L’amore apocrifo. Poesie, 2021

Ho vissuto col cancro, tutta la vita.
Ho odiato mio padre, ho amato le stelle,
cose qualunque, si direbbe.
Poi le porte si son chiuse alle spalle.
È che quando comincia una storia
non sai mai se va bene o va male.
Lei dice che è pazza, che è pazza di me
– Cosa credi succede se tu mi lasci? –
Non ci avevo pensato. Chi mai ci pensa.
L’anestesia ha fatto il suo corso.
La morte le ha stretto la gola, ha preso il cuore.
– Mi sono suicidata, sai -.



Andarono via.
Partivano da una vita fatta di pesca e di sale,
di vento, di barche e mattini da ammalare.
Lui aveva in tasca un amuleto,
di quei piccoli ninnoli dal viso di bambola.
Lei aveva niente, se non l’amore per lui.
Decisero di non fermarsi più,
nessuna stazione, nessuna necessità.
Avevano abitato tutte le angosce.
Cercavano una prima illusione.




Sfoglia pure le pietre,
gli angoli magnifici dei piccoli giardini,
il treno che rallenta nel centro città.
Dall’alta parte c’è il mare
e ti chiedi se valga la pena
di convincersi ad amarla.

E poi quest’angoscia mi serve,
sto malessere che corre per tutta la vita,
questo amore fra me e te ma senza di te.
Mi serve a scrivere o appuntare,
altrimenti cosa rimane.



Rapidi cambiamenti del
nuvole sole paesaggi.
Non è incoerenza.
È che stiamo cambiando,
e ci spaventa.



I giorni son tutti uguali qui,
in questa nebbia.
Passi inconcludenti, passaggi.
La tristezza mi avvolge come un cappotto
che non riesco più a togliere.
Piccola mano lasciata.
Eran belli quegli anni d’amore
che mi donasti.
La vita che adesso avvicina
alla morte.



Che è sera me ne accorgo
quando guardo dal finestrino
e non vedo che me stesso.




Fuori ci sono autostrade, eucalipti, case,
impiegati sopraffatti o vincenti.
Ma io non so che farmene.
Rimango a guardare all’interno,
semmai nei tuoi occhi
ci sia il brutto o il sereno,
se mi ami o non mi ami.
Le cose si illuminano quando mi guardi.
Poi tramontano in fretta.



Quando saremo vecchi e potremo appendere le maschere,
butta via il bilancino del contabile, il taccuino
– è dieci anni, quant’è durata, prima tu, prima io -;
dammi segnali inequivoci, un bacio sulla bocca
una mano tra le cosce, oppure sparisci.
Dopo gli anni di freddezza non basterà un emoticon
a salvare l’amore.



Il mare si è ritirato.
Non serviva più d’altronde.
Chilometri e millenni di bagni e di vacanze
sbracciate caotiche scordate.
Sotto c’è il profondo che mai nessuno esplora,
la ricchezza che include l’abisso, la solitudine, la perdita.
Tutto questo non serve.
Basta il bagnasciuga, dove la vita è quasi vita,
l’amore è quasi amore, quasi mare.



Adesso che appena mi giro
incontro il tuo sorriso,
adesso che appena son solo
mi abbracci e mi strapazzi,
adesso che m’insegui, mi chiami, mi baci,
adesso finalmente tutto è gioia, tutto è vita,
e io non so più scriver né morire.



C’è rimasta la musica.
Quella comunque rimane.
Può essere un ricordo
una ninna una preghiera,
oppure quella notte in cui godevi
e poi piangevi.
C’è rimasta la musica
di ciò che eravamo.
Anche il battito del cuore
può essere un canto.



È stato bello quello slancio, ieri sera.
Ho trovato le tue braccia attorno al collo.
Mi hai stretto a lungo, per essere sicura che ci fossi.
Potevo sentire il profumo,
la massa dei capelli, la punta dei seni.
– Grazie, è un bellissimo regalo – hai detto –
Il libro lo leggerò -.
E poi il sorriso, non l’addio,
perché niente è già successo. O quasi.



Sta in piedi, nuda,
accanto alla finestra della cucina.
È sera, la camera è buia.
Non c’è nessuno.
Accende una sigaretta,
imbraccia una chitarra,
fa un passo di danza.
Piange, ride, canta.
Proprio come fosse per strada,
e ci fosse una festa,
e qualcuno l’avesse invitata.



Vorrei fosse domani, per abbracciarti.
Presto, vieni mio sole,
toglimi l’angoscia di questa notte.



Tutto il pomeriggio a guardare le foto.
A metterle in fila, una dopo l’altra,
qualche occasione, qualche giornata, un Capodanno.
Come se metterle in fila servisse a riviverle.
È questa l’illusione.
Meglio se ti butti in qualche vicolo del centro.
Affidala al caso questa sera.
Un colpo in faccia o due cosce che si aprono sul letto.



Ecco la primavera.
Una primula è comparsa sul mandorlo, bianco.
Ha sfidato l’inverno del cuore.
Forse cadrà, ma intanto ha portato, per prima,
la verità.



Abbracciarti. Restare a lungo, stretti,
con gli occhi chiusi. Tu sulla punta dei piedi.
Io con le braccia sui tuoi fianchi.
Siamo rose perdute una nell’altra. Dischiuse.



Vorrei chiudere gli occhi, lentamente.
Guardare sul fondale delle palpebre i ricordi,
che sono tanti o son pochi, ma son patria e ricchezza.
Vedrei passare le vele di mio padre e mia madre,
finalmente amanti, la prua delle arti,
la marcia festosa dei piccoli compagni di infanzia.
Tutte immagini che in fretta svaniscono.
Perché ci è impossibile gioire ancora un poco.
Costretti come siamo tra le pietre e l’odio.




Abbiamo preso una stanza con vista sul mare.
Non sapevamo come iniziare.
I grandi hanno i loro percorsi, da cima a fondo,
passando dal centro. Ma noi siamo bimbi.
Nemmeno ci spogliamo.
Seguiamo la rotta invisibile dei baci, degli sguardi,
del pianto che scoppia all’improvviso.
Restiamo così, a lungo, parlando del silenzio,
tacendo l’ordinario.
Restiamo nascosti nella camera ad ore,
perché gli altri non debbano vergognarsi
della vera nudità dell’amore.



E poi, il giorno è bellissimo oggi.
Tu sei nella stanza, ginnastica,
noi stiamo studiando il violoncello,
e i vecchi, i bei vecchi, sorridono alla tele.
È che abbiamo fiducia, io e te,
abbiamo il tempo e l’amore dalla nostra.
Crediamo all’invisibile, perché il male s’è già visto.
Crediamo all’invisibile perché siamo già altrove.
Ci diamo appuntamento con l’amore,
quando il debito col mondo l’avremo espiato.



Dai, vieni vicino. Stammi accanto,
teniamoci la mano.
E dopo, stringiamoci forte, baciamoci,
perdiamoci in carezze.
Soprattutto queste, che avvolgono la solitudine,
e scrivono un rigo alla volta
l’amore che verrà.




Vicino, sei seria, tenace, temprata.
Dagli occhi, sale una vita che non è andata come volevi.
Ti prendo per mano, ti metti a tremare,
invochi un abbraccio, una carezza, qualcosa che riscatti.
Per questo, prego i migratori di venirti a cercarti,
prego tutti i fiori di portarti la gioia,
prego il suonatore di violino, si prepari.
Lo sposo verrà.
Ti porterà oltre i ricordi che puzzano di farmaco.
Dove il cuore trema ancora, al primo bacio.



Vento, sono pronto.
La bellezza cadde via tempo fa.
Cadde il lume per orientarci.
Dovetti stendermi per terra per essere accettato.
Poi caddero le braccia per lo sconforto.
In ultimo il cuore, per troppa gentilezza.
Adesso son pronto.
Non ho più posto qua.
Troppo grande il mondo per me.
Troppo grande l’amore.
Vento, sono pronto. Andiamo.
Qualcosa di me cadrà lontano,
in altro tempo. E forse.



Andare in altalena.
Volare in alto, sentire il vento sopra gli occhi,
la gioia. Poi scendere,
attendere le mani che ti spingono di nuovo,
sorridere a un ritorno che non è più solo rinuncia.
Andare in altalena. Questa incerta felicità,
tra mare e nostalgia, andata e ritorno.
Un punto preciso che oscilla qua e là.



Costruiamo un’arca. Io e te.
Mettiamoci dentro le cose importanti
che abbiamo costruito.
Portiamo gli amici, le madri, i padri, i figli.
Mettiamo nella stiva gli errori più gravi,
le menzogne, gli abbandoni, per non dimenticare.
Salviamo qualche giocattolo, qualcosa che appassioni,
qualche ausilio per navigare.
La fiducia, la complessità, l’arte.
Seguiamo la rotta che abbiamo da sempre,
l’assenza di rotta,
quel modo di andare piegando, sbandando, virando.
E poi chiudiamo gli occhi, lasciamoci guidare
dall’istinto, dal desiderio, dal sogno.
Perché gli amanti hanno i baci e le mani
per scampare al diluvio, e scoprire l’ignoto.




Voglio stringermi a te, d’estate, sul letto disfatto.
Sentire il tuo seno e il tuo ventre su di me.
Allungare la mano, cercare una carezza,
e sapere che appena più in là trovo l’anima.




Da sola, davanti allo specchio,
mi chiedo se l’altra era meglio,
più bella, più libera, e se t’incantava.
Noi brutte siamo così. Non voglio niente.
Dico che ti amo, devi esser come sei.
Ma ti prego, mio principe, almeno una risata,
una bugia, un’illusione.
Almeno qualche briciola, di questo amore.



Tana libera tutti.
Si diceva così da bambini,
quando l’ultimo schiaffo sul muro ci librava.
Pure adesso è così. L’ultimo schiaffo mi ha liberato.
Me ne andrò da questo mondo in cui sono un estraneo.
Tornerò ad essere vento, ad essere outis.
Potrai dire che nessuno t’ha mollata,
nessuno ti ha amata.
Io sarò altro, finalmente.
Una musica alla radio. Una casa di vacanza.
Qualcosa nell’aria.




Apocrifo è l’amore,
come il segreto negli occhi danzanti,
come il bisogno di averti vicino,
come il desiderio che tu mi stringa più forte
ogni mattino.
Non so dirti quale gioia mi dona il tuo sorriso,
non so dirti quanta forza m’infonde la tua mano.
Vorrei gridarlo questo amore, dappertutto:
è vero, è vivo, è eterno!
Ma gli occhi di un bambino sono fragili,
e ho paura che si accechino nel sole.
È apocrifo l’amore.




Come son belle le primavere, quand’è tempo
di morire. E com’è bella l’estate.
Le porte aperte sui balconi, le cicale,
i letti sfatti dei bambini, ansiosi di scappare.
Mentre noi vorremmo stare così.
Fianco a fianco, l’uno all’altro.
Scivolare nel sonno, pure noi, beati.



Adesso basta. Vorrei dirti un milione di cose.
Parlarti del futuro, di un’altra gita al mare,
della piccola che impara il violoncello.
E poi che ti amo, figurati, se voglio stare fermo.
Ma occorre metter punto, prima o poi.
Qualcosa che prepari alla morte,
che dia senso al tutto.




L’amore è un volo. Sempre incerto.
Spiccare il salto e volare.
Oppure stramazzare sul suolo.
La formula è oscura. L’amore si nasconde.
Non puoi prometterlo.
Puoi solo impegnarci te stesso.
Sperando nella sorte,
e che lei faccia lo stesso.




Sono partiti con l’ultimo treno.
È quasi giugno, quasi estate.
La scuola sta finendo, potranno riposare,
andare lentamente tra i pini che costeggiano il mare,
fermarsi ad annusare la resina e l’origano,
l’odore di percoche rosse e gialle.
Potranno concedersi l’incanto.
Quel tempo di vita in cui chiudi gli occhi
e la fortuna arriva.

L’amore apocrifo, poesie gennaio-dicembre 2021, di prossima pubblicazione

It Was. Poemi, 2010-2015

Crisotemi


(Palcoscenico vuoto. Quasi buio. Nessun oggetto. Nulla di concreto o di realistico.
Al centro, un area quadrata, soprelevata rispetto alla scena circostante – quasi fosse una stanza, un letto coniugale, un luogo isolato sospeso sul mare, sul nulla –, le cui pareti sono vetrate nude, trasparenti, create dagli effetti delle luci. Tali pareti diventano specchi o vetri trasparenti a seconda dell’angolo di incidenza delle luci di scena, proprio come avviene col rifrangersi del sole su una finestra. Il mare o il nulla, su cui la stanza galleggia, ha una tonalità fredda, azzurra, anch’essa creata dalle luci.
Il dramma si svolge interamente in questa stanza.
Una donna, appena vestita di bianco, muove le labbra, come dicendo qualcosa a se stessa. È pallida, emaciata, ha un’età indefinibile, comunque anziana. Il vestito pare un abito di scena, una veste regale portata elegantemente, benché logora e impolverata.
Dal portamento, parrebbe essere stata un’aristocratica, rigorosa e altera.
Si muove lentamente, compiendo gesti enigmatici; accanto a sé, nella stanza, un coccio di creta, ripieno di cera (di cui si ricopre), una panca, una plancia o qualcosa che possa fungere da sedia, da tavola o da letto; una coperta grigia è poggiata in un angolo. Dall’inizio alla fine, la sua voce si sovrappone a suono continuo, basso, che attraversa l’azione senza mai interrompersi, benché variando di intensità – ora impercettibile ora sensibile, ora intenso –.
La donna si rivolge a un interlocutore invisibile – il suo compagno? Un amico? Chi altri? –, si siede accanto a lui, su di lui, lo chiama accanto a sé, si muove – insomma – come se ci fosse realmente. La bianca signora comincia a parlare:
)



Vieni, siediti, accomodati. Vieni pure.
Sto parlando con me stessa, come vedi,
ed è la prima volta che riesco a corrispondermi.
Si impara sempre tardi, troppo tardi, a invecchiare,
o almeno a concentrarsi sul momento della morte.
Non è una scelta, per niente.
Nessuno sceglie l’assenza d’amore, di tempo, di bellezza.
L’assenza. È ciò che rimane.
Basta che mi guardi intorno.
Non c’è più niente e nessuno, qui…
Una casa ormai svuotata, trasparente, senza difese,
costretta ad osservare al di là di se stessa o dentro se stessa,
un vuoto assordante, la quiete.
Manca poco, d’altronde.
Tra poco tornerò nel buio della profondità,
dove le cose si presentano veraci e deformate
– una bocca spalancata dai denti minacciosi;
un occhio inespressivo e liquefatto; un sesso enorme,
senza capo né coda –;
una deformazione preparata, nel mio caso, dalla nascita,
dalla vergogna, dal desiderio, un desiderio inappagabile…
Capita, quando vivi da sola, di allucinare su te stessa,
ingigantire, deformare o far sparire a piacimento
una bocca da baciare, un padre da ammazzare
una madre dal seno prepotente ed ingombrante…

Ho trascorso la mia vita giovanile a interpretare
la scena iniziale di un film
sulla perdita e la nostalgia nel quale io t’aspetto sulla porta,
e tu arrivi raggiante, pieno di vita: “Vieni, entra, accomodati”!
Allora tu entri, ti siedi, cominci a tremare, mi abbracci,
mi dici che in fondo l’amore tra noi due non è finito,
che è ancora come prima, ch’è ancora… ancora… ancora…
Non sei più ritornato!
Troppe volte l’ho interpretata questa scena tra me e me,
benché sia stata consapevole, sempre, che fosse appena un film.
Non mi è mai piaciuta l’esistenza; ho sempre dovuto fantasticare,
per ridare quell’aspetto di bellezza e continuità alla mia vita banale…

Ricordi la mia prima vecchissima amica del cuore?
Aveva la stoffa della diva, lei, bella, creativa, inquieta….
Per dieci o quindici anni non ci siamo mai lasciate,
nemmeno per un giorno;
se lei si vestiva di viola, io mi vestivo di viola;
se lei comperava una trousse, era per giocarci con me;
se una s’innamorava, anche l’altra cominciava a tremare…
ci siamo sostenute, confidate, scritte e descritte;
abbiamo studiato, viaggiato, festeggiato, tutto insieme,
fino a quando lei non ha incontrato il suo… principe azzurro!
Da quel momento in poi, più nulla!
Telefonate, appuntamenti, lettere, vacanze: più nulla!
In quell’uomo, tutta l’inquietudine e il sacro suo furore
s’erano mutati nell’inerzia della beatitudine.
Sembrava drogata. Che invidia!
Certe donne rivelano la loro vera natura al riparo
di una coperta matrimoniale,
sotto la quale hanno avuto la fortuna di restarsene a sognare,
trasognare, a regredire.
Coperte da quell’abbraccio rassicurante, così a lungo rivendicato,
il loro viso si rattrappisce, lo sguardo si fa opaco,
le palpebre si chiudono, il seno e i capezzoli scompaiono,
tutto il corpo rimpicciolisce, rimpicciolisce, rimpicciolisce,
fino a diventare nuovamente delle bimbe,
consegnate tra le braccia del papà.
Che invidia! Che meraviglia!

Ebbene, quando doveva venire a trovarmi, mi sfiancavo
a imbellettare la casa,
a rimettere i centrini sotto i vasi di orchidee;
accendevo l’abat jour; preparavo l’incenso,
mettevo fuori frigo quel cheese cake che amava tanto.
Poi… Poi il tempo passava, lentamente; la pellicola scorreva,
ed io restavo lì, dietro la porta, ripetendo a bassa voce
il mio perenne benvenuto: “Vieni, siediti, accomodati…”.
E invece niente; non succedeva niente, non arrivava nessuno,
tanto che la ripetizione di quell’unico identico fotogramma
dava l’impressione di un’istantanea, di un immagine
ferma e sfuocata, anziché di un film!
E mio fratello? Quanto l’ho aspettato di trovare, mio fratello,
di incontrare un compagno con cui scorrere le estati a sollevarci
l’uno e l’altra,
raccontandoci con cura di come si fosse sgretolata
la nostra famiglia e l’infanzia,
e così trovando una ragione, un senso fondativo a questo
sentimento della perdita che ci avvolge, ci compenetra,
come la nebbia nel buio di una foresta.
Chi altri, se non un fratello, avrebbe potuto testimoniare
lo sconcerto e il dolore di trovarsi da soli, indifesi,
nel bel mezzo di una guerra ventennale di cui ignori le ragioni,
le conseguenze, le parti in campo?
Chi meglio di un fratello avrebbe potuto testimoniare
che c’è stata una guerra,
sostenermi a buttar via queste armature che abbiamo ricevuto in eredità,
questi attrezzi inamovibili lasciati a arrugginire nel nostro giardino?
Quando prometteva di venirmi a trovare, mi preparavo col vestito migliore;
gli preparavo l’accoglienza migliore, di modo che anche lui potesse
avere una famiglia,
anche lui che una famiglia non l’aveva ancora avuta…
Ma il mio adorato fratello aveva scelto da tempo
di non guardarsi più indietro, per sopravvivere, certo;
aveva scelto di puntare con tutte le sue forze sul futuro,
sul futuro di una casa e di un amore coniugale impermeabile
a chiunque le avesse rievocate – quella guerra e quelle armature –,
sotto i cui fendenti anche egli aveva perso la parte più bella
del proprio corpo, del sorriso, della vitalità.
E io ero, soprattutto io, la testimone, l’aedo da scansare,
l’alter ego da rimuovere.
Nemmeno lui è più arrivato.
Dopo mia madre e mio padre; dopo il primo e ultimo amore;
dopo le amiche più care, nemmeno mio fratello è più tornato.

È andata così.
Nessuno è più venuto da me per chiacchierare, per rapirmi,
o almeno accomodarsi.
Nessun familiare che abbia avuto la dignità di tornare
ad onorarmi da regina, quale ero
– benché il mio regno fosse stato piuttosto un calco
di qualcosa che avrebbe dovuto esserci e non c’era,
e benché il mio scettro l’avessero rubato le nostre servitrici,
così invidiose della mia inafferrabile bellezza –;
nessun amante che abbia avuto l’ardire o il desiderio di guardarmi da donna,
proprio adesso che son vecchia, di cercarmi sotto l’abito da sera,
di stendermi su un letto, chiudermi gli occhi,
baciarmi sui fianchi… da vecchia, adesso;
nessun amica che abbia avuto la pietà o l’incoscienza
di mettersi qui, vicino a me,
a contemplare in silenzio la sparizione misteriosa e progressiva
di questa casa dalla quale sono sparite, per conto proprio,
le tende alle finestre, le lampade, gli armadi, gli utensili ordinari,
finanche le mura divisorie, tutto, tutto…
eccetto questo fascio di luce che ci svela, ci attraversa,
come un giavellotto ficcato nella schiena.

Per questo – ti dicevo – sono stata tralasciata e isolata.
Oppure sono io che mi sono isolata, va a sapere,
troppo diversa, timidissima, incostante.
Quand’ero ragazza, mio fratello e mio padre, si svegliavano
di buon mattino per rasarsi, profumarsi e imbellettarsi,
non vedendo l’ora di uscire di casa, raggiungere la scuola
o l’accademia, o anche un’alcova,
un posto in cui indossare la propria identità,
una muta subacquea impermeabile ed anonima, senza fessure –;
mi infastidiva quella loro frenesia; ero invidiosa della loro sicurezza.
Io invece mi ero ritirata dalla società, non perché mi sentissi migliore,
anzi, per pigrizia,
o forse per la consapevolezza prematura che ogni interesse,
ogni occupazione non sarebbe più servita a liberarmi
da me stessa, ad assolvermi dalla dipendenza che a qualcuno
mi legava, sempre,
anche quando nessuno c’era…
Mi vergognavo dell’indolenza, la timidezza, la mia stessa bellezza;
non avevo nulla da conquistare o presidiare, io.
Fosse stato per me, sarei rimasta una fanciulla, avrei buttato il mio tempo
a rincorrere farfalle, immergendomi nei fiori di magnolie,
di wysterie, dei lillà che d’estate risalivano dai prati;
me ne stavo nel mio letto fino quasi a luce alta;
era un giaciglio per me, un posto mio, vi indugiavo con piacere,
proprio senza vergognarmene…
Isolata in quella culla quotidiana, mi applicavo ad assolvere
a quel compito che io stessa m’ero dato:
trasformare tutta la rabbia, circolata nella famiglia
in qualcosa di buono e riconosciuto; riportare il sorriso
su quelle maschere da sfingi che i miei indossavano continuamente,
colorarle di rossetto, di modo tale che apparissero più allegre.
Mi era indispensabile quel lavorio, tutto immaginario,
quel sorriso al quale affidavo la risoluzione magica di ogni conflitto!
Pareggiare i conti con mia madre e con mio padre
era il passo necessario, prima ancora di sorridere, di vivere, di uscire.
Quel ruolo di mediatrice mi si addiceva,
proprio per la mia riconosciuta sensibilità e doppiezza,
anche se mi sarebbe costato la semplicità,
l’integrità e l’amore, innanzitutto…

Che cosa enorme l’amore – non pensi? –, robusto, bello…
Un albero di rose, sostenuto da migliaia di radici contraddittorie,
fiorito da migliaia di boccioli variopinti,
così esposto alle intemperie, all’abbandono, ai bucherons.
Ero stata concepita per l’amore, io
– forse anche il matrimonio, o la compagnia, come dicevano altri –;
non facevo che pensare a un bel ragazzo, fin da bambina,
uno di quegli atleti affascinanti e tenebrosi che affollavano il liceo,
con cui fantasticavo di commettere serate sul bordo del mare,
tra lettere sentimentali e parole infuocate,
un piacere dei corpi avvolgente e duraturo quanto la fedeltà. Ricordi?
Una delle prime poesie che trascrissi per te era quella sull’edera…
E come sempre, quando cerchiamo avidamente la mano di qualcuno
che ci completi,
l’amore arriva presto, per nulla inatteso.
Anche tu sei arrivato, fin troppo presto, i riccioli castani
e morbidissimi, lo sguardo premuroso e coinvolgente,
l’intelligenza acuta; una borsa di progetti e giuramenti:
stare insieme, lottare insieme, invocare un figlio nostro,
viaggiare, dipingere, giocare, desiderare il desiderabile…
Quanta determinazione in quelle promesse; quanta verità,
quanto coraggio nel debutto con cui affrontasti mio padre e mia madre,
dicendo loro che “la forza è un surrogato dell’intelligenza”!
Me lo ricordo ancora!
Sembravi Ulisse, Ettore, quegli eroi non dominabili,
nei quali la passione giovanile parla al posto della realtà…
D’altro canto, onesto lo sei sempre stato,
non è per questo che è finita; non è per mancanza d’amore
o di coraggio nel combattere al mio fianco;
non è per negligenza o incomprensione che te ne sei andato.
Ero io purtroppo a non essere all’altezza, del tuo amore,
della tua dedizione. Incerta, troppo divisa, complicata.
Anche quando riconoscevo il disperato bisogno di te,
non sapevo domandarti né amore né aiuto;
mi richiudevo nella mia superba insufficienza
aspettando che tu mi fossi accanto a contemplare,
a testimoniare ciò che io soltanto potevo fare;
quella storia di famiglia mi aveva assorbita,
reclusa in un buco impenetrabile del quale ero guardiana, io stessa,
di fronte al quale non permettevo a nessun altro
di fiancheggiarmi, anche se, al tempo stesso, mi lamentavo della tua… lontananza!
È per questo che te ne sei andato, credo, lontano, impotente, logorato,
anche se ho sempre pensato che ci saresti rimasto, dentro di me,
e forse illusa che saresti ritornato…

Ho sprecato la giovinezza, dunque, a cercare di comprendere,
– o almeno mitigare –,
l’incomprensibile livore di quei giganti che attraversavano la nostra casa,
calpestando tutto ciò che incontravano sul loro cammino.
Nessuno l’aveva proclamata, quella guerra, ma una guerra pure c’era.
Non restava che imparare, e presto, a distendersi per terra,
sotto il tavolo da cucina, lungo il muro del corridoio,
a sdraiarsi come un morto, sperando che almeno da morti
si possa rimanere concentrati su ciò che vorremmo essere e sognare.
Adesso, quell’immagine di me distesa sul pavimento
è diventata una postura, una condizione,
una posa conservata per non distrarsi, proprio adesso
che non c’è più tempo,
su qualche particolare irrisorio del passato o della quotidianità
– una coppia di ragazzi che si baciano, una donna incinta
che sospinge un passeggino, un ricordo da bambina –.
D’altronde, cos’altro fare?
Col tempo, le mura di questa casa sono crollate nel disinteresse;
le porte e le imposte le abbiamo regalate a mio fratello
– così bisognoso di acquisire l’attitudine alla riservatezza –,
e qui non c’è rimasto che questo pavimento poggiato sull’aria,
sul mare, sul niente,
e queste finestre svestite e trasparenti; un occhio dilatato
di cristallo dal quale non possiamo che guardare verso l’ignoto.
Lo vedi? Lo senti?
Ho come la sensazione che qualcuno dei tanti che ho sognato,
o tutti insieme, siano passati di corsa qui affianco,
provocando questo flusso che ancora ci trasporta alla deriva.
Non è quello che volevo.

