note agli aknowledgments


Premessa per il lettore. Queste “note” non sono necessarie. Non vogliono essere un testo letterario, non servono a comprendere la biografia dell’Autore e non conducono a una migliore comprensione dei suoi testi poetici. Non è quindi necessario leggerle, e forse nemmeno utile. Chi si avventurasse in questi minima personalia sia quindi indulgente. Questi ricordi sono meri appunti, lasciati come ausilio affettivo per me stesso.

  1. Pino D’alessio. Pino è il primo amico vero che io abbia avuto. Amico in tristitia. Ci siamo conosciuti al Liceo Garibaldi, a Napoli, nel ’78. Frequentavamo la prima E della prof.ssa Alfano, un’insegnante improbabile e maldestra, così come improbabili e maldestri erano diversi nostri compagni di classe, capitati in un liceo classico senza nemmeno sapere perché. Basti ricordare Pietro, uno che si portava per colazione una gamella di alluminio imbottita di pasta, e così merendava, alla faccia di tutti… Oppure Danilo, affetto da una strana forma di rinorrea emotiva: appena la maestra lo chiamava a conferire sulla prima declinazione, una bolla di “chiarfo” – come dicevamo a Napoli – gli si gonfiava dal naso: il tipo diventava in tal modo un pagliaccio, e tutti ridevano, come a teatro. A questi si aggiungevano allievi muniti di vocabolario di greco moderno (!), o anche allievi quasi maggiorenni; uno della nostra classe aveva persino sedotto la supplente di storia dell’arte, copulando con lei ex cathedra. E’ in questo clima che nasce l’incontro tra me e Pino, un incontro fondato su un’immediata affinità elettiva, nel senso di Ionesco: “Le idee ci separano, le emozioni ci uniscono”. Noi eravamo diversi in tutto: lui era forte, io no; lui puntava sul fascino, io sull’intelletto; lui era pragmatico, io un idealista; lui veniva da una famiglia serena e equilibrata, io venivo da un guerra familiare; lui era stimato ed emulato, io ero guardato con curiosità; lui diceva sempre la verità, a meno che non era costretto a mentire, io fornivo sempre una versione alterata delle cose, a meno che non ero costretto a dire la verità. Lui voleva fare l’insegnante di latino, io volevo fare il poeta. Lui è diventato un latinista a pieno titolo – a lungo membro del Comitato Tecnico Operativo Nazionale delle Olimpiadi Nazionali di Lingua e Civiltà Classiche promosse e organizzate dal MIUR, titolare dell’insegnamento di didattica della Lingua e Cultura Latina presso l’università degli studi di Napoli L’Orientale -; io sono finito a fare un mestiere qualunque, per guadagnarmi da vivere, e sono stato un poeta che ha scavato i versi e il tempo dal marmo delle giornate. Una cosa ci univa, però: siamo stati due uomini tormentati; in testa avevamo solo l’amore, la maledizione di essere costretti a vivere adattati, quasi fossimo stati davvero normali. Siamo stati uno scrigno segreto, l’uno dell’altro. E’ un amico del cuore, sullo sfondo di un disincanto mai finito.
  2. Alfonso Benedetto, al contrario di Pino, è stato l’amico in hilaritate. Il mio amico più “vecchio”. Siamo nati e cresciuti insieme, nella stessa strada di Ascoli Satriano. Siamo amici da sempre. Era un ragazzo determinato, coraggioso. Sorridente, votato all’ottimismo, capace di sdrammatizzare. Siamo sempre stati il sorriso, l’uno dell’altro. Tutte le volte che ci siamo incontrati è stato per giocare o viaggiare. Abbiamo passato le estati giocando a pallone, a palline, a nascondino, alla guerra, a tennis, a tutto ciò che esiste nel mondo. Era fiero dei prodotti della sua vigna, del suo vino, del suo olio, la sua frutta, dei pranzi di sua madre. Abbiamo fatto le vacanze insieme, a Margherita o a Vieste. Mi ha stimato per la cultura e intelligenza, e io l’ho stimato per la bonomia, la disponibilità, l’affetto immediato. Se n’è andato troppo presto, lasciandomi da solo. Ci ritroveremo nello stesso cimitero, a cinque metri di spazio, vicini, come sempre siamo stati.
  3. Enzo Provitera. Come Pino e Alfonso, Enzo (mio cognato) è un vecchissimo amico. Ci siamo conosciuti alle scuole medie, ai Salesiani. Lui è atterrato nella mia classe in seconda media, e da allora siamo sempre stati a scuola insieme. Facevamo la stessa strada per andare e tornare, ci fermavamo nella stessa pizzeria per comperare zeppole e panzarotti. Abbiamo trascorso decine di pomeriggi insieme, per studiare o cazzeggiare. Anche al Liceo, ci siamo ritrovati nella stessa classe, e quindi nelle stesse case, quella di Pino, la mia, ma anche la sua a Calata Capodichino 64. A un certo punto della nostra adolescenza, si è innamorato di mia sorella, Bianca, e si sono messi insieme. In tal modo, il gruppo di amici s’è allargato, e abbiamo continuato a uscire insieme.
  4. Bianca Lamartora. Siamo stati sempre diversi: lei votata alla chiarezza, io all’oscurità, lei sincera, io sognante. Questa differenza però non ci ha impedito di frequentarci da amici, prima che fratelli, e di proseguire il viaggio sotto lo stesso destino: quello di aver vissuto in una famiglia litigiosa e violenta, nella quale si sono scontrati gli eserciti achei e troiani. Da questa guerra, siamo usciti in modo diverso: lei, tagliando i legami con quella storia e quel passato, io cercando di ripararli.
  5. Pasquale Sarcone e le sue zie. Pasquale è stato un amico storico di Ascoli, come Alfonso. Le nostre famiglie si stimavano e frequentavano: mio padre e suo padre erano amici da sempre, e tutte le volte che eravamo ad Ascoli si incontravano per fare lo struscio o sostare nel “Circolo dei Signori”. Le sue zie erano talmente familiari per me che le chiamavo zia Veria e zia Rita: avevo un rapporto del tutto filiale con la sua famiglia, frequentavo casa sua e la sua biblioteca, che una volta era la biblioteca comunale. Pasquale è l’amico leale, fedele, riservato, affettuoso e gentile come il padre. La vita ci ha separati per 20 anni, ma è bastata una scintilla per riprenderci dov’eravamo. Adesso, ci vediamo soprattuto d’estate, nella sua casa di campagna, dove ci attardiamo cenando e ricordando i bei tempi.
  6. Biagio e Sara Gallo. Sara è stata una bambina di Pompei. Con questo termine, noi residenti in via Torre Vecchia – la via che porta alla Basilica della Madonna di Pompei – indicavamo tutti quelli affiliati alla nostra tribù. Una specie di stirpe eletta. Noi tutti, Bianca, Alfonso, Marcello, Gianni, Rosario, Rocco, Pasqualino, Gerardo, Liliana, Antonella, Rosanna e altri, passavamo i giorni dell’estate – che allora durava quattro mesi e mezzo – a giocare insieme. Mi è rimasta nel cuore, Sara, e ancora oggi, con suo marito Biagio – un amico caro con cui ci conosciamo da sempre, e col quale abbiamo condiviso partite di tennis e iniziative culturali – ci ritroviamo a cenare e passeggiare. Sono amici sinceri, con cui parlare di tutto.
  7. Letizia Chiarella. Ho conosciuto Letizia quando Alfonso se n’è innamorato. Avevamo circa 20 anni. E’ stata la prima ragazza di Alfonso, non si nono mai lasciati, insieme da 36 anni. Abbiamo condiviso l’estate, con tutto ciò che questo significa: mare, viaggi, pranzi, cene, giochi, sogni, racconti, risate, speranze, favole. Ancora oggi, con qualche ruga in più, la storia continua: io, Chiara e Letizia condividiamo ancora buona parte dei giorni festivi, perché stare insieme è ancora una festa.
