessa.

È una serva, la morte; nessuno è gelosa di lei;
nessuno combatte per averla, non ha fascino, è bruttina,
non ha tempo né pace. Spaventa,
ma è solo questo blocco di cemento, questo scavo nella terra,
questa cassa di legno o di ferro nella quale ci ripongono i vivi,
temendo si rifiuti quell’eterna cerimonia
della veglia e la preghiera,
non sapendo viceversa che noi vecchi stiamo fermi o distesi,
occupando poco spazio, di modo che nessuno si preoccupi di noi…
Perché noi siamo altro, ci dedichiamo ad altro,
siamo liberi di assegnare le giuste parole alle cose, finalmente,
guardando al mondo e a noi stessi poeticamente.
Luci e colori ci accolgono festosi, qui, fra i tronchi dei cipressi,
e noi stessi trasmutiamo, arcobaleni.

Di fresco mattino, al cinguettio dei pettirossi,
il primo raggio di sole ci toglie i calzini,
ci scopre le dita dei piedi, come una geisha accorata e materna;
ci massaggia, ci profuma, si cura delle unghie,
tingendole di smalti sfavillanti ed intensi
– rosso cristallo, verde oceanico, azzurro marzolino -.
A poco a poco il sole si alza sui tetti, svelando i fastidi e i desideri,
creando un florilegio di colori in cui danzare,
ognuna con l’abito più bello che ha sognato,
ognuna calzando le sue parigine,
ognuna aggiustandosi la gonna color crema,
quella che di solito si usa a un matrimonio.

Oh sì, il tempo è lento qui,
è così bello prendersi cura di se stessi mano a mano che il giorno
distende il suo ventaglio, curando nel dettaglio ogni piccola azione,
avendo per mano ogni tinta della terra per truccarsi,
ogni luce del cielo per vestirsi,
ogni vento della rosa per profumarsi.
Ognuno di noi ha la sua ancella servile, la morte,
ubbidiente e preparata a ogni nostro comando…
Ci aiuta a girarci sul fianco di notte,
ad alzarci e passeggiare per questi viali in cui c’è il nostro presente,
i parenti, gli amici, gli amanti,
tutti quelli che vogliamo aver vicino in questo cammino nell’aldilà.
La morte ci serve – ti dico -, ci lava, ci medica
se talvolta ci graffiamo con un ramo;
si prodiga per noi di modo che l’Amore non se ne abbia o la ricacci,
impedendole più a lungo di badare a noi altri.

Qui, Orfeo, il potere smette di esistere,
e i forti, i potenti, che soggiogano gli uomini con le armi
e con le azioni,
rimangono nudi, vestiti soltanto di un telo bianco,
per aiutare la morte a servire gli altri,
per imparare come scolari che la gioia dipende dall’altro,
dal suo sguardo mite o accigliato,
dal suo animo accogliente o raggelato.
Questo, i potenti non lo sanno da vivi,
è per questo che gli assegniamo di imparare ad ascoltare,
a curarsi dell’altro, magari uno solo,
aiutandolo a distendersi nel bagno,
strofinandogli le spalle con il guanto di spugna,
inclinandogli la schiena, toccandogli la testa
con le dita e con l’amore che sono dei papaveri
passati tra i capelli.

Eh sì, il potere non esiste qui,
dove lo spazio dei morti è quello dei ricordi
con cui ci richiamate,
dove il tempo dei morti è quello che voi vivi ci dedicate
quando venite a trovarci,
un poco imbarazzati, un poco spaventati,
non sapendo che noi morti non vogliamo altre parole ma presenza,
vogliamo braccia su cui saltare, abbracci tra cui cullarci,
labbra da baciare.
Abbiamo bisogno del vostro corpo qui, con noi,
del vostro animo su cui sederci.
È questa la gioia: ci facciamo trovare puntuali con voi,
ci copriamo degli stessi colori con cui ci vestite, vi rassicuriamo,
vi portiamo in dono il sole, tenuto per mano come un fiore
o un lecca lecca,
lasciandovi sugli abiti la sensazione dell’imponderabile
e della serenità.

Qui, il potere non esiste dunque,
poiché il tempo e lo spazio son quelli che noi vi concediamo,
quando veniamo a trovarvi nei sogni o negli incubi,
o che voi ci concedete, con le vostre preghiere, i vostri ricordi,
i vostri canti, i vostri sorrisi distratti.

Qui, le parole hanno la bellezza dei fiori, la sostanza del vento,
il tempo è un brucomatto che viene a risvegliarci di mattino
facendoci il solletico, leggendoci il giornale davanti a un caldo thè.
E la pioggia, la vedi?
Le gocce saltellano pian piano di tegola in tegola, di ramo in ramo;
gocce azzurre di santità scintillano a migliaia
come costruendo un lampadario,
di quelli magnifici che pendono in hotèl,
oppure un frangiporta di fili di svarovski,
com’è di quei cannilli che un tempo si mettevano alla porta
perché non ci scocciassero le mosche,
o il vento non smuovesse i fazzoletti sulla tavola da pranzo.