Mia madre mi ripeteva sempre che restarsene isolate,
piegate sul proprio ombelico, è esercizio penoso;
che occorre guardarsi intorno, e sopra e sotto,
per raccogliere la propria bellezza;
che occorre trovare un uomo o un’amica col quale uscire
a esplorare il mondo, altrimenti anche la disciplina diventa inutile,
anche l’interno e l’esterno di noi collassano l’uno sull’altro,
e guardare diventa una condanna, guardarsi nel vetro,
perdersi nel riflesso…
Lo so, lo so, ma un compagno non bastava per potermi liberare,
soprattutto da lei; e poi – ripeto –,
l’uomo che ho adorato mi sembrava troppo fragile e prezioso,
per tirarlo in quel cimento…

Dio mio! Voglio uscire da questa gabbia!
Voglio accomodarmi fuori di me, per una volta… lo voglio veramente;
ma come fare a essere certa di trovare almeno un bel lettuccio,
un divanetto, come quello che m’aveva regalato il mio padrino,
uno di quelli damascati, piccolini, fatti a mano?
Come fare a uscire da questa prigione, senza ritrovarsi in una nuova
claustrofobica prigione?
Siamo sicuri che questa uscita da noi stessi valga l’angoscia e la fatica
di affrontare l’ignoto?
E come fare a sostenere il desiderio, quando tutto intorno a noi è andato perso?
Vedi? Quando son stanca o impaurita, tendo a tormentarmi,
senza dire nulla di interessante, beninteso.

Mi capita sempre di dire delle cose sparigliate, inconcludenti,
che spesso si confondono le une con le altre, o si ripetono;
non ha un filo il mio racconto, perché il racconto che avevo immaginato
per noi tutti, s’è interrotto;
il filo s’è spezzato, le perle sono andate così, rinfuse, disperse;
quando ne ritrovo qualcuna, mi sembra inutile capire dove
andrebbe rimessa.
Vado avanti senza senso, accostando gli affetti e gli accadimenti
alla meno peggio,
come se li avessi ritrovati tutti insieme dentro di me, ammucchiati,
ripescandone ora l’uno ora l’altro, a casaccio,
da questo ammasso che la vita ha ramazzato.

È stato così.
Ho sempre sofferto di una sorta di instabilità ciclica,
ora sfrontata, ora pudica, ora afflitta;
un’instabilità tutta mia, anche se è difficile non assegnare
qualche importanza alle vicende familiari,
alla fortuna, ai cicli naturali del sole e della luna.
Prendi questa stanza denudata, per esempio, queste finestre.
Di sera, di sera tardi, la luce si ritira,
lasciandoci in prestito una piccola flebile luce d’interno,
a causa della quale non riusciamo più a guardare che noi stessi,
di nuovo, riflessi, ritratti, inquietanti.
Ma di giorno, la luce si solleva sull’orizzonte, permettendoci di mirare altrove,
e trovare qualcosa che riemerga dalle viscere del mondo,
qualcosa, su cui fantasticare.

Vieni, siedi qui, vicino a me;
voglio poggiarmi sulle tue gambe, distendermi su te.
È una bella primavera questa, o almeno una stagione propizia.
Lontano, in un posto del mondo che è indifferente definire,
le spighe del grano stanno maturando;
i campi diventano foreste, fitte come labirinti,
nel cui dedalo i bambini si rincorrono a nascondersi,
a nascondere qualcosa, anche se non saprei dire che cosa.
Mia madre sta disegnando una scena domestica
nella quale si ripiega su un balcone, lo sguardo sornione rivolto lontano,
mentre biascica qualcosa sull’amore per il figlio, tipo:
“Mi raccomando, sii felice, lo sai che ti amo…”,
qualcosa che suo figlio non ascolta, data la distanza tra di loro,
e quella voce della madre piano piano sussurrata.
Da qualche altra parte, un altra figlia della stessa madre,
una figlia mai venuta alla luce, sta tornando nel proprio cunicolo,
dal suo amato fidanzato che intanto dorme vicino a lei;
ci ritorna col terrore negli occhi, oscillando pericolosamente
su una corda tesa tra le fauci di due mostri;
ci ritorna con l’angoscia di sparire di nuovo,
mentre lì vicino il suo compagno – amante, padre, fidanzato –
se la spassa, canticchiando nel suo sogno giovanile. Com’è possibile?
Come fa a ritornare nel buio se è mai venuta alla luce?
Come fa ad angosciarsi per la morte se ha mai vissuto niente?
Dici che deliro?
Non è capitato anche a te di restare condannata a osservare
le immagini terrifiche che improvvise compaiono sul retro delle palpebre,
proprio mentre ti stai rilassando e addormentando?
È una di queste allucinazioni, la mia, l’ennesima,
visto che qui dentro, ormai, non c’è più niente e nessuno
da ascoltare o contattare concretamente.

Per questo posso dirti solamente del mio corpo,
solo questo mi rimane di reale; precipitare tra le labbra
– troppo superficialmente evitate fino a oggi –;
nelle rughe o nelle piaghe senescenti della pelle;
cadere nelle grandi e invisibili ferite che la vita vi aperto,
benché lo sai, a scivolarci dentro, le nostre ferrite sono sempre
più profonde e angoscianti.

L’altro giorno ho sognato una bambina, bella, felice, piccina.
Tornava dalla scuola con lo zaino sulle spalle, i suoi spartiti, i suoi pon pon.
Aveva sulle labbra il sorriso della durata,
un fiore donato perché sopravviva al di là delle circostanze.
L’ho presa in braccio, l’ho sollevata, l’ho baciata lungamente…
Sembrava contenta di tanto piacere, di tanta allegria…
Ho sentito all’improvviso che il solo mio tempo stava in quel valzer
danzato con lei;
in quell’infanzia ritrovata, in quella felicità istantanea…
Un’istantanea, dunque, un altro fotogramma, un nuovo inizio,
nell’arco delle nostre vite in cui tutto è cominciato prima che noi ci fossimo,
e a noi non è restato altro che portarlo a compimento,
e concluderci con esso.
Lei mi ha dato la grande felicità e la grande tristezza,
la gioia di sentirmi completata, riconosciuta,
e insieme l’angoscia di un amore che se ne andrà chissà dove,
riaprendo la ferita…
Quella bambina… Non l’ho più dimenticata.
È stata la prima volta che ho desiderato di vivere e invecchiare,
sebbene solo in un sogno.
Prima, non avevo mai provato che il guizzo dell’animale braccato dai predatori
– tutti allucinati, come al solito –;
il mondo intero si era ridotto a un piccolo cono d’eiezione,
e non restava che l’affanno, la stanchezza e la paura da ogni nostra esperienza.

Ricordi quel dipinto gigantesco, riprodotto sulla parete
nella camera da letto?
L’avevamo acquistato a una mostra di Velicovich.
Stava lì a rappresentare la nostra vita e il nostro destino,
anche se non ne capivamo il perché.
Un uomo riemerge dal buio, come rincorso da sconosciuti.
Un uomo nudo, muscoloso, angosciato;
che salta i gradini di una scala innalzata sullo sfondo
di una parete rossa di sangue, di evidenza, di passato,
e in cima alla quale si staglia una porta nera, rettangolare, metallica;
una porta chiusa, sbarrata.
Dunque, una morte certissima, assodata.
Eppure quell’uomo continua a arrampicarcisi.
A correre, dal buio verso il buio.
Quale altra strada imboccare? Cos’altro poteva fare?
Niente, nient’altro che scappare,
anche se era chiaro che la corsa sarebbe finita contro una porta sbarrata.

È stato così.
Siamo stati vittime di un processo di scomposizione, di divisione,
io, te, e forse tutti coloro che abbiamo amato e corrotto.
Siamo stati esplosi e sezionati, come quei corpi messi in mostra
proprio al centro dell’Ospizio dei Poveri, anni fa.
C’era un corridore, puntellato all’impiantito per un piede, scuoiato,
diviso, smembrato.
Da uno solo, quale probabilmente aveva voluto essere,
era diventato trino, tripartito, pur serbando la sua posa da scattista.
L’apparato muscolare era stato separato dagli altri, proteso in avanti.
Dietro di lui, appena dietro, il suo doppio viscerale,
composto di interiora incontenute;
un uomo che corre con tutta la sua profondità esposta, nuda,
inchiodato al medesimo piede del primo.
E infine, per terzo, la sua rabbia sfilacciata,
tutto nervi e cervello, lanciata in avanti
sulla stessa traiettoria della fuga. Mai visto nulla di simile!
Mi appassionai a quel corpo, mi ci riconobbi.
Mi ero anche io sentita così, divisa, tutta la vita, spaccata in due metà
o in tre o in quattro, a seconda delle madri, degli amori, dei contesti.
Mi sentivo ancora così.
Come quell’altra, la donna incinta.
Una madre col ventre scoperchiato, l’utero e il feto in bell’evidenza,
distesa sul proprio triclinio; ne ero turbata.
Mi chiedevo per quale ragione una donna che abbia avuto
il piacere divino di esser stata concupita e fare un figlio,
perché quella donna aveva abortito?
Forse era stato un amante irresponsabile, a volerlo;
o forse era un peso, chissà…
La didascalia la descriveva banalmente come “donna incinta”,
riducendo ad un tempuscolo brevissimo ciò che invece è il risultato
di decenni di attese, desideri, passi falsi…

Noi donne cominciamo fin da bambine a truccarci
davanti allo specchio, a camminare sui tacchi,
a giocare con le bambole,
per quel nostro sempiterno, desiderio naturale, essere madri,
sentirsi saziate, finalmente, ricomposte,
avvolte dalle braccia dell’amore, del nostro bambino…
Ma lì, in quella teca di vetro, questo mondo di aspettative,
questi cambiamenti del corpo e dell’anima comuni a ogni donna,
era sparito, rimosso, cancellato dalla mano di un ometto.
“Donna incinta”!
Quel procedimento di eternazione e insieme dissociazione
mi sconcertava, per la verità ultima che sembrava gettare
sulla miseria del nostro corpo, e insieme mi orripilava,
per la crudeltà con cui quegli uomini venivano trattati!
Privarli della pelle, del viso; privarli del nome, renderli anonimi…
Che vigliaccata!
Avrei desiderato che almeno, in cambio di una vita
e di una sofferenza così generosamente donate,
fosse stata lasciata loro almeno la faccia,
affinché qualcun altro potesse riconoscerne e apprezzarne
la bellezza, la storia, la sofferenza… E invece…

Forse la morte totale ci è sempre inaccettabile;
forse la scissione, la ferita che ci lacera sono il prezzo che paghiamo,
tutte le volte che ci affidiamo all’amore dell’altro, senza riserve,
perché – diciamolo –, chi è che può accoglierci in tutto e per tutto?
Chi può riuscire ad accettarci per intero?
Chi può contattare così profondamente la propria sofferenza
o la colpa così da riconoscere anche agli altri una vita propria,
uno sguardo autonomo, un proprio desiderio?
Eppure, per quella espoliazione sadica e invidiosa, non c’era traccia
sui visi dei visitatori, anch’essi uomini, verrebbe da dire.

Ma basta coi ricordi.
Ricordare richiede tempo, e io non ho più tempo;
ricordare richiede spazio, e io non ho più spazio.
In questa camera svuotata che si perde alla deriva,
non ho altro spazio, io,
che per il mio corpo; non posso più ospitarti, amore mio;
non posso far entrare più nessuno,
nemmeno una cometa che fuggendo chieda asilo,
nemmeno un pensiero, per quanto astratto
(e forse, proprio quelli sono i più ingombranti).

D’altro canto, non posso rifiutarmi
di accettare qualche estraneo che risalga da me stessa.
Non sarebbe la prima volta. Le vedi queste larve?
Qui, tra le mia cosce? Questi piccoli pàppici cremosi
apparentemente innocui, nascosti nelle pieghe delle cosce?
Sono comparsi dall’interno di me stessa, tempo fa.
All’inizio, mi sono spaventata tantissimo;
ci perdevo il sonno a ispezionarmi, per cercare di capire
da dove fuoriuscissero a scacciarli, a staccarli ad uno ad uno.
Mi guardavo nella bocca, tra i capelli, tra le rughe,
sotto i piedi, tra le ragadi alle labbra, ma niente, niente da fare…
Me li trovavo addosso fin dal mattino, soprattutto al mattino,
quando l’inerzia della notte mi impediva di controllarmi.
Mi svegliavo ricoperta dai vermi, sprofondata in un delirio frammentato.
Ho urlato per anni, temendo di morire da un momento all’altro.
Ho pensato per anni che questi vermi fossero i prodotti del mio corpo
in decomposizione – la decomposizione
di un corpo avvizzito poiché non più irrorato dal desiderio, dall’amore, dal sesso –,
e che la decomposizione sarebbe progredita dai piedi alle gambe,
dalle gambe ai genitali, dall’addome alla gola ed alla faccia,
riducendomi a brandelli,
ma lasciandomi intoccata la coscienza, e con essa la paura.
E invece, più tardi, molto più tardi, mi ci sono abituata,
ne ho compreso la natura;
questi insetti non sono affatto dei segni della morte,
ma un presagio, un segno anticipatorio, piccolo,
affinché ci si possa abituare ad accoglierla la morte,
anziché temerla o fuggirla.
Sono questi i miei compagni quotidiani, adesso.
Mi solcano la pelle, mi traversano, mi avvolgono,
mi solleticano insomma, mi fanno scivolare felicemente
su questa vita come su questo letto, su questo nulla.
E questi porri, li vedi?
Questi funghi nerastri screpolati che mi coprono
quasi fossi un albero abbattuto da tempo e lasciato a marcire nel bosco?
Riesci a immaginare quanti anni li ho guardati con terrore?
Quanti anni ci ho delirato sopra?
Forse, forse mi puoi capire, o almeno credere.
Siamo sempre terrificati quando osserviamo le cose dall’esterno,
senza attenzione,
e più di tutte il nostro corpo, il nostro sarcofago,
il nostro persecutore più subdolo.
Eppure, quando si galleggia ormai verso la fine, in solitario,
le cose cambiano; diventiamo dei ciechi,
ma capaci di dar senso a ciò che è informe, oscuro, deforme.
Forse, queste verruche sono i lucernari di un sottosuolo;
forse dentro di me riposa una città sommersa,
popolata di abitanti vivi, di tutti coloro che ho amato profondamente,
anche se talvolta nemmeno li ricordo;
una città sommersa, con abitanti dimenticati ma vivi,
e questi ne sono i campanili!
Non ne ho più paura.
Ho imparato che occorre procedere per gradi;
concedersi il tempo della comprensione, dell’accettazione;
sapere che ogni cellula, anche degenerata, anche maligna,
ci appartiene, è nostra, ci porta un messaggio d’amore,
laddove nessun’altro sia riuscito ad ascoltarci.
E poi, dopo la comprensione, occorre seppellire,
scordarsi nuovamente, riprendere a sognare.
Ci sto provando. Ho tutto il tempo adesso.
Ogni giorno, verso il pomeriggio tardi, mi ricopro di cera morbida,
in modo da rendermi bianca, tutta bianca,
e rimuovere ogni asperità di me stessa;
voglio rendermi assoluta, diventare una statua,
una di quelle statue classiche, belle, poggiate nei giardini delle Chiese…
così morbide, senza pretenzioni, senza sesso,
quasi fossero vite umane marmorizzate nella loro fierezza,
nella loro malinconia.
In realtà, per quanto mi riguarda, indugio in questa prassi quotidiana
per tenermi in esercizio col disvelamento e la falsificazione,
oltreché per ingannare il mio tempo…
Raccogliere la cera secreta dalle escrescenze;
coprirmene con cura, lentamente,
mi ricorda quand’ero giovanetta e mi apprestavo
davanti allo specchio ad ammansire la mia bellezza,
a attutirla con il trucco,
di modo che i ragazzi non ne fossero spaventati,
ma sedotti e rassicurati…
Provavo a trasformarmi, dunque, a compiacerli, non certo a snaturarmi.
E quella progressione verso la complessità
– benché osteggiata da amici e nemici –
mi dava la sensazione di essere speciale, diversa, più viva. Capisci?
Proprio il contrario di ciò che pensavano mio padre e il mio compagno.
Loro credevano che la vita dovesse essere “unificazione”,
che occorra volere, scegliere, decidere un solo lavoro,
una sola occupazione, un solo compagno amato in tutto e per tutto;
una condotta definita, una sola vita insomma.
E giù, tutta una serie di discussioni e argomenti,
estesi dalla morale alla psicoanalisi
– “Non è così che si fa… è da troie, da malate, da pazze” –.
Uuhh! Quante ne ho sentite!
Eppure, dentro di me ho sempre pensato che questa è la posizione
di coloro che hanno sepolto la creatività,
di tutti quegli uomini o quelle donne diversi da me,
diversi nei corpi, e dunque nei bisogni.
Pertanto, dov’è lo scandalo?
Siamo sempre portati a edificare le nostre teorie
su ciò che sotto sotto è solamente il nostro corpo, perverso, legittimo, unico.
Forse costoro, non hanno avuto la sventura di vedersi comparire
dei comignoli addosso,
dai quali sorvegliare cosa accade in se stessi,
e accettarlo senza raggiri, senza scordarsi dei propri omicidi.

Io, questo giro d’ispezione lo faccio da tempo.
Costretta come sono in questo cubo di cristallo,
quando la luce del mondo va tramontando,
mi piego sul microscopio piazzato qui sull’ombelico,
e attraverso di esso mi incammino all’interno,
non dico nell’animo, nello spirito, nell’essenza
– che termini, mio Dio! Buoni solo per le guerre o le Accademie –,
ma proprio nel corpo, nell’infimo del corpo, nel cuore, nello stomaco…
Così facendo, ho scoperto verità inconfutabili, beninteso per me stessa.
I miei tendini, i miei muscoli, i miei denti;
lo scheletro degli organi cavi o pieni;
tutto questo in me è danneggiato, deficitario o mancante.
È come se fossi slegata, come se le parti di me stessa fossero slegate;
le mie braccia e le mie gambe sono staccate, in procinto di perdersi;
la mia colonna vertebrale è sul punto di crollare.
All’interno del mio corpo, si aprono caverne dovute al crollo delle travi,
e i mattoni rovinano gli uni sugli altri,
formando degli ammassi, dei vuoti incapsulati.
Mi capisci, vero? Ne cogli le conseguenze?
Non sono mai stata capace di vivere da sola;
avevo sempre bisogno di qualcuno che mi sostenesse,
m’aiutasse a stare in piedi;
qualcuno che ricomponesse tra di loro i pezzi sparsi,
i desideri e gli affanni,secondo un disegno coerente,
e che pure fosse consono al disegno di me stessa.
Tu ce l’avevi questo progetto – lo so, lo stesso –,
ce l’avevi la passione, l’energia, la dedizione.
Ma io ero troppo, troppo frammentata per riuscire a ricompormi.
Capitava sempre che un fascio di nervi mi scappasse
da una parte, che un occhio si voltasse dall’altra,
che la bocca s’afferrasse a una lingua diversa dalla tua,
o che la mano si stringesse con quella di un estraneo.
Troppo divisa, troppo ferita, per poter restare uniti e vivi
in una sola pelle condivisa, la tua, la nostra, la mia.
Per questa mancanza di coesione ho perso uno dopo l’altro
i desideri, le inclinazioni che avevo da adolescente,
quando ancora mi capitava di saltare tra i prati,
inseguire gli aquiloni, correre a perdifiato per ore e giorni.
Ho perso il tuo amore, l’affetto delle amiche, la stima di me stessa;
non ero abbastanza stabile, non suscitavo abbastanza fiducia;
non evocavo sufficiente protezione.

Basta. Ti ho tediato abbastanza con questi rimpianti
e queste ricostruzioni – tardive quanto inutili –.
Stenditi qui vicino, sta facendo sera…
Tra qualche ora la luce tornerà a sparire dietro l’orizzonte,
e per buona o cattiva sorte smetteremo di specchiarci,
per buona o cattiva sorte…
dovremo guardare al di là dei vetri, verso l’oscuro, il profondo,
il grande vuoto;
verso la musica felice o minacciosa del mondo.

Sai, quello che mi è mancato veramente in tutti questi anni,
mentre vagavo nel fango della rabbia e degli amori familiari,
è stata proprio la musica,
quel suono primigenio che ci accompagna fin dall’inizio,
fornendoci il senso del nostro agire, la calma, la forza, la coscienza di resistere.
Non sono stati lo slancio o il desiderio a mancarmi,
ma il senso, la conferma di esser giusta.
E non parlo di un senso generico, ma dei sensi,
del piacere dei sensi, di uno in particolare.
Non sono stati i sapori e gli odori a mancarmi, no,
e nemmeno i contatti, gli abbracci, i baci…

Ognuna delle rughe, di queste verruche, ha sempre avuto un odore
talvolta più lieve talvolta più intenso;
ognuna delle mie caverne ha avuto il suo profumo e il suo olezzo,
il suo tanfo sopportabile o meno.
Certi giorni mi leccavo da sola.
Mi piaceva, mi rabboniva, per quanto ti sembri folle.
Magari avevo appena mangiato delle fragole,
e quel sapore gradevole mi addolciva.
Altre volte, mi capitava di raccogliere con le dita il buon umore del tuo sesso,
rimastomi addosso dopo l’amplesso; me ne bagnavo le labbra,
le palpebre, il collo;
e in quel gesto di erotismo c’era tutto ciò che il corpo e l’amore
potevano offrirmi:
gusto, sapore, profumo, contatto, contatti, sguardi; tutto, tutto,
tranne la musica.
Quella, la ritrovi soltanto se ti metti in ascolto degli altri,
dei loro sussurri, dei loro affanni;
se ti pieghi ad ascoltare il fragore del mare,
la nota monocorde di uno stagno, il sibilo dei rami sfrondati dal vento.
E poi, la nostra famiglia, la nostra città,
le strade nelle quali siamo cresciuti sono state particolarmente rumorose.
Troppe volte l’ho rievocata – lo sai – la nostra casa d’infanzia,
quella corte popolata di un folla stralunata,
quella nebbia nel cui interno siamo stati a brancolare,
senza alcun riferimento che non fossero gli sputi, le urla,
gli spari che venivan da lontano, oppure da noi stessi.
Che noia, a ripensarci! Che noia!
Eppure, da quelle urla, da quegli spari, da quelle imprecazioni
e invocazioni è venuta fuori una musica da camera, intensa,
appassionata, e possiamo riascoltarla, finalmente…

Ci sono ritornata, in questa casa,
subito dopo la fine di quella saga familiare che ci ha sbalzati lontano
gli uni dagli altri.
Stava così, crollata, sotto il peso delle colpe, dello spavento.
L’ammasso dei calcinacci sul pavimento ti obbligava a camminare
con attenzione;
ti permetteva di scoprire dei particolari di noi stessi che credevamo smarriti.
Sui muri c’erano ancora gli scassi dovuti ai colpi di fucile;
lungo il corridoio qualcuno aveva impiccato dei cani,
lasciati a penzolare dai ganci del soffitto,
perché non si dimenticasse l’atroce bellezza della morte;
tra gli stipiti della porta qualcun altro aveva inchiodato
la tastiera del pianoforte
dalla quale erano stati asportati dei tasti. Mi ci avvicinai;
misi le dita a mo’ di accordo sulle note mancanti.
Misteriosamente, riprese a suonare, come riconoscendomi…
Che meraviglia!
Un chiaro di luna ricopriva le macerie con la sua malinconia,
alla quale si aggiungevano la pioggia alle persiane,
i cristalli di Bohemia ancora tintinnanti,
i fogli dei libri ancora sfogliati dalla mano impercettibile del vento…
Era il brano che qualcuno stava suonando
quando l’ultimo colpo di mortaio fece piombare il silenzio sopra di noi;
era il brivido profondo della paura, di fronte a tanto orrore;
era il pianto disperato per la vita e per l’infanzia ch’era andata perduta.
Eppure, niente era andato davvero perduto.
La musica restava ancora lì, nascosta, intrisa nelle mura.

Per anni, i nostri suoni sono stati stridori di coltelli, di stoviglie, di vetri;
le nostre parole sono stati grugniti, latrati, auspici di morte;
le nostre canzoni son state lamenti, prolungati e funebri.
Forse per questo li abbiamo ignorati; ci siamo tappati le orecchie;
non abbiamo più ascoltato nemmeno quei rumori che Natura ci regala,
piegando le chiome degli alberi,
facendo tintinnare la pioggia nei campi,
facendo vibrare di passione il cuore degli amanti…
Avevamo sentito soltanto il dolore, del mondo,
e avevamo paura di riesporci a quel dolore.
L’ascolto del corpo, invece, ci avrebbe protetti,
permettendo di ascoltare della vita il desiderio,
l’intelligenza, il respiro. Di una vita, per lo meno.
Dentro di me ho ritrovato perfino qualche bella canzoncina
che mia madre canticchiava, mentre preparava la cena
o si truccava davanti allo specchio della camera. Ricordi?
“Signorinella pallida, dolce dirimpettaia al quinto piano…”;
oppure quei notturni di Chopin che il nostro pianoforte ci donava,
la sera,
dopo che noi due l’avevamo maltrattato con le nostre sonatucce
a quattro mani.
Sì, ci sono rimasta degli anni, rannicchiata su me stessa,
prima di ritrovare la melodia creata dalle labbra di uomini gentili,
premurosi, mossi dall’amore, dalla passione,
o anche dalla disperazione, e potermene fidare.
Occorre del tempo per questo, parecchio tempo.
Bisogna perdere la vita, prima, tutto quello che di bello ha la tua vita.

Adesso, quando la luce del sole si solleva all’orizzonte,
e si riesce a vedere al di là di noi stessi, mi alzo in piedi,
mi avvicino ai vetri, e i vetri si flettono, diventano cristalli,
strumenti musicali che raccolgono quei fiati debolissimi,
profetici, grazie ai quali vaticiniamo se arriverà qualcosa di buono
o minaccioso, – un temporale, una nave da crociera,
oppure un bell’atleta che incede a petto nudo –.