  8. Sergio Caiazzo & Alfonso Tortora. Nessuno di noi tre voleva veramente fare Medicina. Ci eravamo capitati per sbaglio o per forza. Detto ciò, le nostre giornate passavano nei prati della Facoltà a giocare a pallone, e dopo, abbiamo continuato a uscire insieme, di sera, con questa o quella fidanzata. Sergio è l’amico integerrimo, chiaro, sorridente, leale, coraggioso, comunista, tifoso del Napoli, adatto a una vita essenziale, capace di innamorarsi di una donna ucraina e di lottare per i suoi diritti, capace di rilevare un bar difficile e lottare per farlo andare, capace di sposare una donna isterica, separarsene e sopportare la distanza dalle sue figlie. Tuttavia, non sono mai entrato nel suo bar Martini, a Piazza Leonardo, senza essere accolto da un sorriso. Alfonso è l’alter ego di Sergio. Gioviale, mattacchione, bello e affascinante, dotato di una lancia Thema con la quale abbiamo corso il lungomare flegreo decine di volte. Adorava George Michael e Careless wisper, sulla cui melodia abbiamo sognato per anni. Ha scelto di fare il medico del lavoro, s’è sposato, ha avuto un figlio, e la nostra amicizia si è trasferita a Caserta.
  9. Paolo Foretier e Marco Foretier, rappresentano i miei primi anni in Val d’Aosta (VDA). Sono arrivato a Cogne il 30 giugno 1991. Avevo appena vinto un incarico di guardia medica estiva in Valle – non perché l’avessi voluto, ma perché tra i tanti posti a cui avevo spedito la domanda di partecipazione, la Valle è stata la prima ad accettarmi. Così mi sono trovato ad Aosta, la prima sera, ho pernottato all’albergo Le Pageot, vicino alla Gare. Il giorno dopo sono salito con la mia Tipo a Cogne. Mi son seduto sulla panchina della piazza centrale. E’ passato un gruppetto di ragazzi, Lea Cretier – la farmacista del paese – e suo marito Giacomo Gobbi, il veterinario; Paolo Foretier, gestore della Locanda Grauson di Gimillan, e suo fratello Marco -. Lea mi si è parata davanti, chiedendomi se fossi io il nuovo medico. L’ho guardata stralunata, le ho detto sì, e da allora sono diventato uno di famiglia. Mi ha sempre colpito quest’immediata affiliazione a quel mondo e quel gruppo di amici, mi portavo appresso il pregiudizio che solo i napoletani fossero socievoli e ospitali, E invece, questi amici mi hanno invitato nelle loro case come fossi uno di loro. Mi hanno parlato di fatti ed emozioni normalmente riservati ai parenti. Mi hanno invitato a passare le vacanze insieme e io, a mia volta, li ho invitati a Napoli, nel dicembre 1991. Gli anni della Valle d’Aosta, soprattutto quelli dal 1991 al 1995, sono stati magnifici: mi sono sentito coccolato e stimato, oltreché amato. Mi restano nel cuore le serate passate davanti al camino della locanda di Paolo, a Gimillan, la panna cotta preparata da Anita, sua madre, la casetta di Marco, poco oltre, nella quale ho dormito con Martine. E’ stata un amicizia evolutasi al punto che io e Marco siamo andati a convivere, dal 99 al 2003: abbiamo viaggiato insieme, siamo stati i fondatori della rivista Passages, abbiamo realizzato reportages fotografici in Romania, in Italia, in Francia. Il frutto di questo lavoro è finito nel primi numeri della rivista Passages.
  10. Calin e Amélia. Sono capitato a Grenoble grazie all’amore per la lingua francese. Mi ero iscritto all’Istituto Grenoble di Napoli nel 1995. Da allora, ho frequentato per due anni, alla fine dei quali ho conseguito il DELF e il DALF. Per tali meriti, nel 1997 ho vinto una borsa di studio a Grenoble, dove sono arrivato il 14 luglio. Ricordo che ho trovato una città serrata, poiché in Francia era festa nazionale. Ho optato quindi per l’Hotel de l’Europe, in Place Grenelle, dove ho soggiornato due mesi. Avevo con me la Lancia Delta, appena comprata. La mattina uscivo tardi, verso le nove, mi recavo al Centre Hospitalier Universitaire, dov’era il reparto di psichiatria al quale ero “attaché”. Mi ritrovai in un gruppo di persone come Gerard Amiel e Calin Barna che sarebbero diventati amici. Avremmo giocato a biliardo, parlato di rock e letteratura, viaggiato e villeggiato insieme. Calin è diventato un fratello. Con lui e sua moglie Amelia siamo andati in Puglia, in Marocco, a Capri. Gérard, ottimo analista bioniano, era anche scrittore. Un suo romanzo, C’est arrivé très vite è pubblicato sui numeri 1/2002 e 2/2002 della rivista Passages. Quello di Grenoble è stato un periodo meraviglioso, giovanile ed entusiastico, traversato da un clima di allegria condivisa.
  11. Luca Laurent è stato uno dei primi pazienti che ho conosciuto ad Aosta e al quale sono diventato amico. Era un uomo assediato dai dolori, dalla solitudine. Schivo, burbero, passava le giornate in una specie di grotta ad Arnad, suo paese di origine, dipingendo magnifici oli su legno, alla maniera di Egon Schiele: nudi maschili e femminili dai visi tirati, segnati dal dolore e dall’angoscia. Riuscii a organizzargli una personale in via del Tritone a Roma, presso la sede della Regione Valle d’Aosta, portandomi in macchina i dipinti. Ebbe successo, e questo cementò la nostra amicizia. Ancora oggi, trenta anni dopo, ci sentiamo, regolarmente.
  12. Paolo Servi è uno degli uomini più buoni che abbia mai conosciuto. L’ho incontrato negli uffici amministrativi della ASL di Aosta, nel 1999, dov’era finito a lavorare. Divideva la stanza insieme a due donne che sarebbero diventate altrettanto amiche, Barbara e Anna. Col tempo, Paolo divenne un collaboratore stabile di Passages, per il quale faceva la vignetta d’apertura. Così è stato per sette anni. Io d’altronde, ho corretto le bozze dei suoi romanzi, l’ultimo dei quali, Le tre rune, è uscito nel 2022 (Ed. Mondo Nuovo).
  13. Cinzia Sciuto e Davide. Cinzia Sciuto è stata una studentessa di filosofia a Villa Mirafiori, negli anni in cui anche Chiara ha frequentato la stessa Facoltà. Sin dall’inizio, tra noi e lei è scattato un feeling che ci ha permesso di frequentarci piacevolmente. E’ una donna intelligente. Aveva trovato la possibilità di una società di formazione che mettesse a disposizione degli appartamenti a Roma, purché l’affittuario si occupasse di ragazze americane che venivano in Italia a imparare l’italiano. Fu così che Cinzia e Chiara poterono vivere a Roma per gli anni universitari, alloggiando in ottime case. Cinzia voleva fare la giornalista, è entrata subito nell’establishment di Repubblica e L’Espresso, è diventata redattrice di Micro Mega con Paolo Flores d’Arcais. Attualmente è condirettrice della Rivista. Suo marito Davide è un ragazzo buono, intelligente, affettuoso. Con lui abbiamo passato belle giornate a Napoli, giornate memorabili. Una volta, ci siamo trovati in tre a Positano, in una giornata d’inverno. Avevo convinto Davide e Chiara a osservare il mare dagli scogli, mentre ruggiva e sferzava la scogliera. Una delle onde, all’improvviso, ci ha travolti, rischiando di risucchiarci in mare. Ne siamo usciti inzuppati. Siamo andati di corsa al bar dei portici di Positano, sistemandoci sotto un “fungo” del locale, sul cui tettino di ferro abbiam messo ad asciugare i calzini bagnati. Intanto abbiamo ordinato un thé per tre, avendo in tasca solo pochi spiccioli. Quando il cameriere è arrivato col nostro infuso da sfigati, il calzino stava prendendo fuoco sul fungo!!!
  14. Mariano Scaglione è stato uno dei miei migliori amici. Quando si dice fraterno si intende un amico con cui hai una estrema confidenza, e con il quale hai diviso molta vita. Io passavo intere giornate a casa sua, in via Mattia Preti. Aveva una casa bellissima, con un terrazzo spettacolare su Napoli, sul quale, soprattutto d’estate, abbiamo trascorso molte serate. La madre, una donna elegante, gentile, acuta, sorridente, era malata di cuore. Mariano è stato un pianista, prima di diventare un neuroradiologo di fama mondiale. Oggi vive a Sassari, dove insegna all’Università.