Qui, regna la musica, in un modo che nemmeno conosci.
Non abbiamo bisogno della vista per controllare gli eventi.
Li accettiamo con la grazia di chi ascolta ogni moto del mondo,
ogni vibrazione delle cose – il distendersi della pelle,
delle articolazioni, del legno su cui sediamo,
della rugiada che ci raggiunge nel pomeriggio -,
e cambiamo tutto questo in note da suonare,
in fughe, terzine, quartine, vibrati, pianissimi, glissati.
Privi della vista come siamo (ci è mai stata utile, d’altronde?)
abbiamo imparato a tradurre il dettato melodico della natura
in una sinfonia, la cui meraviglia sta nel piacere
di ascoltare insieme, di volare coi ricordi e le emozioni insieme,
immersi in quel flusso di piacere che è l’armonia.
E tu questo lo sai Orfeo, esperto come sei di musica e desideri.
Ma noi, la musica, la produciamo naturalmente,
a differenza dei vivi che usano il tempo per conquistare,
lo spazio per soggiogare, il corpo e gli strumenti per colpire.
Le mani vi ingannano, i pensieri vi sembrano forti;
il vostro corpo lo assecondate, lo proteggete, lo potenziate
come si fa con un cane da guardia,
non sapendo che in questo è il potere della morte,
quando la combattete con azioni e intelligenze
facili da sconfiggere.
Così la morte stravince sui vincenti,
sui dittatori paffuti e patetici, coi loro spazzolini da denti
graffiati sotto il naso,
sulle loro uniformi ingessate dalle lacche,
così rigidi e soli nei loro sarcofagi costruiti nelle piazze,
di modo che tutti li vedano e ricordino.
Che illusione, che delirio!
Pensare di guadagnare l’altezza e la centralità
con qualche scultura, quando invece la morte se la ride,
sapendo che ben presto vincerà, sui bronzi e sui graniti.

Qui, invece, in questo campo fiorito e alberato,
l’altezza la affidiamo a voi altri, alle vostre preghiere,
alla vostra passione di sognare, di sognarci,
sognare al nostro posto.
Qui, nel nostro giardino d’infanzia, si può essere centrali
soltanto accostandosi agli altri, abbracciandosi agli altri
tenendosi per mano, o facendo un girotondo,
come in qualche scampagnata da bambini per pasquetta.
Qui, al centro non c’è una chiesa, un’idea,
non ci sono palazzi o teoremi da ammirare: ne rideremmo!
Qui, al centro, ci sono i ricordi; ci siamo io e te,
quando vieni a trovarmi con un fiore tra i pensieri.
Qui, al centro sta il gioco, il bello, il fuoco,
quando le sere noi morti ci troviamo davanti al gran Teatro
di marmo, seduti attorno al fuoco a mangiare il tajine
oppure ballando, battendo tamburi,
facendo vibrare le foglie degli alberi coi canti e le preghiere
gioiose e serene.
Qui, l’impegno – come diresti tu –
non è pensare ma sentire, non è capire ma comprendere,
non è avere ma condividere.

Ricordi Penelope? Era fedele a Ulisse – come lo ero io per te -,
e quanto l’ha aspettato. Era questo il segno del vero amore?
O forse del possesso, dell’angoscia, dell’abbandono?
Adesso che è qui, Penelope, adesso lei ama Filocrate e Menelao;
ama il telaio e sua madre, ama i figli e la pittura,
il suo sposo Ulisse, lo ama quanto prima e più di prima,
lo copre di desiderio, lo spoglia con gli occhi
ogni volta che s’avvicina.
L’assenza di confini, di spazio e di tempo, non le ha tolto il desiderio,
gliel’ha moltiplicato, lo ha reso più acceso.
E lui, Ulisse, l’ambiguo infedele marinaio – come lo chiamavano -,
è diventato un ospite prezioso che mangia nella mano di Nausicaa,
senza che questo gli impedisca di godere di Penelope!
Qui, la sfida è diversa, dunque; l’armonia è nell’insieme,
perché ogni incontro d’amore ci riempie – anziché svuotarci –
di linfa e di gioia,
grazie alla quale possiamo amare più forte i nostri amanti.

Ti ho stordito amore mio? T’ho stancato?
Beh, non prendertela! Ascoltami come una sorpresa,
come un mistero, una musica nuova,
un nuovissimo primo sogno.
Quello che senti qui, attraverso di me, è più della vita,
anche se tu non la chiami più vita.
La vedi la cinciallegra che salta e si nasconde su quel larice?
Lei ride e svolazza anche se non tu non la vedi,
e canta per te, anche se non la comprendi;
e quella siepe di pitosforo e di arancio? La senti?
Il suo profumo ti avvolge copioso, ti intride le vesti,
il ricordo del futuro, qualunque cosa diventerai;
e questa luce di mezzogiorno, alta, avvolgente,
calda e comune come una scuola primaria, la vedi?
Ci scalda, ci ristora, ci prende per mano, ci porta a passeggio.
Ne sentiamo sulla faccia i bei raggi,
e questa percezione ci guida all’incontro con gli altri,
come il vento che spinge la nave.
Che questa luce ti giunga attraverso la terra
o dal vetro dipinto della cappella, o anche sulla foto di ceramica,
tu impari comunque a acchiapparla,
di modo che i raggi ti guidino lontano.
Non abbiamo bisogno degli occhi per vedere, quindi
– quelli d’altronde li abbiamo donati già ai vermi,
come pure tutto il resto -;
Non abbiamo bisogno di scrutare per avere o legare qualcuno.
Abbiamo imparato che c’è sempre un bel suono, una luce,
una qualche molecola del mondo che ci tocca, ci riguarda,
ci viene a chiamare, ci porta in vacanza, ci invita a cena,
ci fa desiderati e amanti.
Di sera, nelle notti d’estate, frammenti di stelle
riemergono dal suolo e saltano sui tetti, sugli alberi, come Elfi.
Siamo noi che giochiamo a rincorrerci,
sapendo prima o poi che in un’altra versione del tempo
sott’un’altra figura del reale, ci troveremo a baciarci,
seduti sul balconcino del castello di biancaneve
o su qualche altro balcone del mondo su cui una lampada
stia accesa.