Conosco l’antica melodia che avrei suonato per te,
fossi stata ancora giovane, ancora amata,
fossi rimasta ad ascoltarti già da prima,
quando preveggevi che i nostri comandanti guerrafondai
avrebbero inabbissato le navi, amiche o nemiche
– con tutto il loro carico prezioso di vasi, gioielli, stoffe dipinte –,
ogni volta che avessero intravvisto qualche segno di quella diversità,
di quella umanità che spaventa,
allorquando non si riesca a sottometterla o comprenderla.
Ne hanno affondata talmente tanta, di umanità e diversità,
che basta rimettere un braccio nell’acqua per ritrovare una mano ancora viva;
una bocca spalancata che ancora cerca un bacio;
una chitarra che ancora risuona e ci incanta…

Lo senti anche tu? Avvicinati, siediti; forse riusciamo a ritrovarci,
a sentire per una volta la stessa cosa…
Ci riesci? Non ci riesci?
Sei troppo giovane tu, ancora attaccato alla vita,
ancora alla ricerca di cose da masticare, oggetti da riconoscere;
di una storia evocabile insomma,
di quelle che chiamiamo poesia o letteratura, o vita…
Ma io non appartengo più alla vita; non so più definirmi;
non so dirti cosa sono diventata, una vecchia, un’allucinazione,
un’emozione qualunque intesa poco prima della morte.

È difficile parlarne, lo so,
raccontare le cose dal versante del niente,
rievocare delle immagini ingiallite, ricomparse sulla pagina del mare…
E a che scopo adesso? Che cosa cambierebbe?
Tutto è disperso, perduto, fatto a pezzi;
frasi, perle sparigliate, sogni mancanti.
Li vedi? Dei cani randagi mordono l’aria, da qualche parte,
per ricordarsi di come si mangia, si uccide, si prova piacere;
laggiù, sull’orizzonte, una barca si muove leggera – ammesso che esista –,
tirata da un filo invisibile all’uomo, nel tramonto ormai spento.
E noi stiamo irretiti sul bordo dell’oceano,
e neanche te l’immagini il perché. Incubi, appunto.
Conseguenze imprevedibili e malefiche dell’esperienza,
forse anche della felicità raggiunta qualche volta, benché fugacemente.
Puoi trascorrere degli anni senza mai toccare il cielo,
senza accorgerti di niente.
Ti pare che non succeda nulla di buono o di cattivo,
non riesci a spiegarlo, sei vuoto.
Poi, un giorno, d’autunno, un essere insignificante
– un amante, una farfalla –
si posano sull’ultima cima di un platano bagnato, poco dopo un temporale,
e quell’albero comincia ad oscillare, via via più fatalmente…
la pioggia riprende, se pure non c’è pioggia, su di te.
Allora ti guardi, sollevi la testa,
ti accorgi che una mandria di nuvole va via, nel cielo ormai terso;
diventi consapevole, non più di ciò che sei, ma di quello che hai perso.
Proprio questo è capitato, a me, a te, a quelli come noi.
Fino a quando ho vissuto da sola, assolutamente sola,
non facevo che rinchiudermi in me stessa!
A farmi compagnia c’erano i vermi, le rughe, le verruche;
da ascoltare c’erano i respiri e i borborigmi;
da ammirare c’erano i seni, le labbra, le mie cosce.
Tutto ciò che volevo me lo forgiavo sul calco del mio corpo,
dei miei fantasmi, delle budella…
Poi è arrivata la perdita, la coscienza della perdita – non so come dirti –,
e insieme ad essa l’evidenza che lì fuori c’era stata la vita degli altri,
bambini o giganti, amati oppure odiati,
e che anche tu c’eri stato, anche tu, soprattutto…
Da allora ho scoperto una nuova infelicità, la vera infelicità…
qualcosa che c’è stata, ch’è arrivata ed è sparita!

Non so più che fare adesso;
mi pare già d’aver vissuto due, tre o quattro vite, tutte insieme.
Ho conquistato e perduto tutto, troppo in fretta, tranne la nostalgia,
questa orribile malattia che ancora, e fin da sempre, mi attanaglia.
Talvolta, mi sembra che la felicità esista ancora,
che tutti i nostri amici stiano ancora ad aspettarmi,
che il mio compagno, così amato, stia ancora qui, dietro di me…
Forse potrei voltarmi, tornare a immaginare, sognare, abbracciarlo…
in fondo, sono preparata a non trovare più nessuno,
come in quel film di cui parlavo, ricordi?
“Vieni, siediti, accomodati”.
Oppure… non so… ho troppa paura di riprovare la felicità,
se questa non è eterna.
Preferisco accettare la fine – o accettarla per forza –,
anche se ho il terrore della morte; l’angoscia di trovarmi da sola,
senza le tue braccia che mi stringono e mi avvolgono,
senza l’illusione che anche tu ci rimarrai, accanto a me,
che anche tu vorrai morire, insieme a me… Ho troppa paura…
Per questo mi accomodo a lasciarmi scivolare;
indugio in questi riti quotidiani; mi trucco, mi stendo,
mi copro di cera, mi metto a guardare i miei vermi.
Preferisco distrarmi così, cadere in questa trance,
sintonizzarmi sul murmure perpetuo che sale dal mare, dal corpo, dal nulla;
lasciare che sia il caso a decidere per me – o almeno sul come e sul quando –;
mi difendo denudandomi, privandomi, svuotandomi di ciò che mi appartiene,
di modo che, voltandomi indietro, io non possa più trovare niente
e nessuno cui legarmi nuovamente,
e riaprire la ferita, risentire l’assenza, l’assoluta dipendenza!

Come vedi la mia casa s’è ridotta all’essenziale, al niente,
pavimenti, stoviglie, tovaglie ricamate;
niente gonne o calze a rete; niente certezze, pareti divisorie,
soffitti e recinzioni che servano a difendersi;
nessuna porta, nessuna entrata, nessuna uscita; nessun campanello.
Soltanto vetri, soffi, illuminazioni,
bagliori incerti che cambiano a seconda della luce.
Come vedi, la mia vita s’è ridotta all’essenziale, al quasi niente;
una spoliazione completa, completata;
una dimensione assoluta della perdita – benché fruttuosa e accettata –,
dalla quale mi riesce di concepire l’inconcepibile
dell’amore perduto – compagni, amici, fratelli, madri, padri, tutti, tutti ridotti a ricordi,
a respiri, ai battiti che fanno di me quel che sono, un donna sola, isolata.

Come vedi, il mio corpo s’è esso stesso ridotto all’essenziale,
divorato dall’interno, slegato, degenerato;
così afflitto e paralizzato che io stessa me ne curo devotamente
– come faremmo con la salma di una santa –,
ricoprendomi di cera per cancellare tutti i segni del genere,
delle vittorie e delle sconfitte; per rendermi assoluta,
non come un manichino ma come un dipinto,
un’immagine archetipica, una statua dell’Uomo.
D’altro canto, non è questa la condizione della divinità?
Eliminare tutti i particolari che ci rendano riconoscibili, gli uni dagli altri;
cancellare le asperità che ci dividono, di modo che ci si possa
confondere, riunire,
ritrovarsi in sintonia, in simpatia… Un solo battito, un corpo solo…

Per questo, ti dicevo, non c’è più traccia di concretezza nel mio parlarti;
non c’è più niente e nessuno, di concreto, che richieda mani per scrivere,
labbra per confessare, occhi per concepire;
non ho altro per la mente che immagini strappate, sognate, allucinate.
Nessun racconto, nessun ricordo, nessuna storia – semmai c’è stata storia –;
nessun linguaggio concreto, rassicurante…

Ciò che posso consegnarti, in quest’ultimo annunciato momento terminale,
è uno sguardo piegato, una testa piegata, pacificatasi con tutto e con tutti,
e tu puoi prenderla e cullarla tra le braccia;
una testa chinata, dall’espressione serena
ritornata in luogo dell’anima che non posso descrivere,
ma che rende tutto il buono di me stessa…

O forse una voce, un filo ininterrotto che proviene da lontano,
che prosegue attraversandoci… un tempo, un tempo verbale…
Non so se lo senti…
Tra poco, pochissimo, il mare si ingrosserà,
col suo respiro silenzioso, ci coprirà,
ma noi continueremo a parlarci, a contattarci, a stare insieme…
Potremo udire la nostra voce al di sotto delle correnti,
un suono che racchiude tutto ciò che siamo stati…

Non è importante sapere cos’era. Non più adesso.
Qualcosa, qualcuno c’era… Non è importante, non è importante…
Qualcuno… qualcosa… era…


Aosta, marzo 2014









Altera Mater


(Una stanza buia, dall’atmosfera terribile, inquietante. Diresti che vi è stato commesso un crimine, anche se non ve ne sono gli elementi. Sul fondo, verso destra, un divano a due posti,su cui siede il protagonista – ma potrebbe essere anche una donna, chissà: dagli abiti di scena, e dal trucco pesante che porta sul viso, non è possibile identificarlo con esattezza.
Un suono accompagna l’intero dramma, prima cupo, poi via via più sereno, come un amore ritrovato. Comincia a parlare a un interlocutore inesistente
):




Entra, siediti, accomodati. Finalmente.
Non hai mai saputo farlo tu; non hai mai potuto o voluto accettare un invito.
Ci provo da anni io – quanti anni? Cento, mille? –.
Appena qualcuno ti apre la porta, per accoglierti, tu entri,
ti volti di schiena, per non stringere la mano al padrone di casa.
Il tuo corpo si disseca, s’indurisce, diventa piccolo, più piccolo.
I tuoi piedi disegnano una danza da suora in preghiera;
le tue mani da cucitrice, nervose, vendicatrici, si chiudono davanti alla bocca,
nascondendo il sussurrìo di una bestemmia, contro questo o quell’ospite,
ogni volta contro, ogni volta qualcuno.
E se quello ti sorride, ti invita a sederti, ti offre da bere, diventi di pietra,
cementata a un asse del pavimento e ancora più chiusa,
una statua indurita dall’odio, dal pregiudizio contro le donne, le madri, le figlie:
basta nominarle, che subito la pelle ti si macchia di ruggine, si arrugginisce,
diventa una maschera di rabbia; la bocca ti si chiude,
sebbene sia impossibile nascondere i denti;
questi cominciano a battere, a battere,
si inoltrano al di là della bocca, addentano i piedi, le cosce, le labbra degli ospiti;
tutta la stanza diventa una dentiera battente, minacciosa, angosciante;
non riesci più a restarci, ti senti impaurito, hai voglia di scappare dal divano,
dalle tende, dalla carta da parati.
Tutto assume la tua durezza, il tuo umore cupo, presago di sventure.
I disegni sui quadri della parete prendono corpo, diventano iene, pantere;
si staccano dalle tele, ti rincorrono;
non resta altro che odiarti, colpirle o fuggir via.

Forse è quello che vuoi, che hai sempre voluto,
benché ogni volta che qualcuno ti abbia offerto un pasticcino,
una delizia, un buon caffè,
ti sia sempre nascosta dietro una falsa sazietà,
una garbata assenza di desiderio, una nobiltà ostentata nella privazione.
Ti conosco io. Da cento anni. Da mille anni.
Di sera, dopo aver cenato insieme, sparisci nel sottosuolo.
La luce della luna ci sorprende dalle finestre, allunga le ombre,
la tua ombra ti tradisce, risale le scale, viene a destarmi, ci rivela ciò che fai;
una bocca, grande quanto una voragine, quanto un abisso,
si spalanca: vorresti inghiottire tutto – ogni forma di cibo,
gli animali domestici –, tutto, senza neanche masticarlo.
Ma il cibo inghiotte te, bocca contro bocca,
e non riesci più a sfamarti.
L’ombra si ritira, velocissima, un sicario che si perde nella notte.
Resta sul pavimento un odore di sangue, di lotta per la vita o per la morte,
compiuta per vendetta, tutte le sere, per fame,
una fame ancestrale, una punizione divina.
Un senso di colpa insaziato si stende su di noi,
come se la tua ombra ci fosse rimasta addosso, sulla pelle,
lasciandoci un’accusa di colpevolezza.

Scusami.
Non voglio aggredirti, non voglio offenderti.
Forse la nostra vicinanza mi ha reso timoroso,
e anch’io non riesco a percepire se non fauci spalancate,
latrati, ombre che mi inseguono e mi uccidono.
Non è un sogno, come ben sai; non abbiamo mai sognato noi;
le poche ore di tregua, che gli altri chiamano sogno,
si sono sempre risolte nell’arrivo di tua madre
– ancora più dura e vendicativa di te (se mai sia possibile) –,
oppure nella contabilità matematica delle donne morte,
di quelle appena nate, di quelle da odiare…
ci servivano per giocarcele al lotto, nei fine settimana –.

Adesso sei qua. Lo so, lo so che è ben difficile per te;
ma prova a piegarti, prova ad inclinare almeno un po’
quella colonna rigida come un giudizio divino;
quest’invito non è una prova di fedeltà alla tua vendetta;
Prova ad accettare questo sorriso (il mio, il nostro) che ti si apre.
Scoprirai che i fianchi della poltrona non sono mani lubriche
che ti avvolgono,
né i muscoli minacciosi delle tue ombre.
Siediti, accomodati.

Mi piacerebbe parlarci, raccontarci un giorno almeno, dei nostri mille anni.
Non hai mai avuto voce tu, mai una parola, non dico di dolcezza,
quanto, almeno, di curiosità, di desiderio:
eri troppo impegnata a rifuggire tutti coloro che ti mostrano affetto;
appena qualcuno ti notava ti rinchiudevi dentro,
sempre più dentro,
assediata dai fantasmi sfuggiti dalla tua gabbia scarnificata;
cominciavi a cercarti una rifugio, a nasconderti in casa,
ma la casa si restringeva, inesorabilmente;
le mura diventavano spesse, corte,
impermeabili alle voci dei bambini che ti avrebbero voluta insieme
a loro, fuori,
a preparare i dolci col vino cotto o la frutta sotto spirito;
perfino la porta si trasformava, diventava una specie di botola verticale,
bucata soltanto dalla luce perentoria che filtrava dalla serratura.
Quella luce ti seguiva, ti perseguitava,
ti impediva di nasconderti del tutto – a chi d’altronde?
Forse, alla tua vergogna per i piccoli, continui,
patetici furti che commettevi dovunque venissi invitata –.
Ma poi, anche quella luce si indeboliva;
diventavi uno di quei bambini nati mostruosi,
nascosti negli scantinati dalle nobili famiglie di un tempo,
sepolti per occultarne la sofferenza, il peccato, l’estraneità.
Ti perdevi a rovistare nei cassetti dei tuoi lugubri armadi,
quei sepolcri familiari appartenuti a tua madre, a sua madre, a sua nonna.
Lì dentro, prigioniera di quella camera oscura,
passavi le ore a riordinare i pezzi del corredo,
quelli destinati a una delle mogli o delle figlie che hai sempre detestato;
quelli che avresti voluto per te, per essere donna
e provare piacere, almeno una volta.
Una folla di gesti, ripetuti, incomprensibili, perversi.

Un giorno, riuscii a cogliere un frammento di quella coreografia del peccato.
Avevi dimenticato di serrare completamente le persiane
– oppure l’hai fatto apposta, affinché io ti guardassi –.
Avrò avuto quindici anni.
Mi arrampicai dall’esterno del caseggiato, fino alla finestra;
mi misi ad osservare quei tuoi rituali enigmatici,
illuminati dalla luce della serratura.
Due dita si muovevano, operose e precise,
come le zampe di un ragno quando annodano una tela. La tela cresceva.
Tirasti fuori dai cassetti la federa di un cuscino, una camicia di raso, non so.
Stavi inginocchiata al centro della stanza, come in procinto di confessarti.
Portasti l’orlo di quella camicia sul viso, sulla bocca, sugli occhi,
senza consapevolezza, annusandola, respirandoci dentro,
carezzando quel peccato inesplorabile, destinato alle altre.
Il grande specchio dell’armadio di tua madre ti sorprese.
I grappoli di uva ricamati a pizzo, colorati e umidi, ti coprivano il viso;
dietro quella maschera di stoffe potevi fuggire
dalle grate della clausura a cui eri destinata;
diventavi un’odalisca, danzante nel buio, discinta.

Bisognava sorprenderti in uno di quei momenti
per comprendere che forse, anni prima anche tu eri stata una bambina;
forse anche tu avevi desiderato ricevere un bacio, sentire una carezza,
raccogliere lo sperma con le dita, tra le gambe…
Dopo un po’, qualcosa sbattè alla finestra.
Un colpo di vento, forse; un albero di pino col suo collo da giraffa;
un passerotto, illuso di poterti rallegrare.
Rimasi ancora un attimo, con l’occhio alla persiana,
la punta dei sandali conficcata nei fori della piccionaia.
Era bello scoprire che sotto la sazietà esibita ad ogni invito,
sotto la maschera di legno del tuo viso – non smossa da alcun piacere –
sotto la virtù glorificata della castità, del sacrificio, del ritiro,
tu fossi, o fossi stata, tutt’altra, sensuale, timida, golosa di vita
– almeno da piccola, almeno nel buio di una stanza,
almeno nell’allucinazione del ricordo, del desiderio, dello specchio –.
Avrei voluto raggiungerti lì dentro, come un vento che sussurra;
dirti “Guarda, guardati, sei donna anche tu, i tuoi occhi sono belli,
la tua bocca è per un bacio; il tuo fremito è legittimo”.
Avrei voluto spegnere tutte le luci e le voci del mondo, per lasciarti proseguire.
Non ci riuscii, ad essere con te, a cessare le campane di mezzogiorno.
Ti accorgesti di qualcosa. Di me.
All’improvviso, il nastro di luce che attraversava la stanza si riavvolse,
scomparendo nell’occhiello della serratura;
lo specchio del grande armadio richiuse le palpebre, amareggiato;
il tuo viso, il tuo corpo, il tuo desiderio, il tuo portamento,
tutta intera diventasti di nuovo vecchia, una statua di legno,
di quelle erette nei cimiteri per celebrare una vergine ammazzata dai nazisti.
I grappoli di pizzo tornarono ad essere ricami,
nel marmo impreziosito dei conventi di clausura, ed esser ripiegati.

Uscisti da quella stanza come da un tempo e da un luogo lontanissimi.
Eri di nuovo tu.
A quel punto, il passerotto si ritirò davvero dal davanzale.
Io scesi dalla mia postazione. Avevo paura della luce
– come te d’altronde –, sebbene la luce, come dicono,
ci insegni a riconoscere noi stessi,
ad assumere la maschera più adatta per ogni circostanza.
Abbiamo sempre preferito il buio, noi, l’intravisto, il chiaroscuro,
l’allucinazione di qualcosa che è proibita ma che pure vuoi vedere.

Ti ricordi quella estate, la mia prima da adolescente?
La prima trascorsa da te?
Mi ero chiuso in bagno, da solo, e disteso nella vasca –
lo facevo spesso: avevo bisogno di tempo, per prendere confidenza
col mio corpo nuovo –.
A quel tempo il balcone di casa già arrivava fino al bagno e alla sala.
Avevamo le zanzariere alle finestre, e i vetri spalancati per il caldo.
Avevo appena litigato con mio padre, e avevo bisogno di ritrovarmi.
Spesso ci capita che il sesso ci permetta di raggiungere una dimensione onirica,
e allora una corda rossa, di seta, sembra uscire dal ventre;
ne prendiamo un capo, lo tiriamo, quello si svolge sorprendentemente,
rivelando a poco a poco tutti i nostri desideri, quelli sconosciuti, inconfessabili.
Cominciai a toccarmi, lentamente, ad occhi chiusi,
fino a sporgere quel nastro.
Lo presi tra le dita, me ne avvolsi la testa, i capelli;
me lo misi sopra gli occhi, tra le labbra; ci giocavo.
Tu eri lì, impietrita ma non mossa, attaccata alla zanzariera;
avevi guardato tutta la scena
– era il tuo modo di chiedere e desiderare;
non potevi farlo che così, di nascosto, rubandolo agli altri,
godendo attraverso gli altri o nel nome degli altri –;
e io ero lì, a soddisfare il tuo piacere di madre,
sapendo bene che quel piacere l’avremmo nascosto entrambi,
tu ed io, agli occhi luminosi di mia madre.

Hai sempre vissuto così, dietro una finestra o nascosta da un vetro,
a guardare a rubare, ad ascoltare.
Non te stessa naturalmente, ma gli altri;
certe volte, mentre mi facevo la barba sovra pensiero,
mi accorgevo di non avere più lingua, di aver perduto un occhio;
altre volte mentre mi pettinavo
avvertivo il pettine scivolare da solo tra i capelli;
certe volte ancora mi sembrava di cercare un fazzoletto
per asciugarmi le labbra,
o di non trovare l’accappatoio, la canottiera, i pantaloni appena smessi;
poi mi giravo, e mi rendevo conto che il fazzoletto ce l’avevo,
me l’avevi messo in tasca tu, silenziosamente;
mi accorgevo che l’accappatoio, o la canottiera
mi eran stati puntualmente già lavati,
oppure che quel pantalone l’avevi nuovamente stirato
e mess’a posto nell’armadio.
Eri sempre lì, a scrutare nel tuo specchio ingranditore
– quello specchio che amavi tanto e che portavi tutto il tempo nella borsa –;
ti perdevi nelle sue deformazioni a guardare il mio occhio,
la mia pelle, – ecco dov’erano finiti! –;
a controllare che mi fossi lavato i denti, che non avessi fumato troppo,
a indagare se fossi davvero andato a lavoro, o non mi fossi perso,
piuttosto, tra i cuscini di un’amante.

Le sere in cui nostro padre e nostra madre non tornavano a casa,
per impegni di lavoro, tu eri felice,
felice di poterti abbandonare alla tua brama di controllo,
di poterti sostituire a nostra madre.
Non riuscivo mai a cenare da solo, a guardare la tivù,
a leggere un libro o a stendermi nel letto in santa pace: tu eri lì,
incollata a me, dietro di me, in piedi,
a scrutare nel piatto se per caso non avessi lasciato qualcosa di immangiato;
eri lì con me, sul divano, a leggere sottovoce la mia stessa pagina,
la mia stessa frase, la mia stessa parola;
eri sempre lì vicino, con me, accanto a me, dietro di me o davanti,
e se avessi potuto infilarti con me sotto le lenzuola, chissà,
l’avresti fatto.
Sì, l’avresti fatto, come hai fatto quando ero bambino
e per anni hai liquidato ciascuno dei contendenti,
stabilendo che il mio posto a letto era con te, nel divano letto della sala,
di fronte al televisore: ricordi?
Quanti anni abbiamo dormito insieme?
Quante volte ti ho sentito respirare accanto a me,
vegliare sul mio sonno, piegarti sul mio corpo…
Sei sempre stata così, vecchia pazza bisbetica, malata d’amore,
insolente pettegola velenosa, ladra, bugiarda, appiccicosa,
sempre lì a guardare in un buco della serratura, del culo, della figa,
della bocca, della porta del bagno, della camera da letto.
Appena t’accorgevi di una serratura ti prendeva una sorta di violenza incontrollabile;
dovevi aprirla, guardarci dentro, sputarci dentro, per sporcarla,
perché nessun’altro potesse possederla dopo di te.
Mia madre aveva una scatoletta di metallo,
di quelle piccole casse forti da armadio nella quale credo
non conservasse altro che qualche collanuccia, o un libretto sanitario.
Andasti a prenderla, a scovarla, approfittando della sua assenza,
spostando un indumento dopo l’altro.
Non riuscendo ad aprirla con qualcuna delle tue chiavi,
ti mettesti a percuoterla e sfondarla.
Dentro c’era una vecchia foto ingiallita di mia madre,
giovane, bellissima,
ritratta nel momento della prima comunione;
ti infuriasti, la facesti a pezzi, a piccoli pezzi.
Al ritorno dal lavoro, di sera, quando i miei scoprirono l’effrazione,
avesti il coraggio di accusare me:
“È stato il bambino; voleva pazziare e ha rotto la scatola”.
Sei sempre stata così, vecchia pazza, ladra, meschina, sfortunata.
Sfortunata.
Avevi desiderato da sempre una vita normale, anche tu;
una casa, un marito e una famiglia;
ma una madre più pazza di te, una madre crudele ed ottusa,
aveva stabilito che sua figlia sarebbe stata dedicata alla famiglia,
ad assistere lei, la parassita, la violenta dagli occhi di ghiaccio:
da bambino mi spaventavano perfino le sue fotografie;
quella schifosa aveva stabilito che tu le dovessi fare da balia per tutta la vita,
che tu avresti fatto da balia a tutti i tuoi fratelli e sorelle.
Per questo, hai trascorso la vita vivendo di elemosine,
raccattando le briciole degli altri, del piacere degli altri;
passando di casa in casa, randagia, senza una stanza, senza un armadio;
indossando i cappotti dismessi degli altri, le vestaglie delle altre,
le pantofole buttate;
rovistando sulle tavole degli altri, nelle stanze degli altri;
pulendo i cessi degli altri, accettando le limitazioni e le condizioni degli altri,
subendo lo scherno di quelle più belle, più giovani, di quelle con i figli;
obbligata ad accettare solo ciò che rimane del calore di una cena,
di una festa, di una stufa;
mandata a letto come un’orfana, da sola,
a recitare le profezie, da sola, con l’angoscia di non essere tenuta,
di venire abbandonata, senza infanzia, senza giovinezza,
senza mai mai mai aver avuto un solo bacio.
E quando l’artrosi e la vecchiaia ti hanno impedito di piegarti,
di lavarti da sola, di pulirti dal piscio, sei rimasta sporcata,
come un cadavere, un crocifisso, una lapide imbrattata,
senza che nessuno ti desse una mano,
tu stessa incapace di chiedere aiuto, di chiedere perdono, di gridare.