  15. Sono finito ad Aosta una prima volta nel 1991, a fare la guardia medica a Cogne. E una seconda volta nel ’99. La Regione aveva organizzato un concorso per due posti di psichiatra, da inviare al Dipartimento di Salute Mentale e al Servizio dipendenze patologiche. Io optai per il SerD e rimasi in Valle. Lì incontrai Paola Sandrone, la psicologa che avrebbe diviso la stanza con me. Siamo stati insieme 18 anni. Siamo stati amici veri, di quelli che fanno tutto insieme, casa, vacanze, cene, progetti, follie. Io e mia moglie, lei e suo marito Roberto Mancini abbiamo quasi convissuto. Abbiamo avuto lo stesso approccio culturale ai pazienti, un approccio che oggi chiamiamo recovery, e che allora ci ha spesso messo in minoranza rispetto al resto del Servizio.
  16. Gregorio Salis è il compare di battesimo di Elène. L’ho conosciuto nel 2003, quando la regione Basilicata si fece promotrice di un’esperienza di “valutazione tra pari” dei SerD italiani. Sicché, dopo una prima formazione a Roma, ci siamo ritrovati nella stessa equipe e abbiamo visitato alcuni Servizi insieme. Mi aveva colpito da subito per il suo abbigliamento strano, le sue camicie gialle a palle rosse, la sua intelligenza e la sua passione per Mahler. Da allora è divampata un’amicizia immediata, che ci ha portati a viaggiare insieme in Puglia, in Sardegna, in Marocco, e in mille altri posti. Quando Elène è stata battezzata, nel 2015, Gregorio – insieme a mia sorella Bianca – le ha fatto da padrino, regalandole un violoncello 4/4.
  17. Nicola Scapecchi è un uomo geniale. Mi contatta nell’estate del 2002, quando l’avventura di Passages era appena cominciata. Ci incontriamo in Piazza Regina Margherita, al bar “I Butteri”. Mi presenta un suo libro di poesie, illustrato da fotografie scattate da un amico. Accetto di pubblicargliele su Passages, colpito dalla sua bravura ma anche dalla sua qualità umana. Da allora, è scoppiata un’amicizia così profonda che per molto tempo abbiamo pianificato di attrezzare un casolare ad Arezzo in cui vivere insieme. La nostra amicizia è sopravvissuta ai suoi numerosi spostamenti in giro per il mondo: è stato un pò di tempo in Olanda, tre anni a New York, cinque anni in Spagna. Oggi vive a Madrid con sua moglie. Nicola è un poeta capace, di cui ho pubblicato tre estratti su altrettanti numeri di Passages.
  18. Ho conosciuto Giuliano Fuortes quando sono entrato alla SPI nel 1999. A settembre del 1999, quindi, mi sono trovato in via Panama 48 con Maria, Giuliano, Macario, Roberto e altri. Saremmo diventati amici, e gli anni del training, dal 1999 al 2003, sono stati tra i più belli della nostra vita. Avevamo creato un gruppo di “poesia”, la cui formula era incontrarsi settimanalmente a casa di qualcuno di noi, mangiando e bevendo dell’ottimo vino, dopodiché ognuno leggeva agli altri poesie scelte per quella serata. Oltre ad aver cenato nelle case di tante persone, ho cementato amicizie che sarebbero vissute nel tempo. Una di queste è quella con Giuliano Fuortes, poeta come me, con cui ci scambiavamo versi e strategie editoriali. Giuliano è stato sempre generoso e ospitale: prima che io avessi un mio studiolo in Piazza Verbano, mi ha offerto il suo studio senza chiedermi nulla. Ci siamo supportati a vicenda. Adesso è in pensione e il martedì, nel bar dell’Accademia di Santa Cecilia, ci incontriamo per parlare di poesia.
  19. Marina Astrologo è stata ed è una delle migliori traduttrici e interpreti italiane. Moglie del filosofo e amico Edoardo Ferrario, ha tradotto centinaia di articoli per quotidiani e riviste, italiane e internazionali, e numerosi libri. E’ una cara amica, con cui abbiamo villeggiato insieme in Puglia e nel Cilento. Nel tempo in cui Elène doveva stare a Roma il venerdì sera e il sabato mattina, Marina ci ha salvato la pelle, ospitandoci a casa e permettendoci di seguire un programma musicale che altrimenti non avremmo potuto seguire. E’ dotata di un garbo e di un’ironia fuori del comune, oltreché di una vasta cultura.
  20. Andrea Valdevit. Andrea è uno psicologo fenomenologo che ho conosciuto venti anni fa, quando dirigevo la rivista Passages. Lo avevo contattato come vignettista e scrittore, e poi, tornato a Napoli, l’ho ritrovato come amico. E’ un animo gentile, sorridente, ospitale, caratterizzato da una limpidezza mentale unica, incapace di far male a una mosca. Mi ha sempre colpito la sua dignità nel sopportare la precarietà lavorativa a cui è sottoposto. Malgrado questo, è un padre affettuoso e scrupoloso con i suoi pargoli: ci incontriamo spesso per chiacchierare, sulla sua terrazza.
  21. Bianca di Caterina e Pasquale. Bianca è stata la ginecologa che ha condotto il parto da cui è nata Elène, a Villa Bianca a Napoli. Da allora, il rapporto professionale si è trasformato in amicizia, grazie anche al marito Pasquale, uomo simpatico e gioviale. Non abbiamo più smesso di frequentarci, nemmeno negli anni in cui ho vissuto ad Aosta: ci siamo incontrati a Roisan, a Napoli, abbiamo villeggiato insieme, e quasi ogni mese trascorriamo insieme una serata piacevole.
  22. Luca Popolo è un uomo straordinario. Negli anni ’70 e ’80, sulla collina di Pompei, un gruppo di famiglie divennero particolarmente unite tra loro. Unite per stima, consuetudini o amicizia. Tra queste, c’era anche la famiglia Popolo, famiglia numerosa: padre, madre e cinque figli, l’ultimo dei quali era proprio Luca. Il padre muore quando il bimbo aveva dodici anni, sicché Luca è vissuto tra madre e sorelle. Crescendo, ha acquisito lo stesso rigore etico della madre e del padre, sul quale si è innestata una dose di follia creativa: rock, look da pirata, comportamento estroso e ribelle. Ne è scaturito un uomo sfaccettato, che unisce la generosità all’operosità, la capacità del homo faber a quella di stare nelle relazioni con partecipazione. Luca è l’amico che ti trovi sempre, che fa quello che promette di fare, su cui puoi fare affidamento per le cose pratiche come per quelle affettive.
  23. Salvatore e Giusy. Ho conosciuto Salvatore e Giusy a Vieste, grazie ad Alfonso e Letizia. Quando si andava (e si va ancora) a passare un week end a Vieste, sul lido Arcobaleno, Alfonso e Letizia ci presentavano spesso degli amici, tra cui questa giovane coppia di Foggia, che ha una casa di vacanze a Vieste e vi si trasferisce durante l’estate. Sono apparsi immediatamente come persone buone, concrete, disponibili, ospitali. Tra di noi è scoppiata un’immediata vicinanza affettiva, che oggi promette un’amicizia duratura.
  24. Alessandro e sua moglie Fanny, Patrick e sua moglie Veronica, Paolo e sua moglie Elisa, Denis e sua moglie Consuelo. La nostra permanenza a Roisan è durata dal gennaio 2011 – quando abbiamo acquistato casa – al 16 settembre 2018, quando ci siamo trasferiti a Napoli. Nei sette anni trascorsi a Roisan, Elène ha frequentato l’asilo, dove ha conosciuto i bambini del quartiere – Amelie, Mila, Kevin, Noa, e dove noi abbiamo conosciuto i loro genitori. Siamo stati fortunati, poiché tutti loro sono stati affettuosi, disponibili, ospitali. Con tutti abbiamo trascorso serate piacevoli, all’insegna della convivialità e del gioco. Con tutti continuiamo a vederci, ogni qual volta torniamo a Roisan.