E i profumi, li senti?
Queste note di agrumi, di aldeidi, di eriche e mughetti:
queste note sono il richiamo di Elène per Paride;
la sento, la conosco, la conosci anche tu:
si specchia davanti ai vasi di fiori che ornano le tombe
truccandosi con cura, coprendosi di essenze inaudite,
cogliendo cedri e giacinti e legnetti stagionati
che sappiano di bosco, di foglie, di cuoio e di castagne…
Ricordi il suo rossetto? Il misterioso ombretto?
Li senti i suoi richiami? Anche lei ha fatto la nostra scelta:
rinunciare ad una vita regolata, per continuare ad essere amata
in ogni forma e pulsazione del mondo.

Qui la storia è dovunque, e tu sei dovunque,
sei la fibra del legno su cui riposi,
la seta del marmo su cui t’addormi,
sei l’aria che ti avvolge e ti attraversa; sei qua e sei là,
sei l’alito che sale dal corpo e infonde il desiderio;
sei polvere che sale dalla terra e si posa sul bottone
della camicetta – quella d’organza – ricordi?
me l’hai regalata per l’ultimo compleanno -;
sei il corpo che sublima nell’aria,
nella splendida e calda bell’aria agostana;
e quest’aria di campo, di ogni campo del mondo,
sei tu che ritorni dalla storia, dalla materia,
e prosegui dappertutto.

Questa luce di mezzogiorno, questo incenso di arance,
questo volo di rondini, quest’incontro di elementi;
questo essere nel mondo diffusi,
in un ramo di gelso, una radice, una molecola del vento,
tutto questo aldilà non esiste da vivi,
non è storia o teoria, e non è religione.
Non devi capirlo, non esiste, non devi crederci.
Devi costruirlo, piuttosto, giorno per giorno,
come si fa col sogno, con l’amore,
come si costruisce un oggetto interiore.
Incontro dopo incontro, perdita dopo perdita,
potrai costruire questo modo di stare nel mondo diffusi e differenti,
al di là delle linee già note dell’esistenza.

Devi provare, provare a sentire che ogni cellula,
ogni parola, ogni emozione, ogni pensiero per quelli che amiamo
è un composto di forme e di sostanze senza principio,
che non posso decifrare ma che pure esistono,
e sorpassano il presente,
come una sinfonia lo spazio che la contiene.

Per questo, amore mio, torna pure di sopra, alla vita,
al dispendio di forze e sentimenti per guadagnare un altr’anno,
un livello di carriera, un margine più alto di certezza.
Ti ringrazio per avermi invitata a seguirti di sopra,
per avermi proposto la vita, di nuovo.
Preferisco restare di qua, dove sono.
Lasciami dovunque, a ogni cosa, a ogni tempo.
E non angosciarti se non vedi o non mi tocchi.
Fidati. Ci sono più di prima. Ti amo più di prima.

La vedi quella splendida farfalla, nero e arancia?
Brilla, si avvicina… è mio padre, viene a prendermi…
Mi porta al ristorante, sotto il lume delle stelle,
mi dona le carezze che ho mancato nella vita,
mi porta le carezze che tu mi hai regalato;
mi canta le parole che tu mi hai dedicato.

Chiudi gli occhi, preparati anche tu, adesso.
Ti aspetto.

(La musica e le luci si attenuano e divengono stranianti, per qualche minuto, durante il quale Euridice scompare lentamente nel fondoscena. Dopo, la scena, tutta, diventa un interno di casa, nel quale rimane solo Orfeo, a biascicare qualche parola senza senso).


Napoli, 10 – 19 maggio 2022

Poemi d’amore perduto, di prossima pubblicazione

Aiace


(Scena vuota. Buia. Appena una luce sulle cose e sulle azioni. Aiace è vestito bene, in abito scuro e cravatta. È deceduto appena un giorno prima – la sua morte è stata celebrata pubblicamente -, ma adesso è di nuovo in scena, presente. È steso su una poltrona, di tre quarti rispetto al pubblico. Ascolta. L’altro, Ulisse, è sopraffatto dalle emozioni per questo ritorno dell’amico. Si muove lentamente, comincia a parlare rivolgendosi all’altro e chiamandolo indifferentemente con l’uno o l’altro dei suoi due nomi: Aiace/Alfonso. Musiche diverse accompagnano o intervallano il monologo.)