Nessuno si è mai preso cura di te.
Forse la tua rabbia ci ha fatto comodo,
ci ha permesso di designare in te quella cattiva, velenosa, da buttare.
Certo, eri così, ma nessuno si è mai preso la premura di guardare più oltre,
di comprendere più a fondo se mai vi fosse stato un tempo
e una bambina capace di amare,
se non ci fosse ancora qualcosa da amare,
al di là della tua maschera pelosa e aggressiva.
È stato comodo per tutti.
Abbiamo trovato il nostro tornaconto.
La tua distruttività ci ha permesso di considerarci buoni, totalmente buoni;
la tua perversa attrazione per gli orifizi ci ha permesso
di non soffrire in noi stessi le nostre perversioni;
la tua velenosa zizzania ci ha permesso di negare le voragini
delle nostre relazioni già bell’e sfasciate.
Mai nessuno si è soffermato a considerare quanto sei stata sola,
tutta la vita;
quanta vergogna hai dovuto subire quando le più giovani,
quelle incinte, le ultime arrivate si spogliavano,
sottolineando di fatto la tua vecchiaia e la tua mancanza di femminilità.
Non ci siamo mai chiesti quanta umiliante sofferenza ci sia
nell’accettare di venire ospitata in una casa straniera,
da un ospite straniera che ti ospita per pena,
per sottrarti al dormitorio, per amore del marito…

Quante rinunce hai dovuto accettare? Quante perdite?
Quante amputazioni?
Mi piacerebbe parlare di questo, parlare di te, sai?
Sarebbe bello, ci avvicinerebbe. Non l’abbiamo mai fatto.
Soltanto una volta hai aperto un cassettino del tuo secretaire,
accennandomi qualcosa di tanti anni prima:

Quando ero piccola, avevo dieci anni o quasi, stavo diventando signorina. Mia madre mi prese da parte e mi parlò a lungo. Mi disse che dovevo rinunciare a correre appresso ai ragazzi, come facevano le mie sorelle, dovevo seguire i miei fratelli – tuo padre soprattutto, che si sarebbe trasferito a Napoli con tutta la famiglia. Si mise a piangere; poi mi disse ancora: ‘Se te ne vai anche tu, chi rimane ad assistere me?’ Io le dissi che mi sarei occupata comunque di lei, ma che volevo uscire anch’io, come le mie sorelle. Non volle sentire ragioni; ribadì che dovevo rimanere per sempre al suo fianco. Se quella stronza mi avesse lasciato fare la mia vita non avrei dovuto fare la serva a tua madre e a quei porci dei miei fratelli…”.

Un bel raggio di sole era entrato tra di noi,
ci aveva permesso di scoprire per la prima volta i tuoi occhi di bambina,
la tua voce timida e gentile che chiede aiuto, che chiede amore,
che sa domandare;
quel raggio ci aveva riportato a quel momento terribile,
quando tua madre,
col viso suo da Gorgone, ti aveva condannato a morire per sempre.
Chissà, se quella luce non si fosse spenta subito avremmo potuto
sognare un’altra vita,
ritrovare qualcosa di vivo, ancora, di vivo e di materno
sotto la tua maschera di legno; ma tu non hai potuto.
Ci sono dei momenti archetipici che cambiano per sempre
la nostra storia e noi stessi.
In quel momento, tua madre aveva cambiato per sempre la tua storia,
e tu l’avresti cambiata a mia madre e a tutti noi.

Quando vi trasferiste a Napoli – tu, mio padre e tutti i tuoi fratelli –,
a casa nostra, avvenne qualcosa di incredibile.
Un giorno mia madre tornò dal lavoro, di sera tardi – come tutte le sere –.
Si levò il cappotto di lana beige tagliato a mano
(ho una foto in cui sembrava Haudrey Hepburn);
si sedette sorridendo, si sbottonò la camicetta di cotone che indossava
per allattarmi.
Tu ti fiondasti su di lei, le scippasti il bambino dalle braccia,
gridandole che proseguire l’allattamento mi avrebbe provocato
una “febbre” pericolosa.
Da allora in avanti ci avreste pensato tu e tua sorella ad allattarmi,
col biberon.
Mia madre rimase sbigottita.
Forse la colpa di esser stata una madre, di amare suo figlio,
le impediva di reagire, di rivendicare per sé, ancora, quel piacere erotico,
quel gioco sensuale del contatto con la pelle.
Di fatto, le avevi sottratto violentemente la maternità,
l’avevi amputato anche a me quel seno.
Me lo hai detto tu stessa.
Ci tenevi a raccontarmi com’erano andate le cose.
In realtà, ho idea che ognuno di noi conservi la profonda memoria
di ciò che si aggiunge o si sottrae al nostro corpo.
Io sentivo che la bocca stava vuota, e che ogni giorno
si ingrandiva ancor di più, cercando altro,
cercando di nuovo quel seno che una volta aveva avuto.
Il tuo biberon, infilato maldestramente dentro di me,
mi arrivava nella gola, nel respiro, negli occhi:
mi sentivo paralizzato. Potevo solo piangere.
Quel biberon divenne ogni giorno più denso, più duro, più freddo;
e quella cosificazione si estese rapidamente alla mano,
al tuo braccio, all’intero tuo corpo;
diventasti a tua volta minacciosa e inaccogliente.
Anche quando, magari, avevi in animo di ridere,
sul tuo volto compariva un’espressione di sdegno,
di squalificazione, una specie di ghigno;
e quando ti protendevi per accogliere qualcosa tra le mani
– chessò un fascio di fiori, una scatola di cioccolatini, un lenzuolo nuovo –,
i tuoi muscoli si contorcevano istintivamente,
producendo un gesto stizzoso di rifiuto, di espulsione, di rabbia.
Avevi soffocato la riconoscenza per chiunque,
proprio come tua madre aveva soffocato, dentro di te l’entusiasmo,
il sorriso, la grazia. Eri diventata una minaccia.

Ricordi l’estate del ’78? Avevo tredici anni.
Eravamo tutti insieme in vacanza, la solita sacra allargata famiglia;
io ero partito in campeggio con i boy scouts;
voi passavate le giornate chiusi in casa, a seccare la frutta,
a tostare le mandorle.
Uno di quei giorni, uno dei tanti, cominciaste a litigare.
Mia madre camminava per casa come una creatura del primo paradiso,
innocente, quasi nuda, ignara della propria bellezza,
senza intenzioni sessuali o provocatorie;
voi cominciaste ad apostrofarla “puttana”; mio padre la insultò,
dicendo che voleva “attirare” gli uomini sotto casa, e tuo fratello,
quell’ottuso maiale, forse raccogliendo il vostro odio e il vostro intento,
le mise le mani addosso, la spinse sul tavolo, le stracciò i vestiti.
Lei reagì, colpendolo con un piatto, e tu la feristi tagliandole
un braccio con la forchetta.
Io ero in campeggio – come ti dicevo –; stavo facendo un girotondo,
quando vidi arrivare due vigili urbani che chiesero di me al capo scout.
Mi sentivo angosciato e imbarazzato davanti ai miei compagni.
Mi portarono via.
All’arrivo, vidi una calca di persone urlanti, guardare verso casa.
Mi feci spazio.
Dall’angolo del balcone cadevano gocce di sangue sulla strada.
Cose così ci insegnano che l’invidia, la ferocia, il male sono ineludibili;
ci piegano per sempre al nostro destino, spesso così diverso
dalla nostra natura o dalle nostre aspirazioni;
e il meglio che possiamo fare è prenderne coscienza.
In quegli anni della nostra vita familiare
io presi coscienza che i miei legami sarebbero sempre stati cordoni ombelicali,
e per ciò stesso indissolubili.
Mia madre prese coscienza della violenza compresa nel ruolo suo di vittima,
ruolo che le era stato assegnato da altri ma che lei indossava con accuratezza.
Tu prendesti coscienza – o avresti dovuto –
di quanta follia c’è nel rincorrere tutta la vita una donna, una madre
o un amante da liquidare,
quando l’unica che avresti voluto veramente ammazzare era già morta,
lasciandoti in destino la disperazione di non volere
e non potere ammazzare che te stessa.

Nei nostri anni di vita familiare, il destino che ti era stato assegnato prendeva forma, giorno dopo giorno.
Passavano le sere, gli anni, le stagioni; diventavi sempre più odiata,
sempre più dura, violenta. Sembravi perfino rimpicciolirti,
una malata di Parkinson, paralizzata in una smorfia di dolore o di disgusto.
Ti guardavo sottocchio, la sera, dal mio tavolo da studio;
rimanevi sola, aspettando che tutti gli altri fossero a letto,
per metterti a frugare.
Le tue dita sembravano scivolare l’una sulle altre per la frenesia e la voracità,
per la fame e la vergogna di venire scoperta a rubare.
Ti nascondevi dietro la tenda, ché nessuno vedesse,
a mangiare gli avanzi della cena;
sembravi un cane randagio che divori voracemente, furtivamente,
un pezzo di cotenna ritrovata tra i rifiuti.
Oppure ti chiudevi nella camera d’ingresso,
per sottrarre quegli oggetti senza senso che tu ritenevi preziosi
– un pezzo di stoffa, un quadro senza valore, un paio di forbici –;
li avvolgevi meticolosamente in uno straccio,
li infilavi di nascosto sotto la vestaglia,
poi correvi a seppellirli da qualche parte, in casa,
bestia affamata che atterra il suo bottino.
La gente ti odiava, ti evitava, ti allontanava.
L’avevo visto succedere laggiù, al tuo paese,
con tutte le tue amiche di famiglia e tutti i parenti, uno dopo l’altro;
li liquidavi considerandoli minacciosi,
e loro ti ricambiavano mettendoti da parte.
E lo vedevo succedere ancora, sotto i miei occhi, in casa nostra.
Ti preparavi a una rottura che avrebbe diviso mia madre da mio padre,
te stessa da me stesso,
e il torto dalla ragione, l’intelligenza dal sentimento.

Dopo l’ennesima stagione di liti, dopo quindici lunghissimi anni,
mia madre vi buttò fuori di casa.
Ricordo che andaste a vivere al Vomero,
in un appartamento che tua sorella aveva comprato per voi,
presagendo la fine di una convivenza mai veramente cominciata.
Mio padre era distrutto.
D’un colpo, era stato strappato dalle braccia della amata sorella
e tutta l’atrocità della storia, raccontata tante volte in casa nostra,
tutta quella memoria diventava nuovamente attualizzata,
un Male che si ripete, evidente, assoluto, banale.
Da un giorno all’altro, una madre e un figlio venivano divisi per sempre.
Ero anch’io un figlio, un figlio tuo,
e non mi importava più la conta dei torti e delle ragioni.
Tu eri sola, stavolta, senza fratelli,
privata finanche del tuo ruolo sventurato di badante.
Eri lì da sola, in una casa spoglia come mai ne avevo viste,
mancante di mobili, di tavoli, di letti, di cuscini.
Non avevo mai visto e sentito tanto dolore.
Finito il lavoro, mio padre veniva a trovarvi, ogni sera, alle 19.00.
Scelse me per accompagnarlo; mia sorella aveva sempre avuto
una sola madre, e non era la designata.
Io lo seguivo con angoscia; non dicevo una parola,
non un respiro, mentre alla tivù ridavano Happy Days…
Fummo noi a trasportarvi quattro sedie;
un piccolo tavolino da thè su cui cenare, un servizio di piatti;
portammo delle reti, materassi, qualche coperta;
l’essenziale per sopravvivere;
c’era un solo fornellino a gas, di quelli da campeggio,
per scaldare una minestra, una sola, per cena.
Tutte le sere, non vedevo l’ora che mio padre ritornasse per venire da te.
Ci fermavamo mezz’ora, mezz’ora soltanto.

Non potrò mai dire il dolore che provai, in quella stagione della vita.
Quella casa così spoglia, bianca, privata di tutto,
era il Guernica che la nostra famiglia aveva rivissuto,
e che adesso vedevo, con evidenza, davanti ai miei occhi.
La luce fioca emanata da una lampada d’alluminio;
la spalla di un animale squartato, lasciata sul davanzale della finestra;
i tuoi occhi ingigantiti, terrorizzati;
la tua bocca straziata ed aperta; i denti squadrati e ingialliti,
tutto ciò era la cosa più bella e terribile che avessi mai visto.
Tu e il tuo viso che non potrò dimenticare, diventaste il segno della sconfitta,
del dolore patito crudelmente, in nome e per conto dell’uomo,
di ogni uomo spogliato della dignità.
Lì, in quella resistenza muta, in quella assenza illuminata dalla lampada a gas,
cominciava la bellezza e la storia che avrei raccontato,
un giorno, da grande, tra mura scrostate e visi straziati,
tra i silenzi interminabili durati per anni.
Cominciai da allora, credo, a considerare la bellezza delle parole misurate,
abbandonate tra gli oggetti derubati alle vittime, ai profughi,
come tu sei e noi eravamo;
cominciai a considerare quanta ingiustizia c’è nell’esecuzione
di una condanna, di un atto, di ogni atto,
foss’anche di giustizia, di liberazione, di riscatto;
e come può mutare rapidamente la storia e il destino dell’umanità,
di una famiglia e dell’amore,
quando le cosiddette vittime colgono l’occasione e il gesto ferino
per essere carnefici,
anch’essi, dimentichi dell’orrore subito e denunciato!

Dalla croce non si scende – lo apprendevo a tue spese;
in quelle sere, in quel confino, tu diventavi una vera mater dolorosa,
e quella che un tempo lo era stata davvero ritornava ad essere
una madre, soltanto, una madre sola.
Tutti i torti, tutta la crudeltà e la miseria che avevi vissuto e conficcato
si scioglievano nei colori silenziosi e più sfumati di quella tela tragica
che io, da bimbo, ero stretto ad ammirare,
e dalla quale sarei uscito, un giorno, raccontandola,
in modo da restituirti l’onore della comprensione,
del conto pareggiato
la gratitudine per avermi insegnato a ritrovare l’amore
anche nel gesto di rifiuto;
a sentire la sofferenza anche in coloro che gridano vendetta;
a ritrovare la ricchezza anche nelle briciole di un pasto,
di una stufa, di un sorriso.
Alla fine di quella mezz’ora, quando tornavo a casa di mia madre,
happy days era finito. Avevo per sempre due madri e due lingue.
Le avremmo avute tutti, per sempre, due lingue.

Vedo che sei stanca adesso. Lasciati andare;
mettiti qui, sul divano, stendi la schiena e le gambe;
metti i piedi su di me: ti aiuterà a sentirti più distesa,
a conquistare lo spazio e il contatto con le braccia,
quello spazio che non ti sei mai permessa.
Perfino dopo la perdita dei tuoi adorati fratelli
– il tuo Cosimo, il suo amatissimo Ubaldo, la tua gemella Carla –,
dopo la morte di tutti,
quando ormai i riflettori erano puntati su di te, unica superstite
di quel lungo ciclo miceneo ch’è stato la nostra famiglia,
perfino allora hai scelto di occupare poco spazio.
Sei ritornata a vivere da sola, in una stanza sola
– la stessa dalla quale noi bambini scrutavamo il cielo
prima di partire per il mare –, ma più lesionata adesso, tralasciata.
Un museo dei ricordi, nel quale ogni oggetto
– le boccette di profumi, il vecchio pianoforte, un calendario anni ‘70 –
aveva ripreso il suo ruolo di cosa,
come accade forse all’inizio di tutto, e come accade alla fine dei giorni,
quando la dimenticanza ci divora, e ogni cosa torna a risplendere
per i suoi colori, per le sue forme, la sua vicinanza.
Eri diventata così anche tu, oggetto tra gli oggetti,
stipata in poco spazio, al buio, sulla dondolo di vimini.
Negli ultimi tuoi anni, non ti era più necessaria l’apertura, o la libertà –
tutte cose che connotano l’essere vivi,
ma che diventano dannose in vista della restrizione progressiva
del corpo e dello spazio, della morte.
Eri più saggia di noi tutti; lo eri diventata;
avevi accettato quella solitudine che un tempo era stata la tua condanna,
l’elemosina lasciata dagli altri,
e che adesso vivevi con dignità, senza piagnistei.
Eri tu, ancora tu, con la tua maschera di legno, la tua amarezza,
ma più rispettabile ormai, del tutto rispettabile.

Negli ultimi anni, quando venivamo a trovarti, laggiù, ad Ascoli,
ci accoglievi come non avevi mai fatto, a braccia aperte,
col viso più disteso:
una padrona di casa, finalmente, regale, solitaria;
io ti stimavo per quella dignità, per quel contegno nell’esprimere un desiderio.
Pure quando si trattava di passare un Natale, una Pasqua
o una vacanza insieme,
tu aspettavi che qualcuno lo chiedesse,
che io o mia sorella venissimo a prenderti.
L’alterigia e la presunzione di un tempo avevano lasciato il passo
al disincanto
per l’amore che può essere e non è.
E quel farsi invitare, quell’attendere l’invito, era una civetteria
da vecchia nobildonna,
la garanzia di non essere di peso, una garanzia necessaria dopo tutto
per sorridere un poco,
per essere più liberi di fare una passeggiata, di prendere un dolcetto.

Una civetteria, sì. È strano, te ne accorgi?
Eri stata, per un secolo e oltre, l’emblema della durezza,
un corpo senza pelle, senza fisionomia, reattivo ad ogni alito di vento,
e adesso stavi attenta perfino alla giacca da abbinare,
alle scarpe lucide, alla gonna nuova.
Se qualcuno ti proponeva di metterti il cappello per il freddo
tu rispondevi – stizzita adolescente – che ti avrebbe rovinato i capelli.
Forse, la morte di ognuno dei tuoi cari,
la solitudine di chi rimane ultimo,
la convivenza quotidiana con la morte ti rendeva libera dalla colpa,
dallo sguardo degli altri, di tua madre soprattutto.
Non c’era più nessuno, adesso, a tenerti “dentro”
– tranne la tua fragilità; e pure di quella te ne fregavi,
come se un’altra possibilità, in quel momento
(a pochi mesi dalla fine) fosse diventata ineludibile
– un bisogno di aria, di luce calda, di sensazioni –.
Non che non fosse già nella tua natura.
Sei sempre stata una ginnasta infaticabile,
ti prendevamo in giro proprio per questa tua istancabilità,
non stavi ferma un attimo; pranzo, cena, piatti, pavimenti,
scendere le scale, salire le scale, scendere, salire, scendere, salire…
Sei sempre stata così, da giovane.
E negli ultimi tempi, eri diventata ancor più “vagabonda”
– come dicevi tu, scherzando di coloro che viaggiano –;
uscivi tutti i giorni, per fare la spesa – cinque euro, mi raccomando,
soltanto il latte, la pasta e il pomodoro –,
per andare a messa, per recarti al cimitero, tutti i giorni, al mattino.
Quella devozione ai tuoi fratelli, a tutto il tuo mondo,
era una preparazione, la promessa di un incontro,
di un incontro rinnovato con l’amore.
Ancora di più, quando stavi con me, ed io ti sballottavo per l’Italia,
a visitare i monumenti e le chiese,
ti si illuminavano gli occhi per tutto quel mondo,
per tutta quell’aria respirata insieme.
Avrei voluto restare con te, allontanare da te ogni interferenza,
restituirti una stagione intera di assoluta emozione, sì,
l’emozione della felicità,
della giovinezza, non più stemperata dalla resistenza del corpo.
Una luce, un sorriso, un suono, un profumo, che giungesse
nel profondo dell’anima; la carezza di un bambino.

A volte per sfotterti ti davo un bacio,
e tu ti ci opponevi, tirando indietro la schiena,
chinando il capo per nasconderti a qual bacio: mi dicevi che ero “scemo”,
col sorriso mal celato di chi desidera il contrario.
In quei momenti, sentivo tutta la solitudine che hai patito,
e che mai nessuno può comprendere o emendare.
Bisogna essere stati vivi,
aver desiderato un bacio, una carezza, un amplesso,
una corsa nel grano, una lotta corpo a corpo;
bisogna essere stati scorticati, privati di ogni contatto,
per sapere cos’è la morte, o la felicità.
La vera angoscia è vedere sul viso degli altri il disgusto quasi,
l’indifferenza nel toccarci, accarezzarci, o abbracciarci,
nel prenderci per mano quando scendiamo le scale.
Forse per questo le statue sono sole, così dimenticate;
i loro visi hanno sempre quell’espressione accigliata e sofferente;
o forse è per questo che la sola possibilità di morire senza disperazione
sarebbe restare a lungo ricoperti dalle mani di coloro che amiamo,
le loro mani, le braccia, le labbra, avvinghiate al nostro corpo.

Questa era la felicità che ho sempre voluto darti, negli ultimi tempi.
Per questo ti ho detto, stenditi su di me;
ti tengo io; chiudi gli occhi, dimentica, o forse no: ricorda,
ricorda questo contatto tra di noi;
scrivi sulla tua pelle di questo amore riconosciuto;
incidilo nelle cartilagini, nei muscoli,
nascondilo sotto le sopracciglia, o tra i capelli;
tienilo tra le labbra; conservalo negli occhi;
adesso ci prepariamo, entrambi, per un’altra dimensione,
più profonda, più nostra… Ci riesci?
E io, ci riesco a farti essere una bimba finalmente coccolata?

Ti ho ritrovato quello specchietto magico,
quello che ingigantiva e deformava i nostri visi, ricordi?
L’ho messo qua, proprio sul tavolo, di fronte a noi…
No, non preoccuparti, non ci serve per scoprirci
– perché dovremmo d’altronde? –;
non ci è più necessario restare a scrutare la vita degli altri,
e neppure indirizzare in modo obliquo il nostro desiderio:
siamo entrambi bambini, ormai – ce lo dicono tutti,
con quell’espressione che ci piace così tanto, infantili –;
possiamo entrambi permetterci di vedere le cose più profonde
– una sirena, che dorme di fianco sul fondo del mare;
una forchetta arrugginita, appartenuta a chissà chi;
una cassaforte sfondata dalla quale è riemersa una penna stilografica –,
senza doverle recuperare, catalogare o assegnare a questo o quel proprietario;
alla fine, ognuno può considerare le proprie aberrazioni,
le colpe, le affinità vissute o inflitte, o ritrovate negli altri.
No, non preoccuparti. Mi pace tenerlo lì, di fronte a me;
mi piace, mentre rimango sul divano, con te accanto,
a perdermi in quella superficie deformante in cui le linee del corpo
si stondano,
i visi si allargano, i corpi si allungano,
e pare di esser come noi desideriamo;
distendo un braccio e questo si piega, mi abbraccia;
apro una mano, lentamente, fino al punto in cui le dita si intrecciano alle altre,
due mani, una nell’altra…
Scivolo appena sul divano, muovo una gamba, la vestaglia si apre;
due curve si avvicinano, due gambe, una sull’altra, due corpi, caldi, morbidi,
due corpi, uno nell’altro; e quel viso, che meraviglia…

Accenno un sorriso, e pare che la bocca si dilati,
che gli occhi s’ingrandiscano, diventan luminosi, luminosi,
le labbra si avvicinano alle labbra, le tue…
piego appena la testa, ti raggiungo, ti bacio…
penso alla notte, che pare stellata, la dolce notte, la buona notte.

Dormi, mia fragile, altera mater. Le parole non servono più.
Puoi dormire adesso, puoi dormire.
Ci sono io, qui vicino, per sempre.


Napoli, Ascoli Satriano, Aosta, dicembre 2012 – febbraio 2015

It Was, poemi 2010-2015, La Vita Felice, Milano 2017











Nel corpo tuo rimorso. Poesie, 1986-2002.