  25. Maurizio è il primo degli amici che ho perso. Suicida. Si era iscritto al Liceo Garibaldi al terzo anno, ed era entrato a far parte della stessa classe di Pino, Mauro, Enzo e mia. Era un prodigio delle lettere classiche. Traduceva all’impronta il greco e il latino, che peraltro parlava. Conosceva buona parte della filologica classica, sicché, durante una versione, lui traduceva il testo dal greco al latino, apponendovi note critiche a margine, spesso in francese o tedesco. Il tutto in meno di un’ora. Poi usciva dalla classe a fumare. Io lo amavo perché era un puro di cuore. Era timido e imbranato, aveva sognato a lungo di baciare una donna, prima di riuscire a fidanzarsi con un’amica della mia prima compagna. Avevamo costituito un gruppo allargato in cui c’eravamo io e Francesca, mio cognato Enzo e mia sorella Bianca, Maurizio e Teresa, la sorella di Teresa e un altro compagno di classe, Raimondo. Spesso si usciva il sabato sera per andare a Baia Domizia. Spesso, io restavo a casa sua, a Marianella – un quartiere a nord di Napoli – a studiare. Al Liceo gli avevano concesso di fare due anni in uno, sicché dalla prima era saltato in terza. Aveva vinto il primo premio al concorso per il bimillenario della nascita di Virgilio, immaginando un testo in latino in cui Virgilio e Dante dialogano tra loro. Aveva ottenuto la stima di Antonio La Penna, preside della Scuola Normale Superiore di Pisa, il quale lo avrebbe voluto lì ad insegnare latino, appena compiuti i 18 anni. Ma il padre e la madre lo volevano medico, e il figlio si iscrisse a Medicina. A meno di un anno dall’iscrizione si è gettato dalla finestra. Oggi, una targa votiva posta nel Liceo Garibaldi ricorda la sua prodigiosa bravura.
  26. Giacomo era il marito della farmacista di Cogne, un veterinario, uno di quegli amici che incontrai sulla panchina della piazza di Cogne il pomeriggio del 30 giugno 1991. Era solare, positivo, concreto; dissacrava e sdrammatizzava. Coglieva l’aspetto buono delle cose. Amava il rock, quello sereno, tipo Huy Lewis o AC/DC. A dicembre del 1991 era venuto a Napoli, a casa mia, insieme alla moglie e ai fratelli Foretier: aveva assaggiato la trippa da “O Russ” (una antica tripperia ubicata all’angolo di via Marco Aurelio Severino): da allora in poi, tutte le volte che scendeva di casa, non mancava di comprare un “cuoppo” di trippa, da piluccare passeggiando, con una spremuta di limone.
  27. Ho conosciuto Macario nel ’99, a metà settembre, quando io e gli altri candidati alla SPI del 1999 fummo chiamati in Via Panama dall’allora segretario del Training, Gilberto Maccari. Già dalla prima occasione si vedeva che saremmo diventati amici. Aveva imboccato in ritardo la strada della psicoanalisi, e ripeteva spesso che la sua età era l’assicurazione migliore del suo interesse per la clinica, interesse non inquinato da mire di potere. Ci siamo frequentati per anni, trovandoci tutti i venerdì o i sabato in via Panama. Poi ci ritrovavamo anche a Napoli, per pizze o altre cazzate. Era un amico “sprucito”, irascibile ma buono, onesto, leale. Lo trovavi sempre accanto, quando ne avevi bisogno. E’ morto troppo presto, a 50 anni. In suo ricordo, abbiamo scritto un libro a più voci chiamato appunto Il Principe e la Strega.
  28. Maria Pirillo è stata un’analista appassionata. Faceva parte dello stesso gruppo di candidati di cui facevano parte Macario, Roberto, Francesco, Giuliano. E’ stata una delle mie migliori amiche, una con cui quale ho fatto cene, vacanze, notti a studiare, viaggi, scuola di musica (Fusion School) e tanto altro. Mi ha ospitato a casa sua quando ero in analisi a Roma dal 2006 al 2012. Era generosa e gioviale, ma anche severa e rigida: se qualcuno non le piaceva lo espelleva. E’ stata una delle persone più buone del mondo.
  29. Giancarlo è stato uno dei miei amici fragili, dipendenti, sfortunati. L’ho trovato un giorno d’estate nel vagone di un treno fermo su un binario morto della stazione di Aosta. Era un trentenne brillante, capace di vincere ogni sfida, uno che non si abbatteva. Diventammo amici. Si rimise in carreggiata. Aveva già un matrimonio alla spalle e un figlio adolescente affidato alla madre. I genitori vivevamo a Pinerolo. A un certo punto della sua vita incontra una minorenne, se ne innamora, la porta in casa, la sposa, ci fa una figlia. Io sono testimone di questa festa. Ma riprende a bere subito dopo, quando si accorge che la presunta minorenne in realtà è una donna dalle idee chiarissime e dall’attitudine delinquenziale. Costei infatti lo provoca, attenziona gli assistenti sociali sul suo alcolismo, lo fa allontanare di casa, facendosi lasciare la figlia in affidamento esclusivo, e facendosi mantenere economicamente. Nonostante la mazzata, Giancarlo continua a fare il padre e lo fa bene. Paga l’assegno mensile, vede la figlia con regolarità, trova una casa per se stesso e la arreda con cura per offrire alla piccola un posto accogliente e identificabile. Costei infatti è andata a vivere dal secondo marito della madre, dal quale avrà una sorellastra. Non contenta di questo secondo marito, l’ex moglie rincorre un terzo compagno, un delinquente: lo sposa, ci va a vivere insieme. A quel punto i Servizi sociali tolgono la figlia alla madre e la riassegnano al padre, Giancarlo, che per un pò di anni rimane lontano dall’alcol permettendo a sua figlia di rifarsi una cerchia di nuovi amici. Finché un giorno i demoni ritornano e lui riprende a bere. Il Tribunale gli toglie ancora una volta la piccola e la rimanda a casa della sorellastra. A quel punto, Giancarlo precipita nell’alcol, che lo ucciderà il primo gennaio 2022. E’ stato un uomo perbene, un uomo fragile dal cuore d’oro.
  30. Valerio è stato un ragazzo sfortunato e dipendente. Nasce da una famiglia nobiliare siciliana. Il padre, uno dei più conosciuti architetti locali, lo riempie di botte fin da bambino – in realtà riempie di botte tutti e tre i figli, compresa la moglie -. Questi, appena riescono, se ne separano e vanno a vivere in Val d’Aosta. Conosco Valerio in psichiatria, me lo prendo in carico, riconoscendo in lui una propensione alla dipendenza, non alla follia. Valerio entra ed esce dalle Comunità Terapeutiche, viene minacciato dai Servizi, e spesso mollato al suo destino. Riesco a trovargli una casa ad Aosta, gestita da una cooperativa; Valerio si sistema, istituisce uno studio di registrazione, e passa il tempo fra passeggiate e musica da masterizzare. Per lui sono stato un amico, un fratello, un padre. Ha condotto per un pò la vita che desiderava, e io sono testimone di questa felicità. Poi, è morto di arresto cardiaco. Mi è stato molto caro, lo porterò per sempre nel cuore.
  31. Ida D’Alessio è la sorella maggiore di Pino, e un pò anche mia sorella. Ci conosciamo da 40 anni, da quando conosco lui e frequento casa loro. E’ stata sempre con noi, anche se più grande di qualche anno. E’ stata complice di tutte le nostre cacchiate, alle quali ha partecipato peraltro. E’ una donna buona, giusta, gentile, disponibile, ospitale, leale, sorridente, malgrado la vita l’abbia privata precocemente dei genitori. Nonostante la vita non facile, Ida è ancora quella del liceo, gioviale, e io la frequento con lo stesso piacere e la stessa affinità che provavo per lei a quindici anni
  32. Patrizia Ruosi è stata una collega conosciuta nel ’94, quando mi sono trasferito da Aosta a Nocera Inferiore, andando a lavorare a Villa Chiarugi, una clinica nella quale lei faceva l’epilettologa. Mi è parsa immediatamente una donna particolare. Buona, sorridente, entusiasta del proprio lavoro nel quale eccelleva, tanto da meritarsi varie pubblicazioni su riviste internazionali e svariati riconoscimenti universitari. A un certo punto della nostra amicizia, ci siamo fidanzati e abbiamo passato i giorni insieme per quattro anni. Patrizia aveva una famiglia unita e ampia, una madre e un padre adorabili, che mi avevano adottato come un figlio. Poi, nel ’99 sono ritornato in Valle, e la nostra storia si è trasformata. Siamo rimasti amici, ci siamo stimati reciprocamente, ci siamo frequentati di nuovo da quando io sono tornato a Napoli. Adesso fa parte a pieno titolo dei miei amici.