Vieni entra accomodati,
sei così bello con quell’abito nero con cui ti abbiam vestito
la cravatta sì elegante, quegli occhi azzurro mare,
e quel viso sorridente e così bello…
A quest’ora del giorno, in quest’ora di fine marzo,
la pioggia cade lentamente,
come riflettendo sul dolore capitato.
Gocce di cristallo rimangono, appese alle ringhiere,
formando un lampadario di case aristocratiche
in cui anche la morte appare affascinante.
Vieni, vieni dentro, ritorna,
ho bisogno del tuo coraggio che m’ha sempre consolato,
quando si lottava tra bande rivali
o quando accadeva di scendere in cantina
a prendere dell’olio o del vino, una forbice da pota,
una panca, e i ragni, sospesi per un piede,
ci attendevano sul varco per prenderci in giro…
Allora ti afferravo per il braccio perché m’ascoltassi
“sbrighiati Alfò, tuo padre ci aspetta”.
Ma in fondo era lo sguardo a rendermi sereno,
non la guapparia con cui mostravi il petto.
Oh, mio dolce fratello bellissimo e forte e buono,
coraggioso e aitante, sei tornato meno male!
Che spavento!

Qui da noi, il cielo promette l’estate.
Il primo mattino si tinge di topazio, di grano,
la bruma sottile ci chiude le palpebre, portandoci nel sogno,
di fronte a quel mare lungo il quale vanno i bimbi
sui gonfiabili a giocare,
sul balcone di Vieste dove più volte ci siamo svegliati
felici di stare insieme, di stare vivi a goderci l’estate,
spaccando l’anguria, succhiando amarena,
facendo colazione con l’avena dei biscotti,
e quella cremacaffè che tu preparavi con fare da generale…
Quanto mi piacevano quei giorni d’estate!
E come sono contento che tu sia tornato,
meno male! Che spavento!

L’altro giorno eravamo insieme – ricordi?…
…il cardiologo, il buio, l’ecografo.
C’era silenzio, avevi paura ma stavi attento.
Il giudice temeva che tu stessi male,
che l’attesa tua di vita fosse minima.
Sembravi spaventato da quell’oscuro male
che voleva sfottere te, il prode, l’impavido,
l’amico più forte tra noi tutti,
come una mosca sull’occhio di Zeus seminatore di fulmini,
ignara del potere di quel dio.
Allora t’ho afferrato con lo sguardo, come si usava da bambini
quando uno dei due scivolava in un pozzo
e l’altro l’acchiappava per la mano.
Ti ho portato di nuovo in superficie, alla luce, alla speranza.
Fammi posto – Alfò – sul lettino,
c’è da battersi, e noi ci batteremo,
c’è da viaggiare e noi lontano andremo, pure su Marte,
per farci curare.
Non spaventarti, ci sono e ci sarò, come sempre ci son stato.
D’altronde, siamo stati inseparabili
nelle nostre estati ad Ascoli – ricordi? –
Di mattina, stavo a spiare tra i cannilli quando chiamarti,
e tu, già pronto alla battaglia – scarpette, racchetta,
e la fionda immancabile –
aprivi la porta al mio richiamo, col sorriso così largo
– Ciao Enzù, jemeccinne -.
Eppure stavolta. Tanti anni più tardi, hai sorriso di nuovo.
Il tuo viso s’è disteso; ho rivisto quello sguardo
del fanciullo sulla porta, pronto a lottare.
Un raggio di sole ha colorato le tue guance,
appena filtrato dalle persiane dell’ambulatorio;
la stanza intera s’è riaccesa di vita,
il cuore ha rallentato, potendo abbandonarsi…
Siamo usciti dall’ospedale, che felici!
Abbiamo raggiunto i bambini che aspettavano impazienti
su un bel prato, a prometterci le stelle
– ciao Enzù, non devo dirti niente, ti chiamo per telefono -.
Anch’io son ripartito, nel cuore la dolcezza di una festa,
una comunione, la primavera
ché il tempo della vita è sempre più breve dell’amicizia,
e forse per questo gli amici muoiono presto,
potendo affidare all’amico le cose più belle di sé stesso,
perché l’amico ha il tempo lungo che la morte non ha.

E noi, di tempo ne abbiamo avuto.
Ci siamo detti amici quando il nome più giusto era fratello
compagno, amore, insieme fin dalla nascita,
gli stessi calzoncini, la stessa racchetta, la stessa partita.
Come si fa ad elencare tutte le foglie di un pioppo,
tutti i petali di un di una magnolia;
come si fa ad assemblare le perle di una collana,
tutti i fatti, che abbiamo vissuto, Alfò, – ti ricordi quella volta?
Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi…
e appena abbasso gli occhi,
mentre cammino per strada o mi siedo sul divano,
risento quella voce dell’autista che invitava a sbrigarsi
– “Amma chiude li porte, stem’ partenn” -;
rivedo noi due fieri, nel primo mattino, seduti vicini nel pulmann
gioiosi di partire per Foggia a comprare una racchetta,
oppure da Leone, per scegliere il binocolo
con cui scrutare i Dauni dalla nostra capanna sopra Pompei.
Dai finestrini, le case sfilavano una dopo l’altra
– quelle rosse, cantoniere, così belle nel loro abbandono,
quasi fossero papaveri issati nel grano –
insieme a quei luoghi che avrebbero segnato le nostre giornate
da uaglioni impertinenti: la jumara, dove andavamo a pescare
qualche pesce d’argento, o meglio a fare finta di pescare,
perché la gioia, la vera gioia è giocare,
schizzarsi con l’acqua, tirarsi di pietre o pallonate,
raccontare le gesta di noi futuri eroi:
– “Enzù, ieri mi sono fidanzato con la più bella di tutta Foggia,
madonna mia, non ti posso dire… e che menne! -.
E noi altri che invidia! Chi l’aveva mai vista una ragazza,
se non in qualche processione patronale,
quando litigavamo per stabilire chi dovesse portare
la Croce o la navetta… Ti ricordi, Alfò?