Autunno

Autunno

L’albero spoglio
le foglie

Lontano ancora un giorno abbuia
L’ultimo uccello riparte

















La notte ha consumato

La notte ha consumato
un’attesa di stelle

Dolore di cose passate
di cose non dette
di veglie e penitenze

Sto
come la vite
all’olmo crocifissa

















NEL CORPO TUO RIMORSO

I

Giorno dopo giorno
l’immenso che sprofonda in gelida fessura
il sibilo che usura l’interno e che effondeva…

II

Stabat mater bellezza e ombra della follia
e specchio giunto era il tempo che io nascessi
al lontano cammino dal lontano dove
ricurva e dolente inghiottiva l’orizzonte
ma inoltrandomi a notte e nel remo la paura
che il respiro della laguna sperdesse la rotta
colmasse la misura

III

Non posso fermarmi mi dici a una stazione
perché è a ritroso il mio viaggio già state
cucine semibuie seminferme corride di grida
latranti liturgie e dentro lo spasmo convulso
del sangue nel giugulo nel morso l’agonia
no non posso fermarmi voltarmi a ricordare
dare nome all’inaudito meglio per me l’amaro
masticare di chi non errando giudica l’errare
meglio l’amore quello normale ossia
tradire discutere se sei solo mia
e insieme accusarti del limite morale
tu stesso diviso tra bene non male
ridotto a puro avverbio il dopo e il prima

IV

Proprio vero è l’inganno il tuo logorio
verità o bellezza bellezza o verità
dimmi le cose che conoscere dovrei
e che nuda mi stringono al segreto degli altri
con cui te ne vai me in corda
alla fonda di ogni tuo umore
ma troppo sei bella ch’è alibi e dissuasione
quando il conto degli anni mi chiedi
con me sprecati tra omissis e viltà
e le altre maldicenti quella puttana
che pure col mestruo lo fa’
pardon la tua giovane età

V

Per quel poco che mi dai quanto ti perdono
ciò che insieme coniughiamo
figgere croci attender punizioni e ancora
ambivalere non vocare non potere non mai profferire
che amarti avrei voluto per le strade d’ogniddove
solamente accarezzarti e dal fondo dei tuoi occhi
col respiro dei tuoi giorni una volta adolescente
divenire indecente confinato all’infinito del tuo prato
né rimpiangere quanti anni ci dividono in coscienza
o nel corpo tuo rimorso tuo tutto presente
l’antica che inabissa e che riemerge
ventura prigionia in cui mi tenevo
una volta amore vero

VI

Misera insostanza del dolore rasternato
se al raptus ex o propter uno è sospinto
oppure se all’equivoco che crescere comprendere
il dolore del mondo significhi risolvere la colpa all’incoscienza
assolversi che il male con gli anni appena segna
ed è già via già l’oltre-galleria
quando al vero ritorno di questo viaggio
fra cose secondarie e necessarie
non dipinto né racconto solo viva continua
recitata malattia di un tempo di vergogna e di follia
quando il corpo profanato giovanile…
ma eccoci in stazione – mi distolgono le hostess
in completo verdeblu sempre pronte al bel sorriso –
sì grazie un caffè riprendo un giornale
che non leggerò

VII

Così così lontano dalla casa impossibile
nel corpo di passione irremissibile bellezza
ben oltre il confine di materia e di giudizio dirti
semplice banale mia stessa giovinezza
vorrei che le ferite più dei versi dicessero
che per te me ne andrò quando tu te ne andrai
invaso il cuore dai tuoi fantasmi
lasciate le dimore che avremmo abitato
e questo diario che tu scrivi non per me
e che io insanguino per te

















IL VIAGGIO IN NORMANDIA

Per noi che partivamo
lungamente sospinti a una prossima estate
dalla neve sulle giacche dal vento dal sale
per come era pesante la schiena
e incurvata dal passo in solitario
già il nome Normandia invitava al sorriso
stringeva di speranza la mano al finestrino

Appresi alla cornetta il tragitto del viaggio
dal Nord alla Baia affondando per vigne
come dire negli anni un ritorno di affanni
un ripetere a memoria una storia d’appendice
che in qualche scaffale
e insieme annotare quanta infanzia era invissuta
quanto è inutile sorprendere ogni angolo
che s’abbia di case di pietre
tra fumi di stalle e vapori di falesie
se insieme ci si allena e ci si tempra al disamore

Ma era questo il sottinteso
completare il sussidiario con te che non parli
e che pure non ignori il vuoto spalancarsi
l’angoscia di fissare infantile in qualche foto
tutto il mondo inafferrato
che pure e ancora amiamo

Due possono viaggiare se possono incrociare
chi il cammino fa in ritorno,
i visi patriarcali silenziosi ma felici
magari aspettando che l’umido si levi
del dopo temporale

Guardavo al mattino l’orizzonte di Etrétat
strette cale d’inverno dove il freddo si scioglie
sui ricami all’uncinetto dei vetri d’albergo
sul profondo tuo dormire – pensavo
sia felice almeno questo –
e finalmente ero sereno
finalmente ero un gabbiano svernato
in quell’oceano

La donna della vita rincorsa
per le strade tra Caen e Rouen capelli biondi o neri
– è chiaro ha già sorriso è proprio qua vicino
e noi che la guardiamo ebetiti immaginando
soltanto per scherzare non certo per guastare
quel viaggio in Normandia di amaro e nostalgia
che in fondo ci piaceva
e che tutte le sere a tarda sera terminava
tra sbuffi di Gauloises e stecche di biliardo
su cosa s’è sbagliato e poi chissenefrega

E il viaggio il miraggio tutt’era inconfessato
pareva uno spettacolo spianato
giallograno verdefoglia rossoterra
e infine quel mare dove un giorno arrivammo
l’insegna del Martini la piazza la spiaggia
e lei che m’attendeva
guardando l’immenso l’azzurro
del mare di Denneville

Mesi e mesi di amore scavato nella carne
ero forse un passante nel tuo giro di morte
fingevo ma ti amavo davvero ti amavo
quando all’angolo del bar tremando mi dicevi
je sais qu’on s’est passé quelque chose
qu’ici s’est partagé…
quando a un mare lontano
e forse non a caso ti ritrovavo
sulla mia strada

Capace amico di incoscienza
sii testimone di questa ricerca
sassi raccolti su scogliere di granito
fari notturni alghe di scarpe
reti da pesca e ostriche e vetrate di bar abbandonati
maree e ritirate di spiagge e di falesie
sii testimone di quanto ho annaspato
del lavoro operoso senza salario
cazzate e risate e imbuti improvvisi
di scale e di silenzi

Tu eri là
incarnata libertà che avevo sognato
e che il mare levigava
senza il coraggio di avvicinarti
ma nel cuore la certezza che giammai
avrei scordato qual mare di Denneville
dove l’ultima volta ti avevo amata
e lasciata nel tuo male
al mio ritorno

L’uomo che ha deciso di condannarsi
così riparte
con quel poco di dolore lasciato
a un’altra volta e quel poco di gioia
– vedrai le scriverò
né spezzerò questa corda di vene che ci unisce
e poi potrò tornarci se una volta è già stata

Così la Bretagna e la Bassa Normandia
invitavano al calore del ricordo
fissavano un estremo al ritorno da grandi
con mogli sicurezze e l’incerto retrogusto
di un vino mal scelto

Ciò che andava cercato era tutto
raccolto in un angolo di casa dal tetto spiovente
di travi e di abbaini
sotto un manto di coperte
nel sonno che sorprende
mentre si ride si parla e un po’ si straparla
di donne e di avventure

E noi eravamo noi proprio i pellegrini
senza fiato a piedi nudi nelle sabbie di Genêts
traversanti la Baia che invece a un monte
sospeso guardavamo come all’ultimo traguardo
al vero da capire
un poco ingannandoci
tenendoci per mano

















LA NOTTE CHE ETEREA EFFONDE

La notte che eterea effonde
creando e disfacendo il calice del mondo
l’infanzia che incombe ricorre nell’ombra
eppure non s’arrende davanti al tuo portone
il giudice che addita
la croce e la delizia del paradigma
non dolo non volo eppure bisogna

Bisogna glielo dica – solo questo aspettavo
mentre lasciavo la soglia della casa
l’interdizione antica stampata nella carne
che il figlio non possa più in alto del padre –
e lei che così morbida vestita nel bianco
assolato dei vent’anni che ormai da più giorni
all’uscita di scuola aspettava l’estate
del primo bacio dei pugni chiusi – pensavo
Signore quale distanza commette l’amore
me così in guerra lei così serena

Mio amore mio nel sogno
ho troppe e troppe cose da dirti insospese
sul filo dei secoli che ho dovuto annodare
viaggiare più veloce delle cose che sfuggono
di te che scendevi nell’ileo del sogno
di me che sul bivio ogni volta esitavo
chi sono o chi ero ma se uno all’inizio
sei felice – avesse chiesto – ch’ero troppo e leggero
e che un giorno avrei pagato

La tua follia dischiusa al sorriso
improvviso che uno al primo amore
dimostra incosciente paradiso di colori rosso giallo
e l’umido tra i petali che s’aprono sbocciata svelata
in quel lenzuolo sulla spiaggia che morbido avvolgeva
tutto il bello del mondo
e più non c’è altro bisogno né credo
sei tutto il cielo – avevi detto
le braccia levando mentre ti stringevo
mangiandoti a sbafo sentendoti gridare
affermare al tuo culmine

La tua follia di quando correvamo
vogliosi ed impazienti le scese del tuo parco
e sotto la cerniera fremente del tuo Levi’s
dicevi – non c’è niente baciamoci per strada
nel cinema all’aperto in un angolo alla metro
bagnati di pioggia d’estate ed avventati
dimènticati il padre qualunque cosa sia
è nostra la vita

la nostra follia sfilata sui sedili
la gonna e la camicia l’esposta frenesia
tu nuda e sfinita bellissima e nudata
di che l’amore sporca
di scrupolo e vergogna
ch’è adesso che ti amo e sei tu la mia gioia
presente mia storia che in te si rinnova
per cento e mille notti
ch’è adesso che ti amo
mia terra e paradiso soffiato tra i capelli
tra i seni e le ginocchia
che sfioro discopro risalgo in cui mi perdo
e tutto era insieme tua gioia mia gioia saziate
ugualmente ché ancora ti amo davvero ed ignaro
se per il tuo nome di interno berlinese
o per la mia attesa che ti aveva creata
segreto immarcescibile di colpa e di pulsione
vita aggressione

La tua follia scappare via
che importa a Milano che sia il teatro
sia la poesia sianche il diavolo
ma lasciami un figlio che almeno ricordi
che porti i tuoi occhi

Mio amore disperato e tua follia
non ero più niente eppure esistevo
per tante e tante lettere per ore al tuo telefono
– anche l’amore vi avrei fatto –
anche l’orrore l’amputazione di camere ostetriche
l’incesto la dilazione del padre della madre
qualunque copione che tu mi cucivi perché ti divertissi
perché corrispondessi a come mi volevi
– l’avessi potuto mi sarei annullata
anche per te avrei pianto
quando mi tradivi iniettandomi veleno
quando pure ogni tuo bacio per me era il primo
il giorno dopo al mattino dal fondo di memoria
se solo mi chiamavi e mi prendevi
ma lasciami un figlio che viva per sempre
e che ci sia

La tua follia normale incontenuta
che il tempo annullava che il corpo e la vergogna
che infanzia infondeva per sempre ed ancora
era quello che cercavo io ero tu eri
mito incarnato riscattata morte

Franzi mio amore
non posso arrestarmi di chiamarti di sognarti
non posso che amarti in ogni terra sconsacrata
cui il vento mi spinge di insania di nevrosi
in cui ti cerco stesso corpo stesso nome
metro di misura di altro amore
pietra miliare sulla strada che ho corso
creando e disfacendo ciò che è stato interrotto
dalla tua morte e più non so vivere
il mondo è svuotato la pagina bianca
penosa ricerca il lavoro ben fatto
inutile un’altra
impossibile amore

Se uno muore è già morto
se uno ama è già amato
ma i miei giorni passano nel dubbio
che forse avrei dovuto rincorrerti all’altare
rincorrerti a scuola rincorrerti ancora
e non questa corsa finita nel mezzo degli anni
del corpo mezzo dentro mezzo fuori
nato morto morso rimorso
gioco dovere l’asfissia l’aria
tu ed ogni altra

Se ci penso quale condanna
farti fuori per amare
dover scrivere per vivere

















Ho aspettato immobile

Ho aspettato immobile
che il telefono squillasse.

Vetri
muti frangenti
e il freddo silenzioso

















La prima volta su questo mare

La prima volta su questo mare
avevo vent’anni

e già ti disperavo

















Si corse lungamente

Si corse lungamente
sul verde
a piedi nudi

Prese un fiore dischiuso
un profumo

lo schiacciò

L’amore gli apparve
violento e leggero

















Bisogna conoscere la morte

Bisogna conoscere la morte
e ponti e notti traversato
con il piombo nella gola
del tuo nome da ingoiare

Bisogna conoscere la morte
blu cobalto alle rotaie
del turnista che al paese e che il culo
di quell’altra nella vigna e questo male

Bisogna conoscere la morte
per le camere d’albergo né bagno e senza nome
e il padre fuggire fuggire l’onore
aver scritto parole sottratte al bel sonno
giorno dopo giorno per testimoniare che

Bisogna conoscere la morte
per sapere che l’amore è tutto ciò che resta
dopo ogni maceria e che un bacio qualunque
vale più di un incanto è una scala nel cielo
che scioglie l’autunno
svapora inatteso

Bisogna conoscere la morte
contro il vuoto degli anni
nella casa destinati tra i figli concepiti
per starsene tranquilli

Bisogna conoscere la morte
nell’attesa dei tuoi occhi
perché quando mi riemergi dicendomi
dal buio che ancora mi ami
e che ancora di nuovo per sempre mi chiamerai

Bisogna conoscere la morte
per sapere che l’amore è solo ciò che vale.

















Piccola imperfetta

Piccola imperfetta
notte distante
irrisolta dilatata
scherzo terrore
moglie né forse
ogni volta l’altrove
fiore inviolato raggiunto
perduto sfuggita leggera
voltata di schiena
la fretta dei mattini
i figli gli asili
stanca franca
afasica vulcanica
fresca sorpresa
imprevisto e sorriso

forse domani
mi ami ti perderai

















Che tu mi abbracciassi

Che tu mi abbracciassi
correndomi incontro
col vento e la follia

e che mi dicessi
che è solo il mio freddo
perdendomi nel corpo

o che almeno non posso
tremando nella voce

















Per fame o per istinto

Per fame o per istinto
l’amore va consumato
ghermito nel balzo alla gola
e dimenticato

e non quest’agonia
del volo sorpreso e non finito
questo supplizio
di stare a guardare

















Insomma siamo amanti io e te

Insomma siamo amanti io e te
il che vuol dire stirare celebrare mentire
qualche volta
o anche tranottare da solo con sogni
ed amarezza
per quella differenza che scorre appena
tra il verbo e il sostantivo
tra vivi ed esser vivi

















Vicino sei come la crisalide

Vicino sei come la crisalide
incerta nella muta invernale
che all’albero rappresa si rinnova
da quel penoso vivere invernale

E basta non ti sgretoli il Favonio
scagliandosi sull’ala tua dorata
che a tutti porti libera magolia
un po’ di tua allegria e vanità

















È troppo ciò che chiedi

È troppo ciò che chiedi
trent’anni di sogni che scorrono
nel sangue di pene e di promesse
a tuo nome da assegnare
senz’altro contrattare la sera
che un mezzo finto orgasmo
per me e forse manco

















Torna da me per un momento

Torna da me per un momento
ti prego fa’ finta – chessò
per sacrificio per rimorso
– dammi un bacio una promessa
una volta per lo meno
fai finta d’esser me

















Vecchia darsena lunare

Vecchia darsena lunare

Mute sagome di barche
brevemente si salutano

si perdono nel mare

















Le undici

Le undici
Sono rientrato
Le solite riviste sul tavolo
noiose
la mosca sul vetro
finalmente tacitata
e il fiore tuo sfiorito
a cui mi rassomiglio
tentando di resistere

















Ho chiuso gli occhi per un istante

Ho chiuso gli occhi per un istante

Dieci anni passati
e non un fiore spensierato

















Dici che dovremmo chiarirci

Dici che dovremmo chiarirci
parola per parola, punto per punto,
è stupido buttare dieci anni così,
senza spiegarsi. D’altronde la voce
scioglierà questa tensione,
ci farà più accorti, più pacati finalmente.

Fuori nevica.
Guarda, di là della finestra
è un silenzio di rovine.

















Non ricordo come finì in quell’occasione.

Non ricordo come finì in quell’occasione.
Doveva essere settembre, ore diciotto,
fine turno. Si avvicinò alla vetrina illuminata
dal neon, perché fosse più chiara la lama
dei suoi denti: credo che non… ti amo ma…
non è come credi…
Fu un brivido appena.
Mi guardai nella pozza dell’asfalto.
Mi era forse sfuggito l’inizio del discorso
o i sospensivi. Hai il rossetto sbavato
– soggiunsi.

















Il vero diamante è quello nero della notte

Il vero diamante è quello nero della notte,
quando il resto scompare e ci restano le cose,
le statue ormai vuote di noi che non parliamo,
tutto fissato, immobile, dita, labbra, lenzuola,
forse anche una farfalla, rimasta sulla bocca
come una domanda.

















A volte passeggiamo, io e te

A volte passeggiamo, io e te,
per qualche strada, di qualche città.
Non vedo niente io,
troppo angosciato dal tuo viso, troppo legato.
Non vedi niente tu, troppo lontana, leggera:
ti volti, sorridi, cambi passo.
Fermati amore, considera il baratro,
guarda le mie mani, ferite per tenerti.
Sii dolce. Il vento precipita gli aerei.
Abbi cura di te.

















Amare è inoltrarsi, uscire in mare aperto

Amare è inoltrarsi, uscire in mare aperto
senza bussola, senza cognizioni,
attendere a un approdo di là della speranza
a un incontro, di là della ragione.
Il resto è sofferenza. Tutt’al più.

















Nel corpo tuo rimorso, poesie 1986-2002.
Crocetti Editore, Milano 2002

Attendersi di là, poesie 2017

Uscendo di casa
sentii un profumo fortissimo
fruttato, trascinante.
Gelsomino forse,
un corpo nudo,
il fresco del bucato appena fatto.
Chiusi gli occhi,
feci cadere la risma dei fogli
che avevo tra le mani.
Ero lontano ormai,
leggero, distaccato.
Potevo tornare a sognare,
tornare all’amore, ai vent’anni.
A domani.









Dopo l’inverno, l’estate.
Dopo il disamore, l’amore.
È il ciclo delle stagioni
che si rinnova.

Sotto la gronda,
già vedo due rondini
rincorrersi nel vento,
ricamare che è vero
che la vita ritorna.











Mia figlia mi tocca, di notte,
col suo morbido braccio.
Si stende nel letto, si rotola, si allarga,
come se io non ci fossi.
Oppure, come se ci si potesse scambiare
di corpo, di spazio, di sogno.
Attendendo che Orfeo







Eccomi qui, di nuovo,
nella casa dell’infanzia
la sola che ho amato, mi ricordi.
Forse.
Ma qui le cose sono leggere.
Un ragno s’arrampica sopra la tenda,
sapendo di non essere temuto;
la polvere si posa sui mobili
senza destare occupazione.
Qui le cose capitano all’aria,
lente, appena riscaldate dal sole;
qui il tempo può fare il suo corso,
andarsene e tornare,
sbiadire ed ammalare, senza scalpore.
Tu dici solitudine.
Io parlo di altro amore.












Scrivo il tuo nome con una margherita
e il cuore torna ad essere incantato, felice,
scaldato dall’estate dei tuoi occhi.

Scrivo il tuo nome con una farfalla
e il cuore torna ad essere leggero, bambino,
nel cielo variopinto dei capelli.










Qualunque sarà la casa in cui finirò
mi porterò appresso la tua fiducia, il tuo amore,
e sarò al sicuro.

Qualunque sarà la strada che prenderai
ti porterai appresso il mio sguardo, il mio amore,
e non sarai più sola.












L’estate con te è quando nel mare
cadeva una stella,
e tu per magia correvi a riprenderla.

L’estate con te è quando anche il cuore
cadeva sulla spiaggia,
e non si rompeva.









Così piccola e bionda,
così agile e buona,
che sembri una vespa
discesa dal cielo
per pungere e sorridere.

– Come posso afferrarti –
dice il mare?
– Come posso ringraziarti –
dice il cuore?













Con la bacchetta magica
mi scrivi nel cielo
che cosa devo fare
per essere felice.

Con la bacchetta
mi segui anche di sera
per insegnarmi a ridere.









D’improvviso, ti vedo leggera,
felice, bambina. Una vespa.
Il cielo s’è schiarito.
L’infanzia è ritornata,
l’estate, la forza, la calma.
Dovessi ancora perderti,
almeno so che esisti.














La piccola vespa ha imparato a nuotare.
Salta, si tuffa, riemerge.
La mamma e l’amichetta la incitano a buttarsi,
a proseguire.
Adesso sa anche lei che sul buio
si può pure galleggiare.










Non spaventarti – mi dico –
ti sto solo precedendo.
Farai la stessa strada,
quella della caduta, della speranza,
troverai le bricioline che ti ho lasciato,
per dirti del senso,
e se per caso ti sentissi angosciata
sappi che è l’amore, solo questo.









La piccola si dondola sull’altalena.
Ride, promette, si burla della mamma.
Non vuole più smettere.
Si allena a prolungare l’infanzia.








Finita quest’estate, dovremo cambiare.
Troppo lungo è l’inverno,
troppo lunga la distanza
tra un viaggio e l’altro,
tra un mare e l’altro,
tra me e te.
Lasciamo perdere le navi d’altura.
Forse le barche potranno bastare,
per essere felici.










Ti ho lasciata ancora una volta.
Sola, disorientata.
Mi sono detto che così va meglio.
Stai in buone mani,
mia madre e la sua casa
non sono degli estranei,
la città è umana.
E poi, che altro dire,
laggiù in campagna
non c’è riscaldamento,
non puoi più restarci.
Questo è quanto.
Per il resto, io so e tu sai
che ci salutiamo, per sempre,
che a casa non ci torni,
che ti lascio a morire
dove e come n’era scritto che morissi,
e che a volte gli amanti
si lasciano la mano
per trovarsi più avanti.







Il fiume scorre ancora a fondovalle.
Niente di aulico.
Un fiumiciattolo, neve sciolta e fango,
che ancora fluisce sul ciglio della strada
perdendosi sotterra, nel campo del vicino.
Allora, nessuna poesia.
La vera notizia sta nel fatto
che anche noi ci siamo ancora,
qui, alla finestra,
dopo l’ultima tempesta.










Da un po’ di giorni faccio tutto da steso.
Prendo appunti, guardo la tele,
ascolto mia figlia al violoncello.
Mi alleno a guardare un soffitto insomma,
in vista dell’incontro misurato
con lo spazio angusto,
il parlar muto, il fiato lento.











Adesso ti tocco,
piccola tartaruga dagli occhi tristi.
Seguo le rughe sul tuo viso di cuoio.
Son cieco io. Ho bisogno del tuo alfabeto
per sapere quanto coprirmi nella tormenta,
quanto vento respirare,
come stringere una mano per sfuggire alla notte.
C’è piacere a medicare anche una piaga,
accompagnarti fino al fondo della strada.
Sei tu che m’insegni che questo è l’amore.








C’è una strana atmosfera oggi.
Fuori, la neve cade silenziosa e cospicua.
Sembra assicurare una calma normalità
perché ci si possa ritrarre nei vetri
con aria serena.
Dentro, la piccola e sua nonna
si stanno addormentando.
Tutto sembra avverarsi – mi dico -,
due stelle che s’incontrano
svolgendo il loro ciclo,
due capi d’uno spago che riannodo, stupito.
Posso tenere la morte e la vita con la stessa mano.












Grazie per aver aspettato a morire,
per avere tardato.
Il tuo amore mi ha aiutato a diventare grande,
a accettare di perderti senza perdere tutto,
senza perdermi.
Grazie a te son diventato più chiaro,
e forse più saggio.
Guardo la stanza, adesso,
ti vedo in ogni angolo, ma viva, davvero.
Non ti scorderò.
Nessun lutto. Nessun giro di carte.
Mi hai concesso la fortuna di essere l’ultimo
a doversene andare.
Il tuo richiamo si spande per casa,
e l’ultimo sguardo è ancora per te.









Dopo, non si può più dire nulla.
Il tempo è occupato dalla caduta verticale
nei ricordi, nell’immagine che ti assedia,
dalla discesa nella profondità.
Sei tu che stai distesa, a mani giunte
come riflessa nella luce nera del dolore,
serena, ininterrotta, conciliata finalmente.
Ogni tanto mi sento how deep is your love,
e mi dico com’era.












Finisce così, questo libro.

Quello che avevo da dire
non l’ho detto.
Sono stato scostante,
bugiardo, incerto.
Ho fatto sognare?
Ho amato davvero?
La vergine adolescente
cos’ha visto alla finestra,
un estraneo? Un padre?
Forse ho raccolto soltanto
parole d’autunno
cadute da un albero.

Finisce così, questa estate.

Attendersi di là, poesie 2017. La Bussola, Roma 2022


La poetica dell’oggetto in Ghiannis Ritsos

Leggendo “Il guardiano del faro” e “L’ultimo e il primo di Lidice”.

Crepuscolo, una stanza pressocchè spoglia, l’apertura della scala a chiocciola, che conduce alla lanterna. Si tratta di uno di quei vecchi fari con una lampada a petrolio. Il guardiano del faro è un uomo robusto, impacciato e incerto, incline a confidarsi. Vive da solo, completamente solo, non ha moglie, figli, amici, nessuno. A un certo punto, nel suo tempo rallentato – non fermo, non circolare – compare un vecchio conoscente, venuto a fargli visita. Il guardiano comincia a parlare, a parlargli”.
Inizia così, con questa evocazione di un luogo, di un tempo e di un soggetto appena abbozzati, Il guardiano del faro, una delle opere poetiche meno conosciute di Ghiannis Ritsos, così come poco conosciuto è l’altro poema – da cui prenderò spunto in questo breve saggio sulla poetica dell’oggetto in Ritsos -, ovvero L’ultimo e il primo di Lidice.
Si tratta di due gemme preziosissime. L’una, Il guardiano del faro, per spessore poetico e psicoanalitico; l’altra, L’ultimo e il primo di Lidice, per la testimonianza storica e l’attualità che costituisce: una luce portata sui massacri compiuti dai nazisti nella seconda guerra mondiale – contro la piccola città ceca di Lidice, bruciata e rasa al suolo nel 1944, con tutti i suoi uomini, donne e bambini -, analoghi a quelli compiuti dai Russi in Ucraina, oggi, contro la città di Mariupol.
Cominciamo dal primo dei poemetti.

Il Guardiano del faro è un soggetto mitologico – tanto è esemplare nella sua marmorea grecità – ma insieme è un uomo in carne e ossa, vicino a ciascuno di noi per le sue paure e il suo bisogno di contatto; è una figura della psicopatologia, per la sua oscillazione acquorea, per il suo andirivieni dentro e fuori le relazioni umane; ma anche una figura del poetico, per la sua refrattarietà a spiegare o descrivere, per la sua inclinazione a disporre i propri gli oggetti interni così, misteriosamente deformati, sul tavolo dei versi.
È un uomo sensibile, fragile, perduto nella sua solitudine. Sei tu, sono io, è lo stesso Ritsos.
Il faro e il mare, composti, contrapposti, disposti uno di fronte all’altro, uno di sopra all’altro.
Al principio, il faro, con la sua luce che illumina il mare oscuro, evoca la tensione alla consapevolezza, alla presunzione di penetrare il buio proprio e altrui, quasi volendo fissare l’ineffabile del mondo interiore e, così, restituire a unità la frammentazione di sé generata dalle perdite. La luce dell’intelletto, la dimensione protettiva dell’intelligenza, della razionalità, è:
“…una comoda, solida cavità
sferica, scavata nell’inutile frastuono […]
una nuova arca, in cui hai radunato
ricordi, azioni e sogni, per salvarli,
e salvare te stesso assieme a loro”. (Il guardiano del faro).


Il faro e la sua difensiva capacità riflessiva sembrano rassicuranti, perfino necessari:
“Di notte ha sempre inizio la nostra sovranità. Nel buio,
con il silenzio o col frastuono del mare sotto i piedi, ci sentiamo murati dentro il faro, immedesimati con esso…”. (ibid.).


La sua fiamma siamo noi; la nostra attenzione, la nostra dedizione è al servizio degli altri, della salvezza degli altri:
“…Esistono anche qui
un mucchio di impegni, doveri e responsabilità, come si dice. Dobbiamo trasportare il petrolio, pulire la lampada,
pulire la lanterna di vetro del faro, avvolgere
il cavo d’acciaio come se caricassimo un enorme orologio […]
…E bisogna vegliare
perché non si fermi un attimo la rotazione”. (ibid.)


Ma poi, col procedere della poesia e della catabasi in se stessi, comincia a vacillare la certezza della propria funzione, della propria utilità, e allora bisogna mettersi nei panni dell’altro, al posto dei naviganti o dei naufraghi, per rassicurarsi sul proprio ruolo salvifico:
“Molte volte io stesso, per convincermi di esistere, mi trasferisco
dal mio posto immobile al posto assai mutevole
della nave, del viaggiatore, del naufrago,
per guardare alla mia importanza dalla parte opposta, nella notte, quando in un ultimo lampo crollano le nostre scenografie di cartone, e resta la scena vuota con gli elettricisti morti,
sotto le scale in frantumi e le corde spezzate,
quando le navi affondano, e gli uomini guardano adirati
il mare nudo, tentando di aggrapparsi a qualche asse di legno,
perché ovviamente non possono aggrapparsi ai raggi del faro”. (Ibid.)