  33. Lina Popolo è la madre di Luca. Di lei dirò solo che è stata una seconda madre, per me e per i bambini della nostra contrada ad Ascoli. Mi ha sempre stimato e coccolato, e io le ho sempre riconosciuto una grande dignità, rafforzatasi da quando suo marito è morto, lasciandole inerme con cinque figli. Anziché disperarsi, Lina s’è messa a lavorare, ha portato tutti i figli ad essere laureati, a diventare professionisti. E’ una donna indubbiamente speciale.
  34. Noelle è una ragazza texana, capitata a Roma nel 2003, seguendo un programma di formazione all’estero, che prevedeva la convivenza con un istitutore italiano. L’istitutore era Chiara; la casa, una villetta con camino, bellissima, sulla Nomentana, e Noelle un angelo caduto dal cielo. Una di quelle persone che sanno portare gioia nel cuore gli altri. Sia io che Chiara ce ne siamo innamorati, diventandone amici. Poi la vita le ha sbattuto contro una serie di compagni inadeguati. A un certo punto è tornata ad Austin, ha incontrato l’amore e ha chiamato i suoi due figli… Enzo e Chiara!
  35. Edoardo Ferrario è stato un filosofo, docente di estetica alla facoltà di filosofia della Sapienza a Roma. Insegnava a Villa Mirafiori. Chiara lo conosce come docente e ne rimane sedotta. Edoardo è dotato di una bonomia, di una affabilità, e di un fascino tali che le sue lezioni erano frequentate da migliaia di studenti. Parlava di Kojève e dei poeti, di problemi sociale e di teatro. E’ stato uno degli ispiratori romani del movimento dei Girotondini, che per dieci anni, dal 2002 al 2010 ha combattuto a suon di articoli giornalistici il berlusconismo e la corruzione dilaganti. E’ stato un amico adorabile. Avevamo gli stessi gusti, le stesse passioni artistiche e politiche. Insieme a sua moglie Marina abbiamo fatto vacanze insieme, cenato, viaggiato. E’ morto per una polmonite di cui soffriva da tempo, mentre era in vacanza. Nei nostri discorsi quotidiani, Edoardo c’è ancora, ci sarà sempre.
  36. Pino Di Carlo. Mia madre lo adorava, era il suo fratello minore ma anche la sua spalla, quando andava a ballare da giovane, il suo confidente, quando aveva qualcosa che non andava, il suo testimone di nozze. Zio Pino era gentile e disponibile, generoso e ospitale, come tutta la sua famiglia. Era rimasto single, si era dedicato a fare il cuoco, aveva anche scritto un libro di ricette, Le ricette di zio Pino. Amava fare i dolci, ha preparato per anni le pastiere, le zeppole di San Giuseppe, gli struffoli e il casatiello per tutta la famiglia. Ha vissuto nella casa che era stata dei genitori, ammodernandola e custodendovici un presepio napoletano antico, che adesso conservo io.
  37. Francesca è stato il primo amore, il primo bacio, la prima fidanzata. Cinque anni di scoperta, di desiderio, di passione. Occorrerebbe un libro soltanto per lei. Ma questa è una nota a piè di pagina, e non è possibile comprimervi un amore importante. Ho scritto di Franzi nella poesia “La notte etera effonde”, ovvero nel volume 2/2002 della rivista Passages.
  38. Martine è stata una donna speciale. L’ho conosciuta nel ’97 a Parigi, dove mi ero trasferito da qualche mese per lavorare come volontario all’Ospedale Sant’Anna. Mi ero anche iscritto all’Institut Parisien de Langue Française, dove lei insegnava. Tutti i tabù latino-moralistici erano messi alla prova. Era la mia insegnante, più vecchia di me, libera e senza intenzione di portarmi all’altare. Le ero piaciuto, le ero parso una bella persona, e in questa cornice di affinità e simpatia ero finito a casa sua, in rue Pache, vicino Place Voltaire. La casa era piccola ma bella, il letto matrimoniale dava su una finestra che guardava la strada. Mi era piaciuta la sua grazia, la sua bellezza interiore. Era delicata e sfortunata. Mi aveva detto da subito che aveva una “sclerosi laterale amiotrofica” in stato avanzato, lei che da giovane aveva fatto e avrebbe fatto la ballerina. Viveva da sola, non aveva familiari, dopo la morte del padre e della madre in Normandia, dove era nata e ogni volta ritornava, a Denneville. Siamo usciti insieme per qualche tempo, mi ha portato nel IV arrondissement, il Marais, che considerava il più affascinante di Parigi. Mi ha fatto visitare le strade, le Passage Molière, le Vieux Molière, la Maison de la Poésie, il Centre Pompidou, la Place des Vosges e la maison de Victor Hugo. Passeggiando per il Marais, mi mostrava i bar che avevano toilettes utili agli handicappati, e questa lucidità sulla propria condizione la rendeva speciale ai miei occhi. Poi il tempo è passato, io sono rientrato in Italia e mi sono allontanato da lei. Non tanto da dimenticarla però, né smettere di amarla. Per lei sono tornato a Denneville, trovandola lì, ferma, di fronte al mare, silenziosa. Le ho dedicato il poema “Il viaggio in Normandia”, nel quale ho cercato di fissare quell’incontro mancato, e quell’amore mancato (vedi “Passages”, n. 2/2002).
  39. Franca Touscoz, “piccola, afasica, vulcanica”. La donna più gentile e aggraziata della mia vita, con la quale non ho mai litigato, che sapeva prendermi, sapeva mitigare il mio malumore solo a guardarmi. E’ stata un amore profondo, al quale ho dedicato dieci anni di vita, anche se poi me ne sono separato. Resta un grande amore, vivo, nel mio cuore. Franca è una donna leale, sincera, limpida. Aveva sposato un uomo dal quale ha avuto due figli, Riccardo ed Eleonora, che ancor oggi anche io considero miei figli. Si è separata dal marito e ci siamo fidanzati nel ’99. Da allora, abbiamo vissuto insieme. Franca è stata una perla, che spero di serbare nella mia vita. Poesie dedicate a lei sono incluse nel volume La dimensione della perdita, Crocetti editore, 2016.
  40. Riccardo ed Eleonora. Dopo che io e la madre ci siamo lasciati, abbiamo attraversato un periodo in cui mi vedevo con Eleonora, la domenica, per aiutarla a studiare (era alle medie, allora), e con Riccardo per stare un pò insieme. A poco a poco, quella relazione è cresciuta, non abbiamo avuto più bisogno di pretesti per vederci, abbiamo capito che ognuno di noi sarebbe rimasto comunque nella mente dell’altro. A distanza di dodici anni, posso chiamarli e sentirli quando voglio, ed è sempre un piacere incontrarsi. Eleonora è diventata una ragazza meravigliosa. Riccardo è diventato un ragazzo intelligente e concreto, che lavora da sommelier presso una delle maggiori aziende vinicole italiane.
  41. Matteo e Giulia Benedetto sono i figli del mio amico Alfonso. Se già prima della sua morte mi erano cari, dopo ho sentito ancor più di poterli considerare dei figli. E’ come se avessi voluto tributare il giusto riconoscimento all’amicizia con Alfonso, prendendomi cura di loro. Ho cercato di stabilizzare ciò che il padre aveva fatto, di consolidare la propensione di entrambi alla verità, alla lealtà, al coraggio, all’amore per l’arte, alle radici piantate sotto casa.
  42. Altri bambini di Ascoli. Dovrei citarli tutti, ma ho preferito citare i nomi di quelli che mi sono stati più vicini, negli anni della infanzia ascolana. Questi bambini hanno rappresentato un girotondo con cui ho scoperto il mondo. Mi hanno avvicinato alla scoperta della vita come nessun istitutore avrebbe fatto. Ognuno di essi ha contribuito a strutturare in me quella spinta a modificare l’oggetto, giocandoci insieme. In fondo, i giochi senza frontiere che organizzavamo ad Ascoli, rappresentano più di una metafora, erano la verità della nostra infanzia.
  43. Bambini di Roisan: direi le stesse cose che ho detto dei bambini di Ascoli, traslandole su mia figlia Elène e sull’età che mi sono trovato ad avere quando li ho frequentati.