Vedi, ci provo testardamente, ad assemblare una dopo l’altra
le cose, – le pietre, le fionde, le palline, le musicassette,
la nostra amata Vieste, la nostra Margherita,
dove ogni volta l’estate finisce e comincia.
Qui, su questo tavolo di legno che equivale alla terra,
c’è steso il mondo, il nostro mondo e il nostro tempo,
e a me tocca la memoria,
come l’ultimo archivista che sistemi i suoi papiri,
sperando che un bel giorno qualcuno s’appassioni.
Io sono l’archivista, che prova a unire i pezzi,
come temendo di disperder l’essenziale
– un segnale, una chiave, la chiusura di una collana –
sebbene, lo sai, qualcosa sfugge sempre,
sottraendosi alla nostra memoria
prima ancora che alla nostra comprensione,
e noi dobbiamo benedirla questa perdita, che permette
di colmare la memoria, di unire i pezzi,
di inventare o raccontare le storie più pazze, le più sciocche…,
– questa foto, la vedi, sul pavimento? –
Eri appena diventato “lupetto” e iniziammo a girare
per i borghi della daunia con gli Scouts.
Ti piaceva raccontare quella volta in cui a Orsara
ti eri prestato a uno di quegli scherzi goliardici
che segnano la vita dei più forti:
mettere il dentifricio sulla bocca del più scemo
di modo che al mattino lo sfortunato non potesse
nemmeno guardarsi allo specchio, tant’era gonfiato
il suo muso da “braciola”!
Oppure quando, diec’anni più tardi, da militare,
hai trovato un Maggiore che voleva umiliarti,
e l’hai minacciato di prenderlo a calci,
sprezzante come sempre di rischi e conseguenze!
Storie come queste hanno forgiato il tuo mito di impavido,
Aiace, il più forte, prima ancora che la trama
dei nostri racconti e le nostre esistenze.

Per noi, l’infanzia è stata una sfida per essere stimati
dai padri; una sfida continua per esser memorabili.
Si facevano gare di calcio sull’asfalto,
giochi violenti con le fionde e con le frecce;
si affilavano canne sulle Murge, si facevano radiette in terra cotta;
si sparavano battute a cent’all’ora sul portone delle suore;
si alzavano aquiloni di carta velina comprata da P’trina;
si scalava la facciata del convento per salire sopra il tetto
e star fermi in equilibrio.
Oddio, Alfò,
l’abbiamo fatto davvero? Siamo stati così crudi in battaglia?
Abbiamo preso a fiondate i nemici del nascondino?
Abbiamo accoppato i lampioni di Santa Maria?
Abbiamo sfasciato le finestre del Santuario sulla via del Cimitero?
O forse questa è storia,
quella che abbiamo intessuto e narrato per noi due,
davanti alla legna che crepita in casa?
La storia da contare agli amici,
perché nulla è più bello del racconto di Aiace e Ulisse,
di queste pages d’Odyssée che un giorno avremmo letto.

Ecco lo vedi, ci casco ancora, sto ancora ricordando.
Il mare è negli occhi, nello stomaco.
Respira e si calma, ruggisce, minaccia di scagliare cavalloni,
ma noi siamo bambini che altro non aspettano a tuffarcisi dentro.
Sto ancora cedendo alla tentazione del flusso ininterrotto,
dell’album senza fine;
non posso pensare che tu te ne vada,
proprio adesso che sei tornato dalla morte,
proprio adesso che siamo qui, con te, a piangere di gioia….
Lo so, ti stiamo stancando coi nostri ricordi,
come fanno i vecchi che giocano a carte,
e ripetono le cose cento volte…
D’altronde, sei questo tu, la nostra memoria, il nostro sorriso.
Noi vogliamo toccarti, fare quello che non facciamo mai,
varcare la soglia del desiderio, adesso che sei qui, vivo,
in mezzo a noi;
varcare la soglia che abbiamo superato solo quando
ti abbiamo lavato e vestito da morto;
solo allora ci siamo concessi di accarezzarti,
scoprire ogni tua piega della pelle delle mani delle cosce,
chissà te ne sei accorto, malandrino!
Sempre pronto a girarti per le donne…; Ah mostr’!
Figurati se non le hai sentite le nostre carezze,
‘ste mani impertinenti con cui ti abbiam vestito
con l’abito buono da cerimonie – il matrimonio, la comunione,
la prima casa, la prima guerra, la prima morte -.