Presto, il guardiano si accorge che l’immedesimazione al faro che fronteggia il mare e la notte, rischiarandone l’oscurità, è appena un’illusione per credere di esistere, di consistere, di essere desiderati. Allora: “La luce del faro [diventa] una stanchezza inafferrabile, lontana, superflua”; il faro diventa un inutile utensile che “Al massimo illumina il naufragio, mostrando più tremende le fauci delle onde”. La sua funzione riflessiva, la sua altezzosa austerità, al cospetto della “mutevolezza” nostra e del mare, diventa una prigione, la rappresentazione di quell’autosufficienza, di quell’isolamento che tradiscono il bisogno infantile di essere cercati, di quella fermezza o rigidità che è paura delle relazioni, e della tempesta emotiva che esse comportano:
“A volte ci inganniamo da soli; ogni rinuncia
è un nuovo rifugio segreto; e la nostra solitudine volontaria
è un’attesa evidente, una scommessa in cui ti giochi
tutta la vita senza testimoni, e tu sarai l’unico a pagare
col tuo netto rifiuto o con l’umiliazione
di tornare alle cose abbandonate (per provarle forse),
e quelle non hanno chiesto di te, non ti aspettavano né ti ricordavano, non hanno neppure avvertito la tua assenza; così
la prova è rimasta tutta tua, soltanto tua”. (ibid.)


Allora ti sovviene il dubbio o la consapevolezza che essere rimasti fermi alla finestra, a guardare la vita dalla tua poltrona marmorea e pesantissima, sia stata una sconfitta, la sconfitta del calcolo o della misura di fronte al buio pulsare del mare; la sconfitta di Apollo di fronte a Dioniso; del faro di fronte al mare. Di qui l’illuminazione, che talvolta si ottiene spegnendo la luce e restandosene al buio:
“Meglio al posto del naufrago che a quello del guardiano del faro
che, al riparo del pericolo, sorveglia il presunto maestoso spettacolo del temporale, a volte affascinato, a volte addirittura altezzoso
per averlo visto e illuminato. Meglio
al posto di quello che lotta con il corpo dell’acqua”. (ibid.)


Dirai che resta il mare – il buio attrattivo e periglioso dell’amore, dell’altro -; che il mare rimane comunque, al di là della rotazione intermittente della lampada del faro; che permane l’oscurità, dalla quale tutto principia e in cui tutto finisce. Ma questo mare è indefinibile; è “l’altro” dell’inconscio novecentesco che comunque si sottrae alla nostra volontà, al nostro bisogno; è l’amico, la moglie, il padre, il figlio, la cui mancanza genera “fantasticherie” – come le chiama D. Winnicott -, ovvero il racconto favoloso nel quale ti accorgi della tua importanza, e invochi l’altro:

“Altre volte ancora, quando accendevo la lampada,
me ne stavo sul balcone e aspettavo una nave,
non perché vedesse e proseguisse la rotta, una nave
diretta qui; che ormeggiasse qui; e non per evitare
qualche grave pericolo; ma sicuramente diretta qui […]
Immaginavo i passeggeri con le valigie che saltavano su questi scogli; i loro discorsi rivolti direttamente a me, simili a me […]
Aspettavo dunque di distinguere nel fragore del mare
una voce umana, un cenno, qualcosa,
un riconoscimento minimo della nostra solitudine e resistenza”. (ibid.)


E tuttavia, per quanto rassicurante, la propria pienezza genera la mancanza, la ricerca della razionalità genera il mostro dell’emarginazione, dell’insofferenza, del delirio o della vertigine:
“Quando sali la scala a chiocciola interna […]
ti coglie come una vertigine,
hai l’impressione che la scala non finisca, come se salissi
al buio più completo dentro i tuoi stessi visceri, come se ti avvolgessi intorno a te stesso, dentro te stesso,
come se ti attorcessi da solo nell’ignoto
e a poco a poco sfuggissi alla forza di gravità; – una vertigine […] Allora non devi guardare né sopra né sotto,
soltanto dritto davanti a te, all’altezza degli occhi,
e allora gli occhi sono come due ampie ali aperte che ti reggono
in equilibrio immobile, profondo e vacillante, tra la terra e il cielo”. (ibid.)


Un equilibrio raggiunto attraverso l’introspezione, dunque, la discesa nelle proprie viscere; il punto mediano ma vacillante sulla verticale tra terra e cielo, ovvero tra l’abisso onirico della perdita definitiva – del sogno, della poesia – e la sofferta verminosa densità della terra, tra le cui radici tentacolari nasciamo e ritorniamo.
La solitudine genera sempre l’allucinazione. L’allucinazione del desiderio, come la chiama S. Freud, quel bisogno incoercibile di contattare nuovamente il corpo morbido e madido da cui sei nato; ma anche l’allucinazione intesa come onirizzazione della realtà, come passaggio d’infante dalla concretezza vuota e solitaria della realtà all’illusione della presenza dell’oggetto, dell’altro, della cura. Un andirivieni continuo, la risacca del mare contro gli scogli, l’intermittenza esitante dell’uomo intorno a se stesso. Per i greci, il termine “catastrofe” ha il senso, per noi più comune, di disastro, ma anche quello di ritorno all’immobilità di una corda musicale, dopo che essa ha oscillato e vibrato. Pertanto, l’immobilità è catastrofica, è il contrario del movimento. Meglio l’oscillazione, foss’anche violenta, tra diversi vissuti e diverse rappresentazioni di sé; foss’anche intollerabile, angosciosa, defatigante. Un’oscillazione viva e vitale, qui interessante nella misura in cui è anche poetica, ovvero intranea alla versificazione, costitutiva della struttura e della sequenza dei vari “pezzi” di ogni singolo poema di Ritsos.
C’è sempre una successione nei poemi di Ritsos tra la dimensione poetica – buia, misteriosa, fatta di oggetti incomprensibili, deformati, fluttuanti – e la dimensione noetica, fatta di illuminazioni improvvise, che si inscrivono per sempre sul frontone dell’Umanità, proprio per la loro stupefacente complessità.
Ma l’oscillazione, quando è continua, produce deragliamenti, esondazioni da sé, dislocamenti dereistici. Si è parlato spesso di “allucinazione storica”, per definire l’operazione che Ritsos compie – soprattutto nei poemi di Quarta Dimensione, ma non solo – quando restituisce la parola a personaggi mitologici, ripresentificandoli, trasformando un’assenza in presenza, percorrendo a ritroso il sentiero che porta dalla cosa al suo fantasma, dall’oggetto all’allucinazione.
L’allucinazione è la conseguenza, e forse anche il corollario, della pulsione di morte, ovvero della spinta a slegare l’oggetto, a se-pararlo. Pulsione che conduce alla morte fisica o alla follia. In Ritsos l’allucinazione è certamente una figura preponderante e richiamata. Ma se allucinazione vogliamo chiamarla, allora questa dev’essere complessizzata. Qui, infatti, l’allucinazione è il viatico per una nuova, più profonda e poetica ricostruzione di sé. Ritsos non si limita a rilevare come la perdita generi la destrutturazione del pensiero: egli indugia anche – o finalmente – a far comprendere come la scomposizione, la fluidificazione di pensieri e vissuti pietrificati, possa portare a un nuovo inizio, a una nuova e meno difensiva ricomposizione di sé; a un soggetto non reificato ma vivificato, proprio perché correlato all’altro. Certo, la strada per questa costruzione è la perdita. Soltanto colui che ha perso o s’è perso può nascere di nuovo, in modo nuovo. Ma ove questa perdita sia avvenuta, ecco la consolazione dell’unione ritrovata, la soluzione:
“Forse noi due, che abbiamo appreso come non esista alcuna
consolazione a questo mondo, forse, proprio per questo, noi due (anche se ciascuno per conto suo) riusciremo di nuovo a consolare, e forse a essere consolati”. (Il ritorno di Ifigenia).

Dove il lavoro dell’allucinazione si sia potuto svolgere in presenza dell’altro, dove cioè il lavoro dell’allucinazione sia stato una trasformazione che porta l’uomo a raggiungere la propria verità, esso può costituire un nuovo soggetto, legato, proteso all’altro; un soggetto generato dal dono di se stessi:
“Perché allucinazione dunque? Un altro faro più lontano si occuperà tra poco delle navi. La lampada esiste,
noi esistiamo. E siamo noi
che costruiamo la lampada; noi che l’accendiamo
nel cuore della notte. E possiamo dire di essere noi
la fiamma della lampada […] Comunque le navi si orientano con la nostra stella […] Non ci basta sapere che sono arrivate o arriveranno? […]
Esiste sempre dunque il modo di donare qualcosa
E forse di restare anche noi con quello che doniamo. Ogni mattina
Ci sarà un colore adatto al nostro sguardo […]
Ora posso tacere di nuovo e accendere la nostra lampada”. (Il guardiano del faro).


Nella poetica di Ritsos, il monologo non è mai un vaneggiare sul vuoto di se stessi, non è mai il soliloquio del folle di fronte alla luna. C’è sempre un altro, richiamato sin dall’introduzione prosaica in quasi tutti i poemi; c’è sempre un interlocutore muto che permette al personaggio di esprimersi, di raccontare o di associare liberamente. Non è questa, forse, la condizione della nascita e della crescita? Non è questa cornice duale il setting di ogni processo evolutivo? L’altro, la presenza silenziosa dell’altro, è proprio colui grazie al quale il delirio o l’allucinazione vengono compresi, arricchiti, trasformati: vedi per esempio la chiusa di La casa morta:
“Non avevo capito niente. Un senso di terrore magico
si era impadronito di me, come se d’un tratto mi fossi trovato di fronte
tutto il fascino e la decadenza di un’antichissima civiltà.
Ormai era notte […] Alle mie spalle avvertivo la massa oscura di quella casa, come una tomba antica, maestosa.
E, se non altro, avevo imparato almeno quello che devo e dobbiamo evitare”.


In Ritsos non riesci mai a capire se il silenzio dell’interlocutore sia “Sfinimento, saggezza, inconsapevolezza, tolleranza, comprensione, condanna generale, accettazione generale, affetto, affermazione, rifiuto, ostilità, demenza, o un suo sogno particolare” (Sotto l’ombra del monte).

Talvolta l’interlocutore disvela il non dicibile sul personaggio, come nella chiusa prosaica di Elena, nella quale l’assenza di eredi – cui fanno alludere i sigilli apposti alla casa della regina – ci parla della tragica “dépense” della Bellezza. Talaltra, esso coincide con la chiusa stessa, che quindi non è solo didascalia di scena, né soltanto motore dell’azione drammatica, quanto invece ombra dell’oggetto.
Ė così che accade, per esempio, in Ismene, che nella chiusa prosaica dell’opera si rimette nei panni della sorella Antigone, dopo essersene distanziata per tutta l’opera, e in questi panni non vivibili, non suoi, in questa alterazione impossibile decede.
Dunque, ne Il guardiano del faro, e in generale nella poetica di Ritsos, l’allucinazione produce una costruzione di sé proprio perché incardinata in un lavoro terapeutico a due; essa permette di sciogliere i propri nodi inconsci e dare senso all’inaudito.


Eppure, non tutti i poemi di Ritsos passano per il lavoro dell’allucinazione e conducono a una nuova relazione, alla costruzione.
Ne Il guardiano del faro e ne L’ultimo e il primo di Lidice – come anche nella maggior parte dei poemi di Quarta Dimensione – è ancora visibile un soggetto, un Io narrante che parla della propria storia attraverso di sé, attraverso i ricordi, i vissuti, le proprie pulsioni.
In questi poemi, l’occhio della narrazione poetica ci fa ancora vedere un soggetto, una persona (non un personaggio) seduta davanti a una sorta di finestra, che parla a un interlocutore fuori scena. E dove c’è ancora un soggetto che parla in scena, che parla di sé in carne e ossa, c’è ancora uno spazio delimitato, confinato, che rappresenta la sua “pelle psichica”, e c’è ancora un tempo, una temporizzazione degli avvenimenti. Ė questa per esempio la cornice spazio-temporale de Il guardiano del faro.
Al contrario, dove il soggetto è sparito, annichilito dal peso delle proprie sconfitte, delle proprie ferite, della perdita o della mancanza; dove questa dissoluzione del soggetto è avvenuta, o nella misura in cui è avvenuta, compare e prende piede un fenomeno di oggettivazione dei propri fantasmi, dei traumi, delle perdite, un fenomeno di reificazione di sé e dei propri sentimenti, dei propri deliri o allucinazioni. Si sviluppa e si manifesta un fenomeno opposto, che definirei di animazione degli oggetti.
Ė come se quell’uomo davanti alla finestra, quel soggetto che fissa immobile gli oggetti dentro e fuori la propria casa, poco a poco si stancasse di tanta solitudine. Come se quel soggetto, che fino a un certo punto della propria storia riesce a essere presente e ad abitare la scena (la sua stanza), da quel punto in poi non riuscisse più a contenere e “fissare” i propri oggetti, e morisse psichicamente risolvendosi in essi – una pentola, una porta chiusa, una tovaglia di broccato, le ombre che risalgono su un tavolo, una scopa, delle scarpe di cuoio -. A quel punto, gli oggetti rimangono a fluttuare nell’aria, non più contenuti, e anzi alterati, deformati, spesso incomprensibili – gli “oggetti bizzarri” di W. Bion, quelli che pendono dal soffitto nella scena di Atto senza parole di S. Beckett – perché non più compresi nella mente del soggetto.

Nella misura in cui il soggetto scompare, prende piede una sorta di allucinosi: il soggetto si trasforma da protagonista, definito e storicizzato, in oggetto che trasporta nella spazio della relazione narrativa uno sciame di oggetti bizzarri che sono, insieme, la concretizzazione dei propri fantasmi e i frammenti disorganizzati di se stesso. Oggetti sospesi nel tempo e nello spazio, visto che, con la sparizione del soggetto, il personaggio che rimane è “osceno”; ma anche oggetti deformati, alterati o alienati dal lavoro di deformazione psichica conseguente ai traumi subiti e alla solitudine prolungata, all’abbandono.
Via via che sparisce, il soggetto narrante si risolve nei suoi oggetti, e prende piede un fenomeno di reificazione, di oggettivazione di sé. Allora gli oggetti prendono a muoversi, danzano, si vendicano, vengono amati o odiati, custoditi o abbandonati: si animano, insomma.
Il processo di diffusione e oggettivazione di sé va dunque di pari passo col fenomeno dell’animazione degli oggetti. Ė questa l’anima della poetica di Ritsos, il tratto peculiare e unico della sua poesia.
Mai come in Ritsos gli oggetti sono trattati come soggetti, e fatti vivere; mai come nei suoi poemi essi sono stati così a lungo compresi, messi in scena e animati:
“Annoverarli tutti non è dato […] Possiamo campionare. Lo specchio che scompone e ricompone. Il chiodo, ambiguo, perché sostiene, dalla sua microscopica crepa nel muro, ma la ferita dell’intonaco è la prima nota del declino, del tempo che sfarina tutto, della casa che implode, del quadro che sembra tuffarsi nel nulla. Il lenzuolo che vela la poltrona sfondata, il triangolo di un ginocchio amato nel letto dell’eros, ma soprattutto le rigide statue dei giovani morti sui camion, nella guerra civile ellenica che ha avuto Ritsos come attore, pubblico e taccuino critico. Il fazzoletto che orna il grigiore delle vecchie contadine in campagna […] Poesia di cose” (E. Savino, “La poesia delle cose”, Poesia, Crocetti Editore, n. 239, giugno 2009).
Forse questo processo di oggettivazione di sé è necessario, per chi è costretto a rimanere da solo di fronte alla finestra, nella propria stanza, con i propri oggetti domestici. Forse è inevitabile, in una condizione di privazione affettiva, come quella subita dal poeta nell’infanzia, allucinare gli oggetti, farli lievitare col pensiero e riportarli in vita, immedesimarsi con essi e vivere in essi. Fatto sta che nessuno, come Ritsos, ha istituito una vera e propria poetica dell’oggetto:
“Non resta altro, per un bambino privato troppo precocemente della tenerezza materna, che la familiarità degli oggetti […] il ricorso ad essi diverrà uno dei temi più importanti della sua opera. Vi è, nel chiaroscuro di una casa austera, la nascita di una complicità che legherà per sempre un uomo alle cose, queste testimoni del dramma. Lo legherà agli utensili, alle porte, alle finestre, alle tende, ai tavoli, alle statue innominabili di cui saranno pieni i suoi poemi. Poiché le cose sono un’altra maniera di ritrovare l’altro; esse ci rinviano un’immagine dell’uomo più tollerabile, pacifica, un riflesso del suo lavoro, del suo agire, un’eco addolcita delle sue passioni; esse invecchiano, anch’esse, ci accompagnano. Perfino nella loro rassegnazione finale esse ci offrono l’esempio luminoso di una riconciliazione col mondo”. (ibid.)


E L’ultimo e il primo di Lidice è tra i primi esempi poetici, probabilmente, di questo genere.
Com’è noto, il poema rievoca la cittadina ceca di Lidice, annientata dai nazisti nel 1944. Lo sterminio di un’intera popolazione – tutti tranne uno, il soggetto narrante dell’opera, l’ultimo della vecchia Lidice e il primo della nuova ricostruita Lidice – permette al poeta di far parlare gli oggetti, che qui si assumono la responsabilità di testimoniare l’orrore avvenuto.
Lidice comincia proprio con la catastrofe e col dovere di ricordarla, dovere affidato agli utensili di quel borgo di minatori che fu Kladno. In tal modo le cose più umili diventano esse stesse le vittime dello sterminio:
“Vi mostro le cose che si sono salvate per evitare di mostravi quello che non si è salvato […] Era una notte di urla e pietre –
Il sangue colava silenzioso nella gola nera della morte […]
Credo che i campanelli delle case suonassero impazziti
premuti dalle dita dell’incendio; una sedia
si sollevò come un cavallo su due gambe
saltando nel caos dalla finestra; una brocca
si fermò in aria, per un istante si portò le mani alle tempie
e con un grido si fiondò nel nulla…”, (L’ultimo e il primo di Lidice)


E ancora:
“Una grande tovaglia di broccato
si levò dalla Santa Mensa della chiesa,
oscillò sospesa sotto la cupola,
ruppe con un angolo la vetrata della grande finestra e uscì come un grande uccello cavo,
un uccello spiumato, disossato,
splendido nella sua diafana nudità…”. (ibid.)


La distruzione di Lidice costituisce l’antefatto da cui parte il processo di risignificazione e ricostruzione poetica. Il cui processo essenziale è la memoria, il dovere di ricordare:
“Non volevo ricordare. Mi sono tormentato
per uccidere la memoria. Ora mi tormento
per uccidere l’oblio che si stende dolcemente sui giardini, copre la collera, l’odio, il dolore, la paura,
[…] l’oblio copre ancora una volta gli uccisi
non con i tre metri di terra
ma con un pensiero rivolto al domani,
rivolto a un mondo migliore. Non so se l’oblio
sia saggezza o viltà o stanchezza. Voglio ricordare. Voglio accordare il perdono non per via del dolore,
non per via della stanchezza. Voglio ricordare e riflettere, annullare con la riflessione il dolore
non nascondere il dolore con la riflessione”. (ibid.)

Dall’estetica all’etica. Ritsos non è un accademico intellettuale. La sua vicenda esistenziale gli permette di essere credibile come uomo; la sua deportazione a Makrònissos, a Leros; il suo confinamento a Samo, gli permette di essere credibile come testimone, come politico. La poesia di Ritsos è sempre politica, è sempre testimonianza e invito etico.
In Lettera a Joliot-Curie, M.me Curie resiste all’internamento, e la sua vicenda diventa materia poetica:
“Così da isola deserta a isola deserta
Portando da una pena all’altra il nostro fagotto
Portando il nostro cuore nel nostro fagotto
Portando la nostra fede nel cuore
Tante volte senza pane
Tante volte senz’acqua
Con le mani in catene
Senza avere il tempo di far confidenza con un albero o una finestra Con le mani sempre in catene
Dato che siamo uomini tanto semplici
Certe teste dure
Che mai abbiamo smesso d’amare,
come te, libertà e pace”.


In Makronissos leggiamo:
“Ed ebbe inizio la selvaggia, sterminatrice persecuzione contro i combattenti della resistenza. Migliaia dei quali sono stati giustiziati sommariamente per le strade, centinaia di migliaia terrorizzati e maltrattati brutalmente di notte da bande di mascherati, che all’alba si trasformano in illustri rappresentanti della legge. E giorno e notte sono riuniti i tribunali militari, dove basta la deposizione di un ex collaboratore della Gestapo per farti condannare a morte tre volte. E le carceri si riempiono di combattenti e ricompaiono i ghetti hitleriani e si moltiplicano le tombe. Si assassina un popolo a freddo”.


E anche in Grecità:
“…sarà difficile che dimentichiamo le loro mani,
difficile che mani incallite sul grilletto interroghino
una margherita, dicano grazie posate sul ginocchio,
sul libro o sul busto del chiarore stellare. Occorrerà tempo. E dovremo parlare. Finché trovino pane e giustizia”.


In molti suoi poemi Ritsos ricorda e richiama al dovere di ricordare:
“Questi timori ho adesso,
e gioisco di queste mie paure così diverse: – non essere dimenticati. Voglio dire
per un’amicizia positiva, ragionevole, basata
sul ricordo e sull’interesse di tutti. Coltivo questo giardino
della “Pace e dell’Amicizia Mondiale”, come lo chiamiamo” (L’ultimo e il primo di Lidice).


Il lavoro poetico e terapeutico della risignificazione permette di rivivificare gli oggetti morti, e così di riportare in vita gli uomini, le donne, i bambini. Le rose che il protagonista cura sono “petali caduti e rimasti sotto il ghiaccio come gocce di sangue nero, o come gli occhi rossi per l’insonnia”; rappresentano ognuna delle vittime dell’ingiustizia umana che abbia subito delle amputazioni.
Il lavoro del “ricordare e riflettere” ne permette la palingenesi, la trasformazione sotto forma di verità universale, coltivata e fiorita in ogni parte del mondo, per tutti i “sommersi” e dimenticati del mondo:
“Coltivo questo giardino, ricordo e rifletto. Aspetto
che cominci la ricostruzione socialista a Dìstomo,
a Kokkinià, a Kalàvrita; che fiorisca il Roseto mondiale
nel poligono di tiro di Kessarianì, a Hiroshima, a Oradour-sur-Glane
e a Stalingrado. Abbiamo tutti da lavorare
in molte parti del mondo; e dobbiamo ricordare, riflettere e lavorare” (L’ultimo e il primo di Lidice).

Qui, la poesia ritrova la sua altra dimensione – consustanziale all’estetica -, quella etica, che favorisce la libertà di vivere, anzitutto, ma anche di distinguere il bene dal male, la vittima dal carnefice, l’olocausto dal riduzionistico suicidio collettivo di un popolo:
“Distinguere le cose, nominarle, mi fa sentire dolcemente felice, e la felicità mi fa sentire libero,
perché solo chi è libero può distinguere
i colori, i profumi, il silenzio e le forme
del passato, del presente, del futuro […] Solo chi è libero
può determinare la differenza e l’unità, può dare
un nome esatto alle cose, alle azioni, ai sentimenti
e perfino alle idee e alle visioni” (L’ultimo e il primo di Lidice).


Ne L’ultimo e il primo di Lidice, il lavoro della memoria e quello devoluto per il bene degli altri permettono all’uomo reificato dagli avvenimenti storici di rianimarsi, proprio come l’amore del padre Geppetto e della Fata permettono al burattino di legno, Pinocchio, di rianimarsi e tornare ad essere un bambino vero e proprio:
“Allora il mio gatto cammina pian piano per non svegliarmi da questa felicità.
Ma io non dormo. (Tutti i gatti camminano pian piano.) La luna
entra anch’essa pian piano dalla finestra, e quell’uccello d’oro della Lidice perduta, che aveva rotto la vetrata della chiesa e si era perso in una breccia della serenità, entra di nuovo in casa mia, radioso, e si distende da solo sul mio tavolo nudo come una tovaglia di broccato” (L’ultimo e il primo di Lidice).


Non che le cose abbiamo minore dignità degli esseri umani: sono state anch’esse viventi, hanno anch’esse sofferto e bruciato; anche la loro morte partecipa alla responsabilità del futuro, come i defunti. Ma il ritorno all’azione, al momento umano del tempo storico:
“Ė una ristrutturazione silenziosa della giustizia in uno spazio più profondo.
Non è l’imitazione di un antico equilibrio […]
Ė la nostra azione. Un prolungamento, un’unità e una comprensione
– più profonda della comprensione – la felicità del nostro reciproco rispetto”. (ibid.)

In ogni catastrofe sopravvive qualcuno per testimoniare, per insegnare a ristabilire l’unità della storia e della stessa vita. L’ultimo e il primo di Lidice è sopravvissuto, come Ritsos al regime dei Colonnelli.
E in fondo, il suo messaggio è lo stesso de Il guardiano del faro:
“Esiste sempre dunque il modo di donare qualcosa
E forse di restare anche noi con quello che doniamo”.

La grande poesia è tale nella misura in cui richiama l’uomo agli uomini, alla matrice dello spirito, alla natura originaria della esperienza originaria della relazione con l’altro:
“Quello che possiedo
devo lavorarlo ancora per poterlo restituire
a tutta la vita, moltiplicato per tutte le mie morti successive
e per la mia morte ultima, che non avrà più niente
da prendermi, perché ho donato tutto alla vita, e la vita, che ve l’offre,
me lo conserva doppio per spartirlo, e vi conserva, mi conserva”. (L’ultimo e il primo di Lidice).

La dimensione della perdita. Poesie, 2002–2016



Il contadino giù nel cortile ha abbattuto l’albero
di fichi – un albero bellissimo, maestoso,
avrà avuto cent’anni -.

È un tipo pratico lui, risoluto;
indugia sulle rape, così buone, terra terra,
mentre abbatte senz’indugio quell’intreccio di profumi,
di sapori, di freschezza.

L’inquilino del terzo piano s’era lagnato,
gli toglieva la vista sull’arteria commerciale – dice –
dove la gente, a piccoli passi, brulica nel minimarket,
ignara degli slanci, delle altezze, dei ripari.











Vieni a prendermi se puoi,
sono solo, ho bisogno di te.
Vieni a prendermi se puoi.
La cena si fredderà, la mangeremo così;
la gita programmata la faremo più avanti,
quando le stagioni si saranno già aperte.
È il tempo della privazione, questo.
Gli alberi si stanno spogliando per andare a letto.
I fiumi si ritirano nel letto, filiformi ed invisibili.
Io e te ci tocca affondare nella neve,
tracciare una strada per la nuova primavera,
dedicarci alla speranza.