  44. Mio padre, Ubaldo. E’ impossibile parlare di un padre in un nota a margine. Non lo farò pertanto, ma qualche foto è necessaria. Mio padre è stato il terzo genito di sei figli. E’ nato in una famiglia in cui a dominare era sua madre, nonna Luigia, donna austera e inamovibile, al contrario del nonno Vincenzo, più morbido ed affabile. E’ nato in un tempo e in un Paese che non aveva molto da offrire, e che pure l’ha annoverato tra le persone eminenti e stimate. C’era il Liceo classico, ad Ascoli, negli anni ’40, e lui era stato uno dei sette ragazzi che lo aveva frequentato, apprendendo il latino e il greco, e in generale l’amore per la cultura che poi avrebbe trasmesso ai figli. Era un disegnatore formidabile: in terza media aveva vinto un premio per aver disegnato a matita una crocifissione su carta pergamena (che ancora conservo). A vent’anni aveva preso con sé la famiglia e come dieci altri milioni di meridionali era emigrato, a Napoli, per trovare maggiore fortuna. L’aveva trovata, la fortuna: un lavoro retribuito nella casa farmaceutica Ravizza, e una donna meravigliosa, mia madre, che l’avrebbe “acquisito” con tutta la sua famiglia, che già lavorava alla Standa e che peraltro aveva una casa di proprietà. Si sono sposati nel luglio del ’64, ed è cominciata la loro vita coniugale. Di lui ho parlato specificamente nel poema In nome del padre
  45. Mia madre, Lucia, una donna meravigliosa, bella, solare, vera. C’è una foto in bianco e nero degli anni ’60 che la rappresenta al meglio: è seduta su un muretto, lo sguardo rivolto al sole. Ha un tailleur e una fascia sui capelli. Sorride, di un sorriso che è apertura sul mondo e l’amore. Gli occhi bellissimi, da diva americana. Si era innamorata di mio padre e della sua cultura, voleva avere semplicemente avere una famiglia fondata sul bene, sulla scoperta del mondo, e s’è trovata in una guerra molto dura. Ci ha messo 30 anni per ritrovare il posto che le spettava in casa sua, per riconoscere che nel cuore dei figli non l’aveva mai perso, quel posto: il posto e il ruolo della donna che ci ha insegnato ad amare, a rispettare gli altri, ad accogliere in casa chiunque volesse o avesse bisogno, a donare molta parte delle proprie sostanze a chiunque volesse o avesse bisogno. Questi tratti, la generosità e l’ospitalità, non li ho visti in nessun altra donna. Ho parlato di lei nel poema Giorni di Luce
  46. Mi sono ispirato alla mia famiglia nei poemi del volune It Was, La Vita Felice, Milano, 2017.
  47. La Repubblica e Le Monde Diplomatique. Repubblica è entrata a casa nostra sin dal primo numero, il 14 gennaio del 1976. Mio padre e mia madre erano cultori appassionati delle sue firme, sicché ogni giorni abbiamo letto il mondo attraverso gli occhi di questo quotidiano egualitario, intelligente, colto, votato alla costruzione di un mondo più giusto e più equo. Lo stesso posso dire per Le Monde Diplomatique, che ho cominciato a leggere in francese nel 1997, quando ero a Grenoble, e poi ho continuato a leggere per le sue firme, le sue lotte a favore degli immigrati, le sua battaglie finalizzate a svelare l’ipocrisia e la corruzione del potere degli Stati Occidentali, a partire da quello francese…
  48. Zia carla e zia Mema. Per 30 anni non è stato possibile evocare l’una senza l’altra. Due sorelle indivisibili, la mano destra e la sinistra di uno stesso corpo. Bella, affascinante, dal piede perfetto che faceva da metro di misura di scarpe perfette. Zia Carla lavorava alla Mira Lanza, era quella che guadagnava qualche soldo, che aveva comperato la FIAT 500 (di cui ho ampiamente parlato nel libro FIAT 500. A love story, Amazon Publishing). Era la zia che osava viaggiare, andare in vacanza, rubare le angurie e le spighe di mais mei campi del tavoliere, farmi guidare in direzione di Margherita quando avevo soltanto tredici anni. Mi amava a prescindere, come anche zia Mema, la più forte, la più combattiva, la più concreta. Zia Carla ricamava e cucinava, zia Mema sparecchiava e lavava; zia Carla disegnava e dipingeva, zia Mema puliva e rassettava. Erano le due metà di Gige, tagliate dalla lama di Zeus soltanto quando, nel 2009, zia Carla è morta. Era stata colpita dal morbo di Parkinson già 15 anni prima, e progressivamente si era trasformata in una statua silenziosa. Ne ho parlato nei poemi di It Was (La vita felice, Milano, 2017).
  49. Zio Cosimo è stato l’outsider della famiglia Lamartora. Mio padre diceva di lui che era sempre stato il fratello scapestrato. E in effetti, l’ho sempre vissuto come un anticonformista, libero, allegro, tombeur de femmes; aveva macchine bellissime, guadagnava bene sin dagli anni ’60, essendo un agente del SISMI e facendo, come lavoro di copertura, l’assicuratore per la Vittoria. La sua casa in Via Alessandria 192 per me è stata una casa di vacanza: tutte le volte che ci ho messo piede mi sono sentito altro e altrove. Era gioviale. Amava sdrammatizzare, fumava come un turco, non aveva alcuna paura della morte e quando ha saputo di avere un cancro metastatico ai polmoni non ha battuto ciglio! Aveva sposato negli anni ’70 zia Letizia, una donna estrosa e bizzarra di Scandriglia, dove aveva una seconda casa, con una enorme piccionaia e un duplice livello di giardino: ricordo gli alberi di cachi, bellissimi. In quella casa regnava un camino ampio e antico. Da piccolo, mi ci addormentavo di fronte, guardando la Cittadella e I Miserabili con Alberto Lupo. All’ingresso, una specie di grotta serviva da fungaia; un prosciutto crudo stava lì a disposizione dei visitatori. Zio Cosimo è stato un padre allegro, quello che ti permette di far tutto, che approva ogni fanfaronata. La casa di zio Cosimo è stata la casa del piacere. Giochi, sorprese, fidanzate, feste natalizie. Come dimenticarlo.
  50. Zia Mema è stata la regina madre della famiglia. Ho parlato di lei in “Altera Mater” (in: It Was, La vita felice, Milano, 2017). E’ stata il parossismo del bene e del male, della passività e della sopraffazione. Ha avuto una madre che lucidamente ha scelto lei, in quanto primogenita di 6 figli, come bastone della vecchiaia per sé e per tutti i fratelli. Ciò significava essere votate sin da piccole a uccidere l’amore fuori e dentro di sé, ad annientare il desiderio, proprio e altrui. Così è stato. E’ rimasta la zitella, il nume tutelare della famiglia, quella che, non essendosi mai innamorata, ha dovuto invidiare e odiare tutte le donne dei suoi fratelli, Dino, Cosimo e Ubaldo. Avendo mio padre deciso di portarsi tutta la famiglia appresso, nel ’52, a Napoli, zia Mema ha immediatamente trovato in mia madre la femmina da combattere, alla quale contendere il maschio di casa, i soldi di casa e i figli di casa. Ne è nata una guerra che ha visto tutti sconfitti. E’ stata anche la donna che mi ha amato a prescindere da ciò che facevo. In quanto primogenito del suo amato fratello Ubaldo, si è prodigata in ogni modo per soggiornare nella mia mente. Un giorno, in quarta elementare, un bambino mi aveva rubato il pallone, e io gli avevo tirato una pietra in testa, ferendolo a sangue. La maestra mi aveva sanzionato, chiedendo agli altri bambini di non rivolgermi più la parola, e aveva avvertito mio padre dell’accaduto. Zia Mema è venuta fuori scuola con la sorella Carla e una borsa a corde di nylon. Ha aspettato che la madre di Aldo (il bambino ferito) uscisse da scuola e l’ha colpita con la borsa, intimandole di non farmi più male! Eppure, nonostante la violenza e i torti, zia Mema è stata una bambina dolente, capace di far passare la sua dolcezza e il suo essere a completo servizio di chiunque l’avesse riconosciuta e accolta. E’ stata la memoria della famiglia, quella che ha costruito la casa in cui villeggiamo, la tomba che ci accoglierà.