Ora quell’abito voglio cambiarlo;
io voglio, Letizia vuole, Giulia tua figlia e Matteo,
spogliarti con la stessa cura con cui ti abbiam vestito
perché sei vivo e sei tornato, e noi ti guardiamo
dal cristallo delle lacrime che più non arrestiamo;
Io voglio, noi vogliamo
mangiarti di piacere, mangiarti avidamente
succhiare il tuo bel nettare di miele di sorriso,
sfamarci della forza del coraggio, mangiarti e trattenerti.

Ecco, vieni tra noi, sei tornato dopo un giorno dalla morte.
Chissà che cos’hai visto, se hai avuto paura?
Potevi respirare? Il buio t’ha angosciato?
E tutto quel silenzio? Hai parlato con tuo padre?
La formica s’è infilata nei calzoni? –
Chissà se ci sentivi gridare e disperarci, di là dello stagno
con cui chiudiamo i morti, pensando che quelli siano immobili.
E invece se la ridono! Se ne vanno, quelli,
senza rumore, come lo spirito, il desiderio,
gironzano pei campi, s’aggrappano ai ciliegi, ne fanno scorpacciate,
e cantan le canzoni che ripassano alla radio,
si sfottono coi figli, che sembrano felici,
si godono la notte tra le cosce delle donne!
Ah, i morti! Leggeri e immorali,
violini, violoncelli, rondini a primavera, irrequieti,
proprio come noi, che felici correvamo
sulle sponde della Villa,
stendendo le mani per toccare la ringhiera,
o afferrare nel buio qualcuna delle lucciole
nascenti e misteriose, che sfiorano in silenzio,
levandoci al segreto di un mondo sconosciuto.

Lo vedi? Parlo dei morti come dei vivi.
Ma tu, vivo, sei sempre stato, nel senso di vitale, vivace, gioviale
per noi che ti seguiamo per vigne e per mare.

Sono sicuro che hai sentito, mentre piangevamo
davanti alla tua tomba, angosciati dalla mancanza,
perché sappilo, amico mio, la notte della tua morte
anche noi siamo morti, ci siamo perduti.
Il nostro viso si è fatto di cenere,
le nostre orbite più scure, le sclere sono iniettate,
la voce era un singhiozzo col quale abbiam pregato.
D’improvviso, la casa s’è sbriciolata,
i mattoni rossi di Pompei sono scomparsi,
i pini freschi del Boschetto non c’erano più, come dissolti,
e ognuno dei passanti sembrava un sacerdote da interrogare.
Allora sono corso a cercare la mia casa;
ho gridato per vedere se sotto le macerie qualcuno c’era
– mio padre, mia zia, il mio barboncino -,
ma niente, tutto sparito. Sono corso a chiamare te,
ma lì dov’era il tuo cortile s’era messo un venditore di fumo,
col suo banchetto di ferro tagliente,
la sua stufa di ghisa, e i pezzi di legna spaccati a cuneo,
tra cui potevi scegliere l’essenza che volevi,
ulivo o castagno, noce o mandorlo, o pino.

Che senso avrebbe avuto tornare più ad Ascoli?
Cosa avremmo festeggiato?
Di cos’altro avremmo sorriso? Con chi altri avremmo giocato?
Per questo ti abbiamo chiamato, ognuno con la sua voce,
col proprio bisogno inespresso che tu solo puoi colmare,
da allenatore, commercialista, da contadino,
da padre, da figlio, da marito, da amico.

Sono sicuro che tutto abbia sentito,
che in fondo ti sia piaciuto vedere quella folla
assiepata attorno alla bara,
tutti quegli uomini stipati nella piazza che t’acclamava,
gli applausi al tuo passaggio, come fuochi d’artificio.
C’eran tutti al tuo funerale, ammiratori e invidiosi.
Mani giunte nella preghiera e mani strette come tenaglie,
mani chiuse nelle tasche, intrecciate le une alle altre.
Finalmente sei tornato, adesso,
o almeno così sembra a guardare il tuo sorriso, che pare sazio,
le tue scarpe pien di sabbia, e il coltello ancora rosso per l’anguria…
Mettiti comodo qui, in mezzo a noi,
su questa spiaggia di Margherita dove abbiamo trascorso
le ore più liete.
Ci son sempre i tuoi figli che corrono nell mare
e ti chiamano a giocare con loro;
c’è sempre Enzuccio che fa il mattacchione col cellulare
sul “sacro mare di Margherita”;
e poi ci sei tu, che aspetti pigramente di alzarti dalla sdraio,
di aggiungerti in acqua a noi che ti invochiamo,
un poco sbadigliando, atteggiandoti a duce…