Avevo aperto la porta, sovrappensiero.
Nella stanza pochi oggetti: tavoli, sedie, cose del genere.
Uno in particolare, un paio di occhiali
appartenuti a qualcun altro, privi di una lente.
Gli avevano ricordato qualcosa.
Anni prima, li aveva fotografati per gioco,
accostati a una rosa sul tavolo di una terrazza.
Un particolare gli aveva rivelato tutto il vuoto del mondo.
Una sola lente. Un’enorme mancanza.











Il giardiniere ha notato una lucertola,
piccola piccola,
dimenarsi sulla soglia della cucina.
Ha urlato, per spaventarla.
Poi l’ha schiacciata, senza finirla.

Io ero distante, ho sentito le urla;
sono corso anch’io, d’istinto,
con tutta la poesia, la cultura e l’umanità
che mi ritrovo.
Anch’io sono corso, per finirla.









Soltanto l’uomo profondamente solo può viaggiare
nel treno di notte, senza prender sonno,
passando le ore a guardarsi nello specchio,
andare avanti e indietro nel vagone letto,
sobbalzando ad ogni scambio di rotaie,
e quando è l’alba scivolare in silenzio dal finestrino,
inghiottito fra cielo e mare












Ho incontrato un uomo per strada.
Era una di quelle giornate in cui la terra ti impaurisce,
nuvole nere, un vento basso, freddo, che spezza i virgulti.
Era solo, ero solo anch’io.
Cosa abbiamo appreso oggi – gli ho chiesto -?
E cosa abbiamo disperso invece?
Mi sembra di essere rimasto solo – ha biascicato -.
Gli uomini, in masse, hanno lasciato i villaggi, tralasciando i mali.
Sono andati altrove, per costruire una Babele
e finirla con la follia.
Qui c’è rimasta soltanto l’ombra, che è ricordo, poesia, malinconia,
la dimensione di una perdita totale.
Io sono rimasto a completare l’opera, affinché non rimangano tracce.
Ho seppellito mia moglie, bruciato la casa; ho tagliato anche le piante,
tutte, per non avere rimpianti.
Ho lasciato in piedi il vecchio ulivo, per impiccarci i cani.













Certe sere passano a correggere poesie già scritte,
così, tanto per restare fedeli al mestiere. Succede,
quando non hai nulla da dire ma non sai rinunciare a dire.
Certe vite passano a riparare gli errori commessi,
le perdite subite o inflitte,
giusto per mestiere, senza un orizzonte, senza desiderio,
senza apprendere niente.
Si va avanti per abitudine, senza il coraggio di smettere.









Come da un grandangolo.
Un ragazzo africano è in primo piano, a sinistra.
Magro, malandato, cammina su una bici innocente, quasi fermo.
Più in lontananza, verso il centro dello sguardo,
uno spazio che si perde all’infinito,
un campo di grano deserto, desolato,
un borgo silenzioso, cadente, disabitato.
Il vento smuove le cose, solleva polvere,
fa sbattere imposte, ma tutto in silenzio, in silenzio.
Stavo passando di lì in macchina, coi miei pensieri.
L’ho sorpassato da destra, lentamente.
Come filmando un ciclista,
la sua fatica, il respiro stanco, la sua faccia scioccata.
Dal finestrino, andando veloce, ho guardato prima di lui,
e ho avuto paura.
Ho visto lo spazio perdersi a vista d’occhio,
la sua solitudine tragica, assoluta,
l’abbandono della casa per andare verso il nulla.
Ho avuto paura, tanta paura.
– È tutto da percorrere, e lui non lo sa ancora -.








Adesso dormi.
Domani faremo il resto.
Ci sarà tempo per sistemare le carte,
dividere le pentole,
decidere dei figli.
Troveremo la strada per finire.
Le senti le carezze?
Sono andato già avanti.
A domani.












La bella estate è finita.
Come finisce uno sguardo, un sorriso, un bacio
prima dell’addio;
come si spegne il televisore sul mondo in festa,
come si chiude una finestra, silenziosa, dietro le spalle.
La bella estate dei ritorni dal mare,
degli amori vecchi e nuovi, dei ricordi inventati.

Se mai un giorno ritorneremo vivi
dovremo cercarle le parole,
per raccontare cos’è stata questa felicità e questa perdita,
dopo la quale non sei più com’eri,
in piedi nel primo mattino del nuovo inverno.










L’autunno comincia quando dormi da un’altra parte.
Dici che hai i dolori, e ce li hai,
che nel sonno t’inseguono i fantasmi, che lei russa,
oppure che la bimba si mette di traverso.
L’autunno dell’amore, intendo, quando ti separi dal branco,
presentendo che sei vecchio, sei diverso, sei di troppo.
Loro – madre e figli – sono giovani e concordi,
si ritrovano su tutto.
Sei tu l’eccezione, la variabile indesiderata,
l’insoddisfazione da espungere.










Dal buio è emersa quest’alba fredda, immobile,
questo grigio che si stende sul mondo come una tela trasparente.
Ci su muove cauti, privi dell’orientamento del sole o delle nuvole.
Quest’oggi si tratterà di sopravvivere – penso -;
ciò che doveva morire è morto,
ciò che la vita ci ha dato l’ho raccolto ormai.
È tempo di attesa, questo.
Non abbiamo altro da fare, nessuno da invocare;
restiamo piegati sul pozzo.
Il nostro viso ci spaventa, immobile, freddo, ci paralizza.
L’abbiamo guardato, purtroppo.
È tempo di desolazione, questo.










Sentimmo bussare alla porta.
Non aspettavamo più nessuno,
nessuno ci aspettava più, da anni.
Ci guardammo, chiedendoci chi di noi
avrebbe dovuto rischiare la vita, e aprire la porta.
Toccò all’ospite il compito ingrato.
Il vento sembrava cieco, disorientato, infreddolito.
Nonostante l’arcana paura,
nonostante il nostro terrore umano,
il vento ci chiedeva riposo, si mostrava nudo,
ci implorava il perdono.
L’ospite, lo straniero,
gli aveva offerto una vela da gonfiare.
L’aveva invitato ed accolto.













Quando uscimmo all’aperto, gli altri se n’erano andati.
Avevamo tutti la sensazione di qualcosa di sospeso,
o forse d’incompleto.
Era il tempo, il tempo passato, ridotto ad osso, a vestigia.
La compagnia di giro era transitata anni prima,
lasciando sulla battigia qualche maschera di cartone.
Qualcuno ne raccolse un pezzo, se lo mise in volto,
cominciò a ballare mimando Dioniso,
a recitare la parte di se stesso prima della catastrofe.
Doveva essere bello.
Qualcun altro si avvicinò alla vite, lentamente,
mimando il gesto della vendemmia.
Improvvisamente la mano gli si staccò.
Un guanto di cartapesta, posato sui tralci
forse per spaventare i passeri.
Non aveva guadato con attenzione.
Tutto il suo braccio, tutto il suo corpo,
forse anche il sorriso, era stato maschera, un tempo.











Si incamminarono al mattino presto, prestissimo.
La notte era fonda.
La baia da traversare estesa, pericolosa, profonda.
Il mare li sommergeva quasi.
Non c’erano guide, né rotte sicure.
Nessuno ci aveva ancora provato.
Camminavano lenti, ciascuno con le proprie angosce,
col proprio minuscolo uomo da trasbordare.
Camminavano in silenzio, ciascuno da solo con se stesso.
Avevano cercato tutto, tranne la felicità.
Avevano trovato tutto, tranne l’amore.









Nel giardino che coltivo da anni,
il conto tra la vita e la morte è ampiamente dispari.
Per ogni pianta che resiste, due ne sono morte.
Il freddo, il vento della neve, i parassiti e la caducità
hanno strappato moltissime piante.
Ho dovuto raccogliere il corpo dei fiori che avevo più amato,
uno dopo l’altro, e seppellirli, coprirli di terra, proprio loro,
i fiori, che per terra hanno le gambe,
che per terra si nascondono a metà, la metà dimenticata,
quella che non profuma, ch’è difficile da amare.
Nonostante mi sia chinato sull’erba per molto tempo,
il diario di un giardiniere è il racconto di una perdita,
di un vuoto non colmato,
di un conto pareggiato solamente in primavera.













Camminavano per le strade silenziose della sera.
Neve, neve, neve. Dovunque un bel tepore natalizio
una bianca coperta distesa sulle case, per consolare.
Guardavano le finestre illuminate per la festa,
lì nel borgo medievale;
dentro, persone serene, indaffarate le une con le altre.
Non c’era tristezza nei loro occhi, ma disincanto, perdizione.
Non sapevano dove andare,
non sapevano che senso dare alla loro ammirazione
per quelle vite viste così, dalle finestre,
riscaldate, rassicurate, lente.
Non sapevano più nulla da molto tempo ormai.
Erano rimasti gli ultimi a sognare qualcos’altro.










Così si compie l’inverno,
come una luce spegnendo sul buio della notte,
come un sipario sul tuo e nostro amore,
sulle cose, le illusioni che di solito sogniamo
di fronte alle angosce.
L’inverno del cuore,
un suono che si perde dentro una litania,
una poesia da cui il senso fugge via,
il punto in cui silenzio prelude alla morte.
L’inverno del tempo
quand’è tempo di campare giorno dopo giorno,
scrivendo del presagio o del tramonto,
volendo esorcizzare.










Resta a casa, riposati,
concediti di attendermi senza più ansia.
Arriverà il tempo in cui la paura sarà scomparsa,
la paura di restare da sola, di perdersi per strada,
la rabbia d’aver steso la mano per un po’ di vicinanza.
Arriverà quel tempo,
arriverò io stesso a rincuorarti, a riprenderti e giocare,
a dirti che ti amo, che l’infinità è nostra,
che siamo lontani persino dal presagio della morte,
e che se mancano i presagi allora siamo salvi.










L’uomo che si incammini dentro se stesso,
o che sia condannato a farlo, deve sapere che dentro di sé
c’è un mondo di persone amate odiate con cui ci mascheriamo,
ci fondiamo, ci perdiamo;
dev’essere conscio che quel cammino è costellato di morti
che fanno male, di ceneri che sembrano neve;
che passeggiandoci si sentirà più solo – non meno solo -;
si pentirà d’aver cominciato.
Sappia, lo sfortunato, che non c’è gloria in tutto questo,
c’è poco merito, nessun ringraziamento,
e che si vive più soli, si muore più soli.












Dopo tanti anni di reciproco silenzio
lei gli dice che avrebbero dovuto cambiare strada,
prendere e partire verso un mondo lontano,
di modo che si possa riprendere una vita più vicina.
Lei intende che così com’è diventata la loro storia
sembra un film muto,
e forse pure quello ha paura che finisca.
Di qui la svolta, la remissione dell’ignavia e il nuovo inizio.
Non importa se è tardi, se tutto ciò che li animava s’è spento,
se la morte nell’anima di lei e di lui
– così ricercata per scongiurare l’infedeltà –
è ormai visibile dai visi, tirati e conformi, come sarcofaghi.
Dopotutto, cambieranno i calendari sul muro
per aggiornare il tempo,
i mobili di casa per aggiornare lo spazio,
e il tipo di materassi per aggiornare l’amore.












Ogni giorno che tolgo al nostro tempo,
mia stella adorata,
ogni ora sottratta a restare con te,
è un cielo buio nel quale ricado, una tristezza.
E non c’è niente, proprio niente che possa fermarmi.
Scivolo inerte tra la gente che svanisce.
Un armonio, poche note che si volgono alla fine.
C’è solo da rimpiangere d’averti lasciata,
c’è solo da rimpiangere la vita scambiata
per le cose più futili, e tornare da te, amore mio,
e non farlo mai più.










Ho percorso di notte i tornanti di montagna
che conducono a casa.
Volevo godermi le poche ore di serenità prima del sonno,
dopo una giornata di lavoro.
La neve cadeva copiosa contro il vetro della macchina,
stancamente, silenziosa.
Mi sono fermato, ho considerato la sua traiettoria
obliqua, rallentata.
Ho provato amarezza e disincanto
per tutte quelle vite così fragili ed effimere
da essere visibili soltanto nell’ultimo metro
prima dell’asfalto.










Aspettami sottovento.
Sarà più facile passeggiare, o almeno camminare insieme.
Lo so, non l’abbiamo mai fatto noi due,
abbiam sempre faticato contro l’opinione comune,
e spesso, molto spesso, abbiamo perso.
Per cui adesso è come camuffarci,
come inventarci daccapo, così, senza ombrello,
senza impermeabile,
tenendoci per mano tra i giardini a Notre Dame.



La dimensione della perdita, poesie 2002-2016.
Crocetti Editore, Milano 2016

Disamore. Poesie, 2016–2017

Talvolta, nel bel mezzo di una festa,
di un giorno qualunque,
mi coglie la sorpresa di un brivido,
la sensazione di aver concluso nulla.
Mi prende un impulso, oscuro.
Vorrei scappare, sparare, sparire.
E così accade.

Il suono squarcia l’illusione.
Riporta le cose così com’erano,
al grado zero di ogni mattino,
quando mi sveglio, mi stendo,
e con la mano l’avverto che il letto è vuoto,
che tu, l’amore, poesia, la vita.
Tutto finito, consumato.
Risolto.








A luci spente, dopo la fine,
ti dico che ho vissuto da solo, proprio da solo;
che tu non ci sei stata, nei momenti più bui,
quando avevo più bisogno di una stretta,
quando proprio m’assaliva la paura.
Paura di fiatare, di cedere alla follia,
trovarmi lì da solo con tutti i miei fantasmi
che mi guardano allo specchio – ecco.

Se questo è disamore lo capisco.
Non capisco l’amore forse,
non capisco la nostra vicinanza quando tutto fila liscio,
quando tutti stanno bene.
Capisco la solitudine, invece;
sento il battito, il brivido,
a luci spente, dopo la morte.
Ed è lì che t’aspetto.
Solo questo volevo dirti – ecco.








E così finalmente il cielo si è posato
sugli occhi tuoi chiusi da troppo tempo,
dal disincanto.
Possiamo ricominciare adesso.
L’amore ritrovato ce lo consente, di andare insieme,
di sussurrare al tramonto che belli i tuoi anni
così pochi così tanti, e che bello il tuo viso,
così ancora disteso, assolato, bambino.
Dai vieni, ridiamoci la mano,
prepariamoci di nuovo a quel vecchio viaggio,
a un appuntamento stavolta ben più profondo,
ben più lontano.








Improvvisa, una luce mattinale apre una porta.
Nuovi pretendenti si parano davanti,
in modo da costringerlo a deviare ancora
dal suo viaggio verso casa.
Questa volta si tratta di inezie – diciamo così –
una promozione al lavoro, l’eccitazione per qualche soldo,
una fase di armonia coniugale ritrovata. Che dire.
Almen o così quell’angoscia dei mattini l’ha scampata,
quella premonizione di una fine normale e di una vita normale.
Perché è così che ci si arma di fronte ai creditori,
facendo altri debiti, rimandando i conti.








Nulla di durevole puoi scriver tra di noi.
Lo vedi anche tu.
Il mare cancella ogni volta la pagina.
Gli occhi ti si chiudono ancor prima di guardarmi.
Nulla che rimanga si può scrivere adesso.
A meno di non allontanarsi dalla sabbia
e inoltrarsi verso l’interno.









Improvvisa, una luce mattinale apre una porta.
Non ci incontreremo mai – le disse –
troppo lontana dal dolore,
troppo vicina alla maschera,
quella che io metto per incantare te.
È come nella favola di Biancaneve
con lo specchio delle brame
– ti guardi mi guardi,
ti odi mi odi -,
ma se è questo che vuoi.








Sono rimasto con la mano tra i capelli di mia figlia.
Non riusciva a addormentarsi.
Forse il lupo della favola l’aveva spaventata
o interrogata sulla profondità del bosco, del sonno.
E poi forse chissà, tutti i nostri fantasmi,
così vicini, così lontani…
Sono rimasto con lei, disteso sul cuscino,
dicendoci che i lupi, pure i lupi si trasformano,
diventano mansueti cappuccetti di peluche.
Allora un angelo è passato su di noi – ha detto amen –
Fissandoci in quell’attimo ad amarci per la vita.








Come tutti, io potrei ammazzare.
Ammazzare in modo premeditato o casuale,
una bestia, un cucciolino, un uomo indifeso.
Come tutti, mi rifiuto di pensare che posso ammazzare,
che riesco a ammazzare.
Come tutti, reagisco con violenza a chi mi addita come un mostro,
dico che mi conosco, non l’ho mai fatto, nemmeno ci penso.
Ecco. È questo il punto, certo.
Non pensarci mai,
non avere mai varcato la soglia della caverna,
dicendosi sicuri di non esser Polifemo.








È il momento giusto – mi dico – per scrivere poesie.
Il giorno è andato male.
Il cielo è grigio, minaccioso, domenicale.
Nostra figlia ha tentato di tutto per amputarsi,
cercando di riunirci, asserenarci. Poverina.
Noi due siamo distanti, fermi, divaricati
come le lame dell’orologio.
Di sera, prima di separarci,
ci diamo la buona notte, nemmeno mentendo,
piuttosto preparandoci ad altra vita,
sicuri che l’abbiamo trascinata troppo avanti
questa commedia.









Com’è facile perdere tutto.
Uno si illude che l’amore sia eterno.
Mette su moglie, figli, case.
Dimentica d’un tratto la propria dipendenza.
Poi magari la moglie se ne va,
il figlio semplicemente cresce.
Qualcosa ti riporta alla paura di morire,
ti priva di tutto, ti atterrisce.
Così, senza più metafore.







L’amore vero è intermittente, è ondivago.
Dare braccia vigorose ai remi non è cosa da poco,
non è sforzo che puoi fare di continuo,
tutto il giorno, tutto il tempo.
Remare contro il mare, contro la rotta,
e spesso contro vento.









Immagina.
Sono stato per venti anni in una cella,
una cella molto stretta. Sembrava di impazzire.
Ero sempre in compagnia di qualcun altro
– molte voci, molte ombre, molte ossessioni -.
E molti corpi.
Non riuscivo a star da solo con me stesso, mai.

Poi sono cambiato. Ho incontrato te.
E immagina.
Mi son trovato in una steppa, deserta,
senza nessuno, nessuna.
Mai un eco, una carezza, un vissuto condiviso.
Non ho fatto che restare tutto il tempo con me stesso,
da solo con me stesso. Ecco.
Com’è stato insieme a te.









La vita felice, è quando usciamo insieme per strada,
d’estaste, tra la gente chiassosa che danza o canta,
quando ci fermiamo sotto il portone
ad aggiustarci il vestito dopo l’amore.
Col volto disteso, la mano nella mano, l’umore contento.
O almeno quando ci penso.









Chiudi la lampada, mi dico, vattene a letto.
Cerca di raggiungere tua moglie, tua figlia, quelli normali.
È già passata la mezzanotte.
Cosa vuoi che aggiungano due chiacchiere, ancora,
a una vita sbagliata fin dall’inizio, e mai vissuta.









Quando sono entrato in galleria
avevo gli occhi gonfi di lacrime.
Forse è sempre così, prima di morire,
quando è chiaro che è tutto finito.
Tutto il fragore della vita,
tutta la corsa fatta per raggiungerti ed amarti,
la corsa per cambiarmi.

Ho chiuso gli occhi per non sentire più
l’angoscia e la delusione.
Ho tolto le mani dal volante
per sognare un’altra vita.








Andando tra i banchi dell’istituto Colosimo,
a Napoli, incontri bimbi ciechi, muti, sordi,
con la loro accettata tragica serenità.
Soprattutto trovi i loro disegni, dipinti nel buio,
a tratti larghi e neri.
Grandi facce sconfinate, dalle orbite giganti
come se avessero paura di non guardare abbastanza,
o come per sconfiggere il buio eterno e folle
dentro di loro, e intorno.
Ritraggono gli altri – dice l’istruttore –
così come li sentono attraverso le mani, le strette,
le carezze. Non tanto se stessi.
E colgono la verità.










Nel posto in cui sprofondi
non posso più raggiungerti.
Ci provo, ci riprovo.
Quanto dolore, quanta disperazione.
Le mani si stanno spaccando.
Continuo a picchiare sul portone
ma è inutile, non è nessuno.
Vorrei portarti indietro, nel giorno più bello
in cui qualcuno, almeno uno, ti ha cercata e sorriso,
non ci riesco.

Dicono che questa è l’anticamera,
che dove sei andata c’è la morte.
Là in fondo non posso raggiungerti,
nel corpo, non posso raggiungerti.
Ma sono là vicino, così tanto vicino
che ti abbraccio, ti stringo.
Con l’anima, amore, ci sono.
Ci sono.










Voglio starti vicino
fino all’ultimo respiro,
fino all’ultimo sguardo,
fino all’ultimo sorriso,

così che quando sarò solo
nel mondo, senza te,
avrò preso il tuo fiato
per andare lontano,
avrò messo i tuoi occhi
per andare nel buio,
avrò addosso il tuo sorriso
per attendersi di là.






Stiamo insieme sul divano.
Nel silenzio della stanza.
Chissà a cosa pensi, seppure mi pensi.
Chissà dove siamo, se ancora ci amiamo.
Sembriamo entrambi persi.

Un filo di vapore traversa la penombra.
Lo seguiamo con gli occhi, lentamente.
Vediamo dove ci porta.









Oggi la tempesta è passata.
Qualunque insulto o maledizione
ci siamo lanciati oggi è schiarita.

Finalmente ho capito
che quando mi arrabbio con te
è perché non ti capisco.

Dietro le nuvole confuse della demenza
non trovo più la mia stella.
con cui dialogare.

Finalmente ho capito
che quando mi arrabbio
è perché ti ho perso,
e sono disperato.







Mia figlia fa le bolle di sapone.
La inquadro di lato,
con il cielo sullo sfondo.
Fa le bolle e sorride,
sembra felice.
Fa le bolle e d’incanto
tutto vola lontano,
gli alberi, le macchine,
gli amanti nei dehors.
Ne afferro anch’io qualcuna.
Mi sto innamorando.








La rosa nel giardino è invecchiata.
Anni fa, quando l’abbiamo piantata,
sembrava così insolente.
Una forza incontenibile e ottusa
la spingeva ad alzarsi da terra,
a fiorire nella neve, a ferire.
Adesso, è così affranta, così debole.
Ogni soffio di vento la atterrisce,
ogni raggio di sole la fa schiudere,
ogni piccolo pioggia la trafigge.
E talvolta viene oglia di estirparla,
per non farla più soffrire.





Ho contato i passi della camera da letto.
È stupido – se vuoi – incomprensibile.
In fondo ci viviamo da vent’anni.
Non so perché l’ho fatto.
Disagio forse, malinconia, premonizione.
Non mi ero mai accorto di quanto fosse vasta
la nostra stanza fino a quando ho allungato la mano
per fare pace
e non ti ho più trovata.









Se abiti ai piedi di una montagna
prima o poi ti verrà di scalarla
per vedere cosa c’è al di là.
È umano.
Protendersi in avanti,
nel cielo, nel futuro.

Dopo gli anni però, ti ci abituerai,
riterrai normale vivere al suo riparo.
Anche questo è umano.
Accettare di convivere col rischio,
con l’ombra, la solitudine.









Immaginare come sarebbe la vita
se solo sapessimo volare;
domandarci le cose senza ferirci,
passeggiare senza fuggirci,
stendere le mani per sollevarci.

Quando proprio non c’è altro,
immaginare è già abbastanza.









Oggi maggio finisce.
Il mese più atteso,
quello che t’aspetti da più tempo
pensando che certo la primavera,
il prato fiorito, le lunghe giornate.
Poi capisci che anche stavolta
l’occasione è sprecata,
è un anno uguale all’altro
amore, delusione, disamore.
Solo qualche raggio di sole
timidissimo, fugace,
per dirti tanti auguri
e buon compleanno.

Disamore, poesie 2016-2017. La Vita Felice, Milano 2021

Rosso. Interludio, 2018-2019

Sono un volatore.
Trasmigro tra le nuvole nere dell’oblò
quando il mondo dorme.
Son costretto a volare, certo.
Presto o tardi, l’inverno ricade sul nido,
e allora bisogna tornare indietro,
trovare un comignolo.
Dire che il viaggio è stato duro non è corretto.
Ma che ad ogni stagione si perdano
voci e baci e incontri, questo sì che è vero,
e non è poco, l’incerto.












Stavo per scriver “rosso fine”.
Come titolo pareva efficace.
Rosso è quel sangue rappreso
che asciuga nelle vene.
Dopo la guerra, dopo le ferite.
Rosso va bene allora. Non lo vedi.
Secoli interi di solitudine nascosta dai vetri,
venti di aquile che sferzano il cielo
e ancora siamo qui a litigare,
però della fine – dici – non voglio parlare.








Ti amo come può amarti un vecchio,
in quel modo patetico dei vecchi,
con quei baci gaglioffi dei quali
non resterà nulla.
Una mezza storia insomma,
eppure con l’imbarazzo che uno lo veda
come siamo diventati…
Un relitto profondo,
tra due mari profondi e distanti.










Chiuso lo sportello della macchina.
Via, lento verso casa.
Estate. Cicale. Condensa nell’aria.
Stanchezza, perfino di pensare.
Non sono più adatto a questo mondo.
Troppo diverso, troppo lontano.
L’aria mi chiude i polmoni.
Sono arrivato.








Siamo troppo feriti.
Siamo schegge di ruggine.
Ci siam sputati addosso
tutto quello che pensiamo.
E dopo, tutto è stato chiaro.

La distanza ha dissipato la storia
il piacere, il passato.
La rabbia ha bruciato l’amore.
Un silenzio pauroso, lontanissimo,
è rimasto.









Di me dice che sono un violento bamboccio
suburbano, che ho bisogno di includere.
L’ho preso da mio padre.
Di te dice che sei un’ingrata bamboccia
provinciale, capace di escludere.
L’hai preso da tua madre.
Ce l’ha detto il genetista,
studiando le carte.










Ho sempre sognato di stare insieme,
di vivere insieme.
Forse per non farmi spaventare dalle onde
del vuoto che improvvise mi assalgono.
E non solo noi due, ma tutti insieme
– noi, loro, miei, tuoi, madri, padri, amici, nemici -.
Un insieme che termina col mondo intero,
se solo ci penso, o col tuo disgusto,
quando torno a casa e fa buio presto.












Passo le sere a chiacchierare.
Tavolo amici vino.
La felicità si riduce a questo, in fondo.
Le parole scorrono oziose e esagerate.
D’altro canto, tu non hai niente da contare.