  51. Rita Glesaz. All’inizio era la suocera. Faceva da chioccia a sua figlia Chiara, alla quale chiedeva implicitamente di restare ad Aosta per fare l’infermiera, negandone l’inclinazione ad andare altrove e fare altro, per esempio l’analista. Poi l’ho trascinata a Roma. C’è rimasta 12 anni, si è laureata in filosofia magistrale e poi in psicologia magistrale. A quel punto Rita è diventata un appoggio per la figlia – nel momento in cui questa è diventata madre – e poi una donna fragile, che si è ammalata e ha dovuto affidarsi a sua figlia e a me. Questa condizione ha fatto scemare i lati più duri ed emergere quelli migliori, più gentili, più dolci, più riconoscenti, più flessibili. Ha potuto trovare in sé queste cose buone, ha potuto trovare in me un uomo su cui contare, e io ho potuto riconoscere tutto ciò. Abbiamo imparato ad amarci a vicenda, nel tempo.
  52. Jean Jacques Rousseau. Ho amato quest’uomo come un fratello. L’ho letto da adolescente, riconoscendo nelle sue Confessioni qualcosa che preannunciava l’infelicità che anch’io avrei vissuto. Di Rousseau ho amato la lotta per riconoscere agli individui i loro diritti, ma anche la sua fragilità. Lui che aveva amato gli uomini più di chiunque altro, proprio lui ne era stato deluso, profondamente. Le passeggiate al Bois de Boulogne parlano di questa delusione. Ho dialogato con Jean Jacques moltissime volte. E’ stato un amico invisibile e presente. Quando l’ho visto nel Pantheon, a Parigi, mi sono commosso.
  53. Imnanuel Kant. E’ stato il filosofo più amato da noi liceali, il più studiato. Basti pensare che ho letto la Critica della Ragion Pura e quella della Ragion Pratica direttamente dal testo tedesco, e acquistato una decine di monografie su di lui, perché volevo conoscerlo a fondo. Ne ricordo una, quella di Piero Martinetti, della Laterza, che iniziava parlando del suo originario cognome, scritto con la C e non con la K, come poi è avvenuto. Ricordo anche le infinite discussioni con gli amici, se lui fosse più illuminista o romantico. Kant è stato un borderline che ha adottato, per formazione reattiva, una corazza difensiva ossessiva al fine di frenare le sue passioni, diventando colui sulle cui passeggiate a Koenisberg le persone regolavano l’orologio.
  54. Karl Marx. Ho portato i suoi Scritti economico filosofici del ’44 come testo per l’esame di maturità, in inglese. Marx è stato la bandiera più sventolata del Novecento, da tutti i giovani di un secolo che ha sognato a lungo rivoluzione ed equità.
  55. Michel Foucault: il padre della antipsichiatria, quello che per primo e meglio di tutti ha denunciato come la follia sia una necessità sociale, per isolare, controllare e punire le pulsioni sessuali e creative. Ho letto tutto di lui.
  56. David Cooper. La morte della famiglia, è stato uno dei libri che ho letto più spesso. In quel libro ho ritrovato i meccanismi di castrazione tipici della mia famiglia e di tutte le famiglie (fino alla fine del Millennio).
  57. Herbert Marcuse. Tutti gli studenti che ho conosciuto al Liceo avevano letto L’uomo a una dimensione. E se non l’avevano letto, restavano isolati, esclusi dall’intellighenzia della scuola. Per essere un uomo al passo dei tempi dovevi aver letto questo libro che ha cambiato la faccia delle società, svelando come il capitalismo avrebbe ridotto l’uomo a un consumatore passivo e controllato.
  58. Eric Fromm. Ho letto L’arte di amare e Avere o Essere dieci volte. Sono stati tra i libri migliori del tempo, quelli che dovevi aver letto per capire cosa stava cambiando nel mondo. Fromm ha interpretato e in larga parte anticipato dove arriverà l’umanità quando avrà abbandonato la posizione fallocentrica attuale, e compreso il significato biologico e antropologico del sesso, disgiungendolo dalla procreazione e della relazione d’amore. Quando il sesso sarà libero di essere soddisfatto in qualunque modo produca gioia, la relazione d’amore sarà fondata su affinità elettive, su una base affettiva che trascende e ingloba il piacere. Fromm ha utopizzato questo tipo di società futura nel capitolo finale di Avere o Essere.
  59. Emil Cioran. L’inconveniente di essere nati, Sommario di decomposizione. La tentazione di esistere, eccetera. Non c’è una sola riflessione di Cioran che non abbia sentito mia e non abbia amato. “Quello che so a sessant’anni lo sapevo altrettanto bene a venti. Quarant’anni di un lungo, superfluo lavoro di verifica”!!! Che immagine sublime dell’inutilità della coscienza!
  60. Vladimir Janckelevitch. Appena mi sono trovato a Parigi, nel 1997, sono andato sull’Ile de Saint Luis a casa sua. L’ho amato come Cioran, e per le stesse ragioni. Ha illuminato l’assurdità della vita. D’altro canto, anche io ero candidato all’infelicità, avendo accettato di essere il calco dei desideri di mio padre, senza peraltro riuscire a uccidere me stesso.
  61. Edmondo De Amicis: Cuore, Traves, 1886
  62. Johann Wolfgang Goethe: I dolori del giovane Werther, Feltrinelli, 1981.
  63. Enrico Bignone: Storia della letteratura latina, 3 voll. Florez, 1940-50
  64. Ugo Enrico Paoli: I Carmi di Orazio, Le Monnier, XIV edizione
  65. Ettore Paratore: Virgilio, Sansoni editore, 1961
  66. Gianfranco Contini: Una lunga fedeltà, Einaudi, 1948
  67. Walter Binni: Poetica, critica e storia letteraria, Laterza, 1980
  68. Mario Fubini: Critica e Poesia, Bonacci, 1973
  69. Hans George Gadamer: Chi sono io, chi sei tu. Saggio su Paul Celan, Marietti, 1989
  70. Roland Barthes: Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi.
  71. Werner Jaeger: Paideia, 3 voll. La Nuova Italia, 1978.
  72. Raffaele Cantarella, Storia della letteratura greca, 3 voll., Sansoni editore;
  73. Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi.
  74. Augusto Rostagni: Virgilio minore, Chiantore, 1944.
  75. Epicuro: Lettere, BUR, 1994.
  76. Peter Weiss: L’Istruttoria, Einaudi, 1967.
  77. Stefano Andreoli, Storia delle violazioni del setting analitico agli albori della disciplina, http://www.dottstefanoandreoli.it
  78. Renato Caccioppoli: vedi: Morte di un matematico napoletano, film di Mario Martone.
  79. Arthur Adamov: La Confessione. Ho cercato e trovato da un antiquario una copia della prima edizione, pubblicata da Le sagittaire, nel 1946. Questo libro mi ha cambiato, ha dato parola a ciò che io stesso avevo fin lì fatto e pensato. Averi potuto scriverla io, La Confessione, per larga parte. Roberto Trifirò l’ha portata in scena nel maggio del 2008 al teatro Out Off di Milano.
  80. Antonin Artaud: Il teatro della crudeltà, Il teatro e il suo doppio, Il suicidato della società (su Van Gogh): sono stati testi di formazione per me.
  81. Cesare Pavese: i Dialoghi con Leucò, La luna e i Falò e, soprattutto, La bella estate sono stati per me così coinvolgenti che ho utilizzato lo stesso titolo per una delle mie poesie più importanti: “La bella estate” (in: La dimensione della perdita, Crocetti, Milano 2015).
  82. Sarah Kane. 4:48 psychosis. Una donna stupenda si uccide impiccandosi con i lacci delle scarpe, dopo cinque libri. E si uccide per il suo tormento d’amore: “A volte mi giro e sento il tuo odore, e non posso muovermi, non posso andare avanti senza esprimere questa temibile fottuta schifosa brama che provo per te. E non posso credere di sentire questo per te, mentre tu non provi niente”. Sarah Kane è stata un’icona della disperazione amorosa, come Esenin, come Majakovskj, come quei pochi illustri dannati della storia umana che mi hanno affascitato.