Mettiti comodo dunque. Adesso lo sai,
passare per la morte, anche se un giorno, fa spavento.
Non sappiamo cosa pensare, non sappiamo cosa dirai.
Forse abbiamo paura che tu ci dica la verità sulla tua morte,
che in fondo quella morte tu l’abbia preparata –
per vedere l’effetto che fa, e se t’abbiamo rimpianto -,
o che adesso tu dica che vuoi restare morto, finalmente
comodo nei nostri cuori, nei ricordi, nei pensieri,
che tu preferisca sentire il desiderio che proviamo di te,
filtrato da un velo di marmo, e quindi più vero.
E poi temiamo che tu dica la verità sulla vita,
sul ritorno alla vita, e su di noi.
Abbiamo paura che tu ci riveli chi siamo veramente,
non dico per te – almeno quello, speriamo… -,
ma proprio le verità nascoste dell’anima,
se facciamo germogliare il grano o seccarlo,
se siamo veri o falsi, creativi o banali,
se l’ombra che ci segue è più lunga della nostra morale;
abbiamo paura della vita e della verità.
Diciamo di volerti tra di noi, parliamo del mare, di vacanze,
di passione, di viaggi e di progetti per i figli,
ma in fondo abbiamo paura di riaverti in carne ed ossa.
Non siamo sicuri del nostro desiderio, della sua tenuta.
Non siamo sicuri di avere qualcosa di importante nel cuore,
un notturno che appassioni, una rovescio in Coppa Davis,
uno stretto di Barents d’attraversare.
Abbiamo paura della vita.
Temiamo che tu ci obblighi a vedere ciò che rimuoviamo,
il nostro amore, il nostro desiderio,
ovvero la mancanza dell’uno e dell’altro.
Forse preferiamo che tu sia ricordo o allucinazione,
quand’anche non l’ammettiamo.

La rimozione ci protegge dall’angoscia della perdita,
anche se, in tal caso, la vita diventa il cammino di un bruco
costretto a strisciare,
col rischio che una scarpa qualunque ci calpesti,
col rischio di averlo sognato soltanto, il volo delle lucciole.
La trasformazione mette paura.
Tu invece sei tornato, il giro l’hai fatto,
eri un uomo e sei un angelo, eri corpo e sei alito.
Eri il tempo di un orologio dimenticato,
e adesso sei l’affetto che gira, che gira e ritorna.
Sei il vuoto che si empie di acqua sorgiva, del bene;
sei la notte che fa giorno, sei sole, sei luce.
Sei il tramonto e l’aurora, le stagioni che succedono,
l’inverno e la primavera, il buio, la vita vera.
Per questo stenditi, accomodati, lasciati andare.
Vogliamo sapere dell’ignoto che comporti;
vogliamo sapere cos’hai visto della morte,
e apprendere a pensarla, apprestarci a incontrarla.

Lontano, un violoncello suona l’hamabdil,
le note ci struggono e ci esaltano,
ci rimettono in contatto col dolore e la speranza
che in fondo nascondiamo, di perderti e di perderci.
Che tu sia vivo o morto, carne o spirito, delirio o realtà
non importa adesso. Non più come prima.
Ciò che conta è che tu resti, che tu non vada via,
che in questo girotondo di giostra per ciascuno, tu ci sia.
Cosa vorrebbe tua figlia?
Forse vorrebbe suo padre vestito da principe,
con cui mangiar la pizza dopo scuola,
a cui svelare tutto del primo bacio, del primo figlio.
E cosa vorrebbe tuo figlio?
Forse vorrebbe che tu restassi vicino a lui, davanti alla tele,
a guardare la Domenica Sportiva,
sei il suo migliore amico, l’allenatore, l’istruttore.
E cosa vuole tua moglie? Lei ti ama, ti ama ancora –
per quanto la perdita fissa sempre il rovescio
dei nostri sentimenti, l’invidia, la rabbia,
trasformandoli in dipinto mirabile, in pala d’altare -;
lei ti vuole qui ed ora, carne e ossa,
vorrebbe che tu giacessi con lei tutta la notte
sotto le lenzuola di cotone profumate con cui c’hai rivelato
il passaggio tuo nel cielo;
vorrebbe la portassi più avanti nel tempo,
in una di quelle storie mitiche che tu leggevi sempre,
quella in cui Zeus riconosce gli amanti
e li trasforma in due alberi, Filemone e Bauci.

E io, amico mio, fratello, mio cuore, mio ricordo,
io voglio che tu torni.
Voglio che tu faccia la magía più grande del tuo repertorio,
portare la poesia sugli occhi miei costretti a guardare nel nulla.
Voglio vedere quel nastro che registrammo vent’anni fa,
quando la sorte ci mise tra le braccia un filosofo napoletano,
e con lui ci avventurammo in quell’estate sul Gargano!
Voglio rivedere quel nastro di vent’anni, le facce di giovani
appena sbocciati, incantati,
le ali di piuma ancora spiegate sulle spalle;
anzi, voglio uscire da quel nastro e viverla di nuovo,
quell’estate d’amore e d’amicizia,
tra la zuppa di pesce e la chianca amara,
la cena etnica e il Vela Velo,
tra l’abbraccio dell’amicizia e la coscienza
che qualcosa si stava compiendo.