Non so cos’abbiano i tuoi occhi.
Odio, costanza, pentimento,
inganno, seduzione, malinconia.
Ma tutti i giorni ci penso,
Mi dico che prima di finire
voglio sparirci dentro.
Fame d’aria, dolore, nostalgia.












Eccolo il buio dalle persiane.
S’infiltra nella stanza,
prende il posto di quel poco che rimane
di un amore.
E tu non dici niente, perché è chiaro
che siam fatti a stare insieme,
adesso, dopo vent’anni, dopo una figlia.
Ma questo è il nostro modo di strafare,
parole che conseguono a parole.
Non c’è successo nulla veramente.
È questo il male.









È appena un lampo questo sorriso?
Questo brivido che mi hai lasciato
sotto il tetto, così, salutandomi?
Perché io invece mi riparo da un temporale,
mi preparo per l’amore e per il male.











Mi ero preparato
le dita per toccarti
gli occhi per guardarti.
la bocca per baciarti.

Ma questi fiori della notte
non vedranno il mattino.
Vattene. Fa’ presto.









Che c’è?
Non è niente.
Le parole si possono dire, si devono.
Un bacio è solo un bacio.
Dopo, ognuno rimane se stesso.
Più ricco, meno violento.











Cado. Mi illudo. Cado.
È questa l’altalena della vita.
In questa solitudine continua
mi giro, e non trovo il tuo sguardo.









Se vuoi trovarmi, cercami dove non sono,
dove non dovrei stare, non dovrei dire,
non dovrei fare.
Probabilmente è lì che mi trovo,
con tutta la verità che nascondo.










Ma tu quest’amore l’hai buttato,
giù, con leggerezza,
come si butta un fazzoletto dal balcone,
sudato, dopo pranzo.
Uno dopo l’altro, uno fra i tanti.
Appena usato.









Quando hai un buco libero da impegni,
tra un amante e l’altro, una fuga e l’altra,
scrivimi, chiamami, ricordati di me.
Sono il tuo desiderio inesausto, il tuo bene.
Sono il filo che traversa le perle, e le tiene.











La prima volta che ho capito
di amarti davvero
è quando ti stavo tradendo
eppure a te pensavo.








Dì parole chiare, lapidarie.
Ti amo. Non ti amo.
Questo o quello.
Non tremare.










Fece la pace la guerra l’errore
l’unità la divisione. Fece l’autunno.
Ma il giorno dopo sulle mani
aveva ancora quel profumo
che l’amore avea lasciato.









Provo a capire come sarà la vita
quando sarai cresciuta,
quando il sorriso che mi consola
sarà lontano, quando il senso e lo spazio
senza la tua musica sarà vago.
Provo a capire come sarà la vita
quando si è liberi di andarsene via,
trascinati dal tempo e dal mare
come una conchiglia.











Se ci fossero ancora le solitudini
vorrei costruirci un faro,
e restarmene nudo e silenzioso assieme a te,
a guardare le navi che di notte si perdono,
o che pagano il prezzo mortale
del più folle desiderio.









Oppure è un interludio tutto questo,
sì, ci voglio credere.
Appena mi guardi dimentico tutto,
appena mi tocchi, mi chiami, sorridi.
Sei la rosa bagnata in cui torno,
e io sono il drogato di sempre.

Rosso. Interludio. Poesie, 2018-2019
Raffaelli Editore, Rimini 2022

Prepararsi alla fine. Poesie 2022

Qui il viaggio finisce,
perché ogni viaggio finisce,
e occorre prepararsi.
Lasciare la piazza del borgo
in cui si è stati felici, aperta sul mare
graffiata dalle voci degli amanti.
Andare verso la scogliera
dove il mare si chiude tra due ali di roccia.
Lì lo sguardo diventa piccolo,
il tempo sembra fermo
e grande è il silenzio.
Perché il viaggio finisce,
e occorre prepararsi
alla fine.





Stasera mi tieni la mano,
mi carezzi come una bimba,
forse avvertendo la fine vicina.
Il locale è superbo,
l’estate, la cena, gli amici di sempre.
Io sono lontana, angosciata.
Cammino sopra un ponte tibetano,
mentre parlo sorrido rimpiango.
La mia storia è minima.
Non so dove vada, verso il buio forse.
A trovare Orfeo, sperando che lui almeno
si accorga di me.





Com’è bello quel bacio,
ieri, a teatro. Dolce, inaspettato.
Hai indugiato sulla mano come una farfalla.
“Guarda che ti amo” – m’hai detto -.
E i miei occhi si son chiusi nuovamente,
per sognare.
Sognare che un giorno troviamo l’amore io e te,
nel cielo dei giorni che adesso ci invitano,
e che il buio non ricopra i girasoli
che attendono la luce.





Non ti vesti più per me, si vede.
Una volta ti svegliavi appassionata
e le gonne più belle, le stelle
rivestivano il tuo corpo.
Adesso sei sbadata.
L’amore è passato, quel fragile papavero
che poco perdura è soffocato
dal grano, dai fagioli, da cicorie.
Così arriva la fine, senza ragione,
nel ciclo naturale di ciò che nasce, vive
e muore.




Le sedie vecchissime di vimini,
lasciate in campagna,
un asse anni ’50 coperto da una cera,
rossa e bianca.
Il vino, le fave, il pecorino.
Le voci degli amici e le cicale,
le lampade gialle, i fichi, le zanzare.
E tutta l’abbrezza di amarci ancora
dopo un secolo,
l’ebbrezza di trovarci a raccontare
che la fine vissuta insieme
non è il finale.




L’ultimo paesaggio che avrò negli occhi
sarà quel giorno in cui mi hai fatto entrare
dentro di te, nella camera sul mare.
Tu eri l’incarnata libertà che avevo sognato,
e io, chi ero? Mia figlia, mia moglie,
gli amici i fratelli le madri e i padri,
tutti quelli con cui io stavo in pace.
Ti ho chiesto se c’era un posto
in cui trovare senso, in cui sentirsi amare.
Hai chiuso gli occhi, m’hai fatto entrare.




Scrivendo sul muro
ho provato la durezza dei mattoni, le asperità,
le schegge di vetro che tagliano le mani.
Volevo scrivere il tuo nome,
come si fa a diciott’anni per non dimenticare.
Poi le cose son cambiate.
Era troppo difficile impegnarsi nell’amore.
Son rimasto a guardare contro il muro
la bellezza delle lucciole.




Mia madre è lì, sul divano,
la vecchia.
Guarda dai vetri il suo nulla
e chissà se ricorda,
se ancora ci crede all’amore,
alla gioia dei figli,
se ancora ci spera.
Tu entri distratta, la superi in fretta,
come la vita d’altronde, come il tempo,
non saluti, non la vedi.
Così fa la morte – mi dico –
ignara e sleale.
Non guarda, non ride, non abbraccia.
Prende, non ringrazia.




Non lo vedi che quel lume è troppo debole,
lì, sull’angolo del tavolo addossato alla finestra,
al cielo che scurisce o che fa festa? Spegnilo,
seguiamo l’orario dei vecchi che cenano presto,
di modo che si abbia un po’ di tempo
per credere negli angeli e metterci a letto.




Estraneo, lo sono sempre stato.
A partire dai compagni di classe
con cui mi strapazzavo, studiavo o cazzeggiavo.
Mancava qualcosa per esserne parte,
un animo illeso, una gioia ereditata.
Eppure, qualcuna mi ha amata,
e questo per un poco ha annacquato la distanza.
Poi si sa, gli amori imbruttiscono,
l’amico sparisce, i figli fanno guai,
ed essere estranei significa trovarsi da soli
in un mondo di dinosauri.





Mi piacerebbe diventar vecchio
andando per borghi, per luoghi già stati,
per mari e poderi che una volta ho visitato.
Mi piacerebbe andarci d’estate,
nell’ora in cui la gente dorme,
e non senti che cicale.
Mi piacerebbe pranzare su un tavolo piccolo,
un pezzo d’agnello, un bicchiere di vino.
E stando seduto, ciarlare coi morti,
mio padre, mio zio, l’amico più caro. Ecco.
Mi piacerebbe diventare vecchio
come un pezzo di pane lasciato sul tavolo,
tra gli avanzi ed il resto.





Ho trovato il cammino a poco a poco.
È stato lungo, faticoso.
Ogni amore, ogni padre, ogni amico
ch’è mancato mi ha reso più vuoto.
Sono quello che è rimasto di me,
mettendo parole una sull’altra,
per colmare la falla.
Appartengo ai poeti adesso,
ma è un vortice di anime
che si amano perdendo.





Mezzogiorno. Rintocco di campane.
Per strada c’è il vuoto, il deserto.
Lei guarda dal balcone rovente di un’estate.
È in abito da sera, elegante.
L’altro è seduto su un gradone della chiesa,
in giacca e cravatta, all’ombra di un lampione.
Non si aspettano più niente.
Si preparano alla morte.





Devi arrivare alla fine per dire chi sei,
se hai amato qualcuno,
se hai creduto in qualcosa.
Devi arrivare alla fine per dire
se è bisogno o passione.
Prima, il caso e la fortuna ti confondono,
e puoi solo sperare di arrivare
fino in fondo.





Parlare di te,
scegliendo i precetti più veri,
silenzio, perdono, assumersi il torto.

Attendersi. Fare posto all’ignoto.

Tenersi per mano ogni giorno,
anche dopo.

Non scordare. Da te ho appreso l’amore.
Non smettere. Da te ho preso a resistere.
Ringraziare.

Chiudere gli occhi, e venirti incontro.





Scrivo, sul taccuino della notte.
Le voci basse, le luci fioche,
poco o niente da svelare.
È così che impariamo a inoltrarci
nel mare, nel buio, nel tempo.
Precede la morte, la fantasia.
e il tuo amore, vita mia,
è la guida per l’eterno.





Guardo la scena da lontano. È estate, ora di pranzo.
Siamo al tavolo del nostro ristorante,
una di quelle volte in cui stiamo insieme, tu e io,
e ridiamo, giochiamo, ci stringiamo, amico mio.
Il Bene siede in mezzo a noi, con sua moglie Felicita.
E il tempo passa spavaldo, sfidando pure Iddio.
Guardo la scena come fossi lontano,
da un balcone, un proiettore, un aeroplano.
Adesso che non ci sei più, le cose sono memorie.
La Morte ci caccia dal tavolo, come a dire –
andatevene, basta, altra gente ha prenotato -.




Basta che tu volga lo sguardo,
e io mi sento perso,
come se qualcosa stesse arrivando,
qualcosa di angosciante, che mi fa sentire oppresso.
È che tu sei il ponteggio che mi àncora alla vita,
e se ti allontani, se sciogli la cima,
io resto una zattera,
che vaga alla deriva.





Se vuoi prepararti all’approdo
devi farlo seriamente,
altrimenti corri il rischio di affogare.
E il segreto è far le cose lentamente,
rileggere ogni pagina di quello che hai scritto,
rigo per rigo,
considerare il bene che hai fatto, dall’inizio.
Su tutto, provare l’amore che hai dato e ricevuto,
gesto per gesto, minuto per minuto,
in modo da comprenderlo più a fondo.
E forse così puoi giungere sereno nel porto.





Ci si potesse ubriacare prima morire
sarebbe bellissimo.
In fondo l’incoscienza ci rende più veri,
capaci di concludere,
e in fondo c’è sempre una crepa nel muro
grazie al quale anche l’oscuro ci pare prezioso.
Oh, sì. Potessimo sciulare nel bel mezzo di noi stessi
saremmo tutti ragazzi, poeti ed amanti.




Il balcone è spalancato. L’aria stenta a entrare,
come in chiesa quand’è estate.
Mia madre è sul divano, invecchia qui accanto.
Nessuno di noi ha più voglia di parlare.
Tutto quello che c’è stato adesso è nelle cose,
disposte per casa come in un quadro,
– il vaso di gerani ormai sbeccato, un cesto di frutta
sul tavolo, un avanzo nel piatto -.
Così diventa l’amore, tra due anime dannate.
Una sacra natura morta.





Se è vero che mi ami, non dirmelo più.
Le parole stancano. Tutte già usate.
Usa le mani, le braccia, la bocca.
Stringimi, baciami, sorridimi.
E soprattutto, apri gli occhi,
fammi entrare.




Metti in tasca un fiammifero,
ti servirà a ritrovare la via
se ti perdi di notte.
Tieni in tasca del sughero bruciato,
ti servirà a nascondere gli occhi
quando mentirai.
Conserva nella piega della tasca
una penna, un chiodo, una lama,
ti servirà a incidere sul muro il mio nome
quando lo scorderai.




La vecchia passa le giornate sulla sedia di vimini.
È il suo posto nel mondo, il suo nascondiglio.
Guarda la vita che scorre col suo saliscendi,
le voci dei passanti, e chissà se vede,
se ascolta davvero o si perde nel ricordo, demenza,
stanchezza.
Gli altri, le passano accanto con lo stesso falso zelo
– Stai bene zia Mè -? Se ne fregano.
È un centrino fuori moda, lei, un libro da posare.
Un libro di storia, quando la storia diventa
ingombrante




C’è sempre qualcuno che rimane per ultimo.
Quaggiù, si tratta dello scemo del paese,
quello senza soldi, senza figli né mogli.
È solo come un cane.
Passa il giorno al camposanto, non sa dove andare.
Noi morti gli sorridiamo, lo ringraziamo.
Spazza le foglie, aggiusta corone,
riaccende quei lumini che il vento ha soffocato,
e quando è l’ora di andare, viene a dirci buonanotte,
chiamandoci per nome,
come nessuno ha mai fatto nemmeno da vivi.
E noi lo salutiamo, come un fratello, come un amico,
come il prossimo dimenticato.




M’insegui con gli occhi,
come fanno i cuccioli in cerca di sguardi
o di amore.
Mi chiedi se finisce tutto questo,
come i cuccioli tremando,
quando i grandi se ne vanno e rimangono da soli.
E io non so se termina la strada,
o se potrò tornare.
Però ti lascio tante briciole per terra,
così puoi ritrovarmi, un’altra volta,
un’altra vita.




Il foglio bianco. La luce strana.
Sul tavolo, un bicchiere di aranciata,
bevuta chissà quando,
un’agenda ancora bianca,
il tempo fermo d’orologio alla parete,
una penna con cui non so che fare.
Oggetti che sanno di noia,
un mondo che forse una volta…
Una natura morta.




Oggi parto per le vacanze.
Non è più come una volta, lo sai.
Il mare se n’è andato,
la festa patronale ha disertato,
l’amico mio d’infanzia è morto presto.
Ma io parto lo stesso.
Vado a vedere i luoghi fantasma,
gli spazi deserti, i ricordi mancanti.
Devo scegliere il mio vuoto
per l’estate.




Udire il favonio tra gli alberi stormire,
vedere nei campi la danza dei papaveri,
sentire il profumo di pesche e di fichi,
avvolgersi dell’aria che si alza tra i capelli.
L’estate è un corteo di frutti magnifici,
di rossi e arancioni vivacissimi,
di essenze e di piaceri così intensi che tu cedi,
stupisci, t’immagini una vita
che invece svanirà.




Sul taccuino dei giorni infelici
metterò tutti i ritorni a casa,
dopo l’estate, dopo l’infanzia,
quando la luce si abbassa,
le ombre si allungano,
e sull’uscio di un inverno che non passa
ogni mattino ravviva l’angoscia,
ogni rientro acuisce la mancanza.




Il mare.
Il mare d’estate, il mare d’inverno.
Il mare che si agita e stanca,
che oscura e ruggisce.
Il mare da soli, senza ricordi,
senza più tempo,
senza ombrelloni.
Il mare e il mare.
Il mare e basta,
quand’è tempo di stare,
lasciar andare.
Il mare.




Sotto il tendone ce ne stiamo,
aspettando che il vino e l’amicizia
faccian la sua parte,
a spulciare il tempo e la memoria,
a trovare l’amore.




Addio.
Questa è l’ultima volta che ci vediamo.
Dopo, sarò nient’altro che una voce
per te, un soffio intermittente,
un pensiero, una roba qualunque.
Tienimi dunque,
come una rosa tatuata sulla mano
che avvicini alla bocca, distratta,
mentre viaggi lontano.





È il verso scartato dall’autore,
il brano eliminato dall’album,
è quello fatto fuori dal branco.
Così va il destino.
Però che peccato.
In quello scarto c’è stata la vita,
c’è ancora l’incanto.





Eccomi arrivato finalmente sulla cima.
Un’aurora mai vista, lo sguardo sull’oceano,
un sussulto mozzafiato, bah,
chissà che mi aspettavo.
E invece, il vento è ghiacciato,
le aquile reclamano carne e spazio,
la paura di cadere mi stringe il petto,
mi toglie il fiato.
Ogni volta che tocco il cielo,
capisco di esser fatto per il baratro.




Dammi la mano, amore mio, e dormi.
La notte ci accoglierà tra le stelle
se stiamo insieme,
il sonno sarà dolce, il risveglio porterà gioia.
Dammi la mano allora,
e stringimi nel sonno, stringimi al risveglio,
stiamo insieme, ancora.





Questo libro si ferma qui,
come si ferma un’estate, una vita, un amore.
Non perché vi sia più niente da vivere o da dire
ma perché semplicemente prima o poi
qualcosa deve, o capita, e insomma s’interrompe.
Si ferma il battito. Il mare si placa.
Un popolo migra, silenzioso. Cambia la storia.
E un giorno riprende. Se riprende.
Sarà emozione, verità, testimonianza.
Sarà nuova poesia, la vita.

Prepararsi alla fine, poesie 2022, di prossima pubblicazione.

Lettura critica di Stanze di un matrimonio

“Stanze di un matrimonio”, di Hans Raimund (Editore Mobydick, Faenza, 1997, a cura di Augusto Debove; prefazione di Gabriella Rovagnati), è un autoritratto. Compiuto, fiammingo. Una di quelle tele ampie, scure, sacrali, dai colori contrastati, pastosi, stagionali.

L’interno di un amore, di quelli che valgono una vita, che stanno al posto del mondo.

A differenza che in altri passaggi poetici, in cui il poeta focalizza e dettaglia la sua casa di Vienna o quella in campagna (Fuggiasco ma con amore, scritti anche su Trieste; Villeggiante a lungo termine; Ventriloqui viennesi), qui la casa in se stessa, l’ambiente domestico reale, non è l’essenziale, poiché il mondo si risolve nell’immaginario di un matrimonio, in ciò che succede nella dimensione delle relazioni, come nel film di Bergman “Sussurri e grida”. In questa pellicola di Raimund, le biografie si intrecciano in una storia che dura da vent’anni; i conti si fanno nella rievocazione narrativa, e il conto è “in pari / Ne è valsa la pena” (“Indebitati fino al collo”); torti e ragioni, rotture e riparazioni si susseguono come in una partita silenziosa e infinita di scacchi.

Nell’aria c’è odore di Schubert, di piani e forti che incedon burrascosi: “Davvero ho un buon orecchio per il Piano Sempre / Il Crescendo graduale con ostinati Sforzandi sincopati / Fino al controllato Forte – inafferrando – Il tre-effe Fortissimo che si rovescia / Nel Piano subito – très doux avec langueur -… così / Seccamente contornato senza pedale” (“…La scarsità delle tue parole”); sequenze e sequele di ambizioni frenate dalla vergogna, dalla pigrizia, dalla colpa.

Qui, il fuori non fa’ che da sfondo alla relazione d’amore, benché questo paesaggio sia animato, sgargiante e rado come le doline. Come Duino, il suo porto, la sua bora che importa odore di salsedine e “un gusto” di nafta, oltreché di pioggia e di erbe. Oltre la finestra, oltre, ci sono “i soli gialli / Dal cuore nero pesanti sullo stelo…” (COS’ALTRO CI RESTA”); c’è il rosso d’una rosa che permane alle stagioni: “E quando il gelo della notte / La vita delle piante già da un pezzo / Ha ucciso risplendono ancora sui pallidi / Scheletrici secchi rami i tuoi frutti vermigli” (“TU SEI COME UNA ROSA”); c’è il verde d’una donna tutta “Verde dalla testa ai piedi così da parte a parte / Verde è tutto di te intorno a te indosso a te / Verde il Paradiso  di verde diaspro / Dicono il trono del nostro Dio” (“Il leone Verde”); ci sono tutti i colori di un arabesco composto con cura, dall’interno, non quelli di un arcobaleno, più naif e immediato, ma quelli ricostruiti sulla tela dal pittore, guardando di fuori, rifacendo una natura mai stata propizia o madre.

E sopra, sopra i vetri delle finestre, sopra tutto, un vai e vieni di stagioni rapide, di nubi minacciose, sconforto ed euforia, l’inverno che ricorda ciò che rimane della vita; l’estate che va riacchiappata, perché sta fuggendo.

In questo autoritratto, la vita è dentro; non si compone da congiunture esistenziali; si anima del proprio pulsare affettivo. La casa, la stanza, sono ferme; eppure “Il contatto di occhi orecchie naso mani piedi / Con la persona della casa: i muri che respirano / I pavimenti di legno scricchiolanti gli odorosi / Di cera d’api cassettoni l’armadio tutt’intorno / Di papaveri pinto e dentro / Niente i bicchieri pazienti i piatti sulle mensole / Il fuoco di giornali umidi e ciocchi / Di faggio il calore che così profuma…” (“Di qua non passa mai nessuno”).

Dentro, al centro della tela, c’è il tavolo grande, ch’è insieme tavolo e letto, altare e scrittoio. Luogo della relazione tra lui e lei, della prigionia di lui con lei, perché a quel tavolo si resta seduti; è uno spazio di libertà, perché su quel tavolo regna il disordine, si affastellano i ricordi, i racconti, le risate, le rotture; uva, mele, cioccolato, rotocalchi, funghi porcini: tutto ciò che lui porta da fuori e che lei “mangia finché non s’addormenta”; tutto ciò che lei raccoglie per lui e per loro. E allora, “Che cosa può la mia per giunta solo/ Libresca piccola Ars Amandi contro / tre chili di porcini?” (“NON CACCIATRICE RACCOGLITRICE SEI”); di fronte al raccolto, alla primavera, al mondo, ai frutti, ai fiori colorati e odorosi?

In queste “stanze di un matrimonio”, il tavolo centrale, sacrale, è avvolto dal silenzio, da un velo palpabile; il silenzio che precede una schermaglia, una separazione; quello che segue una conversazione; l’ironia tagliente, il desiderio non condiviso, non raccolto, rimasto nell’aria, sui porcini; la riflessione fugace su quanto abbiamo vissuto – quasi fosse un merito, un fatto di tenacia e non anche questione di fortuna – o quanto ci rimane. Luce di una candela che si consuma o, addirittura, Lei spegne prematura, lasciandoli al buio: ”Vent’anni! LA NOSTRA CANDELA / brucia ancora! – È quasi sempre bruciata / Da una parte sola… […] Tu / disturbato leone nella tua / Pace con forza vi ponesti / Fine […] Spegnesti / Tra due dita bagnate di pianto / Una delle due fiamme” (“Variazione I”).

Lui e lei, intorno al tavolo. Insieme.

È questo l’autoritratto, lui e lei: che poi è uno. È lui, ritratto in lei, “l’uno con l’altro”, “l’uno nell’altro”. Come nel Caravaggio, la luce grigiastra del Carso (della coscienza) attraversa le grate e raggiunge Franziska, metà del suo viso, ne illumina il profilo; un chiaroscuro di donna ch’è insieme il doppio di lui e la metà di lei; l’uno e l’altra, di fronte; lui di fronte a lei: Franzi, “leone” o “elefante”; Hans, “mosca” o “chiocciola”; lei truccata, arruffata, contrastata: un parlare pacato che all’improvviso ti grida contro: “gemiti grida scalpiti furia / Stranamente domate d’un tratto abbassate al minimo / A singhiozzi sospiri immobilità silenzio… “ (“…La scarsità delle tue parole”). Lui dimesso, accanto a lei, rifiutato, abituato al rifiuto. Raccoglie l’ombra, al massimo, “come Nabokov raccoglieva farfalle”. Lei, reale, concreta, in presa diretta; gesti e smorfie da “bambina affaccendata”. Lui riflesso, lento, allenato a “schivare al momento giusto una manciata / Di prese a rovescio di finte preparate allo specchio…” (“Da pazzi stare attaccati l’uno all’altra cos’”)! Lui che ama il vecchio, gli antenati, le nozze d’argento “Ti concedo queste pause volentieri / Dovunque io viaggi viaggio sempre / A casa da te… Tu ami il vecchio l’antico / Gli antenati le nozze d’argento d’oro / Le elegie di Marienbad i pranzi / Su ben apparecchiate tavole… cerimoniale / Vuoto ormai di senso ma ti dà sicurezza” (È solo una questione di ore”); un cerimoniale vuoto che pure da’ sicurezza, per quanto velato di scetticismo e disincanto: “Il fiore senso per me non è mai sbocciato”. S’è invece racchiuso e vissuto all’interno di lei, nel suo bocciòlo, nel suo fiorire tenace di rosa che non si “strappa dal suolo”, che resiste all’inverno del “gelo” (“Tu sei come una rosa”). Eppure, l’ombra nella quale lui sta è il vero suo posto: dietro di lei, dietro la porta, dietro la finestra, dietro la frontiera, lo schermo, lo scrittoio, dietro la nostalgia, del padre, di Vienna, la carriera da musicista. Il posto del desiderio, riposto nell’altra, nell’amata, da cui dipende, quella che da più di vent’anni sta lì da testimone di ciò che lui non sa, non osa sognare o dire.  Il posto dell’ombra, affianco a lei.

È il posto della scrittura, dove l’alterità si ricompone senza negare la differenza: “La confidenza con te sempre ancor straniera / L’intima conoscenza dell’altra faccia / Nell’esserci di ogni giorno…” (CON TE AMORE NON è STATO).

La poesia permette di cogliere l’amore al di là dell’apparenza, “sentire il segreto dietro l’assenza di segreto”. La stanza della poesia permette “di “Presagire (non sapere) la realtà dell’apparenza / Di essere l’uno nell’altro, protetti per un poco / E non nei secoli dei secoli…” (Ibidem).

È questo, “Stanze di un matrimonio”.

Un autoritratto dell’altro. La raffigurazione di un amore che muta l’effimero dell’esistenza in verità e unicità. Il senso di un’esistenza ritrovata nella relazione, rinunciando alla difesa della propria individualità, “perché lei non ha nessun nome”.

“Tu sei tutta la metà di me. Mi permetti di essere, davvero”.