Vorrei che in questo giorno tu mi portassi in quell’infanzia
nella quale ho attraversato il cielo dell’incanto,
dell’attesa senza angoscia, dell’allegria.
Anche se l’infanzia è come la morte – non trovi? -,
una discesa nel buio di se stessi,
dal quale non torni più indietro, non torni lo stesso,
o forse peggio della morte, perché lo sai, Alfò,
nulla è più difficile da vivere che la profondità,
nulla è più del mare, difficile da traversare.
Tutte le corse, le sfide in bicicletta, le fionde, le pallonate
“addret’ a l’edifizio”,
i gavettoni ai fidanzati, le partite “a palline” sotto le scale,
tutto questo, le strade di Ascoli, questo caldo di grilli, d’estate,
tutta quest’infanzia per noi è una condanna e una delizia.
Ci ha abituati a viaggiare a ritroso, a tornare indietro,
a desiderare l’imponderabile di un bacio, di un figlio;
ci ha obbligati a vivere due vite parallele,
ad essere padri e scapestrati, compagni e amanti,
dottori e dissennati.
Ci ha reso tristi nella felicità, felici nella tristezza,
capaci di nascondere e scoprire due metà di una mela
pronta a spaccarsi, pronta a riunirsi.
La tua amicizia per me è quest’infanzia, lo è ancora.
Tutto ciò che colora di bello i nostri giorni.
Tutto ciò che dà senso ai nostri progetti,
agli album, agli impegni.
E se a volte ho pensato, da Ulisse, che io solo potessi
bastare per tutto,
tu ci sei stato, mio Aiace, a combattere le battaglie
che da solo avrei perduto:
riprenderci Elène, la nostra regina di Sparta,
rimetterla in viaggio sulle navi per la Grecia,
e tornarcene insieme per Vieste e Margherita,
Sorrento e Positano, per Napoli e per Ascoli.

Ho parlato troppo? Ti abbiamo stancato?
Perdonaci, avevamo bisogno della tua morte
perché le nostre emozioni, i nostri amori diventassero autentici;
avevamo bisogno di perderti per ritrovarci.
Avevamo bisogno del tuo passaggio per l’ignoto
per distinguere il vero dal falso,
l’amore promesso da quello mantenuto.
Avevamo bisogno della tua morte per prepararci a una vita più ricca,
e credere all’invisibile, affidarsi alla speranza.
Così, la pena profonda della scomparsa diventa sensata.
La tua mancanza diventa presenza, scavata in noi stessi,
togliendo parole al silenzio, lasciando le poche che contano
– l’amore, la rivoluzione, la poesia –
parole che a pronunciarle riecheggiano il tuo nome e la tua voce.
Avevamo bisogno della tua morte per sapere che questa discesa
nel buio l’avresti fatta per primo,
perché tu sei il più forte. Sei fiero e coraggioso.
Sei vero. Sei Aiace.
Il primo nella sfida, nella battaglia.
Il primo da chiamare se siamo sconfitti.
Il primo che accorre, il primo che soccorre.
Chi poteva partire per primo, se non tu?
Il tuo viaggio da esploratore ci ha donato la sicurezza
che a casa si possa tornare.

Se tu ci aspetti, non viene paura.
Se tu l’incontri, la morte, nessuno la incontra
Nessuno si spaventa, nessun’altro.
Il tuo conto è preciso. La tua mano è da fabbro.
Se tu incontri l’ignoto, allora l’ignoto è vissuto e sconfitto.

Per questo abbiamo bisogno di te, tangibile o impalpabile.
Potrai andare o restare, morire o rivivere.
Essere corpo o delirio.
L’importante è che tu ci sia, qui, con noi, tra di noi.
L’importante è poterti pregare, seguire, aspettare,
sentire le tue storie di guerre, di eroi,
di feste, di matrimoni, il tuo vino, il tuo olio, la vigna.
Sei il padre che sostiene e rasserena,
il fratello e l’amico che affianca e si siede.
Sei la mano che schiude il piacere,
il piede che segna il sentiero che ancora non c’era.

Adesso che sei morto una volta, e tornato,
non c’è nulla che possa sparire e confonderci. Non più.
Noi ti vogliamo, ti amiamo.
Vogliamo sentirti in ogni dimensione del tempo e del sogno,
in ogni forma della materia.
Ti vogliamo presente, qui a fianco a noi, e poi dentro di noi,
raccontarti della prossima vacanza, del prossimo liceo,
della prossima vendemmia.
Vogliamo giocare con te, in ogni tempo.
Soprattutto, vogliamo sognare.

Vieni qui, resta, accomodati,
fatti baciare e poi stringere forte.
Vicini come siamo, dopo la morte, dopo il ritorno,
possiamo giocare seriamente.
Possiamo stare insieme tutti,
io, te, mogli, figli, amici, eroi, ricordi.

Ogni cosa che facciamo ci porta da te.
Ogni lettera che scriviamo per te
è una storia d’amore.
Adesso che invero ci sei,
resta con noi, qui, per sempre.




(Le luci si abbassano. La musica diventa un tango, una milonga. Gli altri personaggi del poema escono in scena, cominciano a ballare, insieme. Anche Aiace balla con loro, anche se non sai se lui sia un uomo in carne ed ossa o un semplice vestito di scena, un manichino. Sfumata la musica, si odono in sottofondo le voci degli amici, registrate tanti anni prima, su una spiaggia, forse a Margherita, in una calda giornata d’estate…)


per Alfonso Benedetto
Napoli, 25 marzo – 1 aprile 2022

Poemi d’amor perduto, di prossima pubblicazione