  83. Ho scoperto Esenin attraverso la canzone di Angelo Branduardi, Confessioni di un malandrino. Di lì in poi, tutte le poesie, tutte le storie che ha inventato su se stesso, tutte le numerose relazioni frammentarie che ha avuto, e che me lo hanno affratellato.
  84. Ero in Accademia Silvio d’Amico quando un giorno Andrea Camilleri – che vi insegnava regia teatrale – tenne una lezione sul Flauto di Vertebre. Ho scoperto così Majakovskj e le sue pene, le sue poesie. E poi l’ho inseguito in tutti i teatri che ho potuto, in tutte le edizioni che ho trovato.
  85. Ludwig van Beethoven. Ho acquistato il cofanetto delle sinfonie di Beethoven, dirette da Herbert von Karajan, nel 1980, quando mio padre comperò il giradischi della Scott che ancora posseggo. Ascoltare Beethoven, dopo aver suonato il pianoforte per 15 anni avendo imparato le sue arie più celebri, fu una sensazionale scoperta.
  86. Dimitri Shostakovich. A nove anni, mia figlia Elène ha interpretato il Cello Concerto n. 1, sognando a occhi chiusi di diventare brava quanto Sol Gabetta.
  87. Zoltan Kodaly. A dieci anni, Elène ha interpretato la Sonata n. 8 per violoncello, sorprendendo il suo eccellente maestro Francesco Storino.
  88. Ho scoperto la bellezza del flamenco nel 2007, durante una gita in Andalusia con Franca Touscoz. Abbiamo visitato Siviglia, Cordova, Granada e Malaga. A Siviglia siamo finiti in uno di quei locali tipici in cui stai seduto a un tavolino, bevendo qualcosa, e ammiri i ballerini di flamenco, mentre il chitarrista suona e canta. Vicente Amigo, fra i tanti musicisti di Flamenco, è quello che mi ha più colpito, per la profondità del silenzio che riesce a musicare nei suoi pezzi.
  89. Marco Messina è uno dei maestri migliori del metodo Suzuki (un metodo di apprendimento della musica destinato a bambini in età prescolare, che permette di imparare a suonare uno strumento ancor prima di saper leggere le note). Sua figlia Arianna è ancora l’insegnante di solfeggio di Elène.
  90. Gibson. A love story, Amazon publishing, è un libro privato, che non ha nessuna intenzione letteraria. L’ho scritto per ricordare la passione folle che ho avuto per la chitarra elettrica, e per questa in particolare, per il suo suono. La storia della Gibson ha incrociato quella dell’adolescenza e della nostra prima band, che aveva Pino alla batteria, Mauro alle tastiere, Gino alla chitarra elettrica, Enzo alla chitarra folk, e me alla chitarra Eko 12 corde.
  91. Pianoforte Scholze e Yamaha. Il pianoforte Scholze è quello che mio padre acquistò da Napolitano pianoforti a San Pietro a Maiella 220, nel 1970. Ero destinato a imparare la musica, e il piano era un oggetto obbligatorio. Ce l’ho ancora, ci suoniamo ancora, io, mia figlia e tanti altri avventori…
  92. Vedi: Gibson, a love story. Amazon publishing.
  93. Vedi: FIAT 500. A love story, Amazon publishing (uno dei libri di memorie private, senza pretese letterarie).
  94. ibidem
  95. Il sabato sera era il giorno dell’amore. Scendevo di casa imbellettato e profumato. Verso le 17 passavo a prendere Franzi, e partivamo per Baia Murena, dove lei aveva la sua casa di vacanza. Ci chiudevamo nella camera da letto fino a sera. Avevo una passione irrefrenabile per lei. D’altronde, avevo venti anni!
  96. Casa di Via Marco Aurelio Severino, 30. Un giorno scriverò un libro di memorie sulle mie case. Qui, basti dire che la casa di via Marco Aurelio Severino 30 è la stessa che mia madre acquistò con la dote che le aveva lasciato sua madre, la stessa nella quale ha sposato mio padre, la stessa nella quale ancora vivo. pdf della piantina.
  97. Casa di Via Alessandria 192: valga quanto considerato per la casa di via Marco Aurelio Severino, a Napoli. pdf della piantina.
  98. Casa di Via Torre Vecchia 15. La casa di Ascoli è la casa d’infanzia, la casa dell’estate. Noi l’abbiamo sempre frequentata, poiché mio padre e le sorelle ci tornavano tutti i week. Sicché, malgrado la disapprovazione di mia madre, si partiva nella FIAT 1100, o nella Mirafiori e si andava ad Ascoli il venerdì pomeriggio, per poi tornare la domenica a Napoli. Ascoli non è stato solo il luogo di vacanza, è stata l’altra metà della nostra vita, della nostra famiglia, di Napoli. Parlo correntemente i due dialetti, quello napoletano e quello ascolano. Sono stato un cittadino di Ascoli, inserito nella sua vita sociale e culturale. Lì, ho avuto anche una vigna, un paradiso di uliveti secolari inframezzati da alberi da frutto: noci, mandorli, noccioli, fichi, peri, meli, gelsi, prugni rossi e gialli, albicocchi, cibi di paradiso, melograni, cotogni. C’era anche una casuccia di pietra, con un camino su cui si faceva bruschettare il pane, nella stagione di San Martino, quando si raccolgono le olive: una vera leccornia. All’ingresso c’era un otre di terracotta da 100 litri, chiamata “sarola”, che veniva rifornita di acqua potabile con i bidoni. A quel tempo, in paese si svolgevano ancora i riti agresti: quello della vendemmia, con la sfilata di carri per le vie, quello della raccolta del grano, con altrettanta sfilata di carri, quello della raccolta delle ulive, con la processione di muli verso il frantoio comunale, quello delle noci o delle mandorle, con tutte le famiglie in cerchio a sbucciarle, quello della raccolta e preparazione dei fichi secchi con le mandorle, quello della raccolta delle cotogne, che poi venivano infilate e appese al soffitto, come anche i peperoncini, i pomodori, eccetera. Di fronte alla casuccia c’era un gazebo ornato di uvaspina, nel quale ci si appisolava dopo pranzo. Di lato, sul fianco della casa, c’era una cambusa, nella quale un tempo ci si conservavano derrate alimentari. Ascoli è stato il luogo dell’infanzia, del gioco, della spensieratezza. Ad Ascoli, d’altronde, zia Mema fece costruire nel 1973 anche la nostra tomba di famiglia, e tutti i giorni della vita l’ha onorata, andandoci a pregare per i nostri morti. E’ la casa di noi tutti. Pdf della planimetria della casa di Ascoli.
  99. Casa di via XXVI Febbraio. La casa di via XXVI Febbraio è stata la prima casa che ho preso in affitto ad Aosta, quando ci sono ritornato l’8 marzo ’99, andandoci ad abitare insieme al mio amico Marco Foretier. Pdf piantina. E’ stata la casa dell’inizio, quando tutto pareva creativo. Avevo fatto colorare le pareti di arancio e blu elettrico. Nella mia stanza avevo costruito una struttura in ferro tubolare. Ne era venuto fuori un baldacchino soprelevato, al quale si accedeva per una scala in ferro. Il soffitto l’avevo coperto con una seta blu, stellata, per evocare il cielo stellato sopra di me. Sotto il letto, un antro moquettato, colorato, con due puffi, nel quale stazionava un tavolino di legno: ci accoglievo Eleonora e Riccardo, per giocarci o leggere. Di lato, in un angolo della stanza, avevo piazzato una postazione tavolo-computer su cui ho impaginato tutti i primi numeri di Passages: questa postazione era fasciata da un’enorme bandiera del PCI, firmata da Enrico Berlinguer, che cadeva dall’alto come un sipario. Al centro della stanza, avevo costruito un tavolo a forma di cuore, spaccato al centro e colorato di rosso e nero. Quando si cenava, i commensali si sedevano attorno al tavolo, nel cui centro veniva posta una piantana di luce soffusa, che rievocava l’atmosfera del Boudoir. In cucina, avevamo costruito un letto matrimoniale, con un sistema di carrucole, che di giorno veniva sollevato al soffitto e di sera veniva calato a terra, permettendo cosi a un nostro amico e ai suoi due figli di trovare un posto per la notte, visto che erano stati buttati fuori casa! Insomma, la casa di XXVI febbraio è stata la casa di Passages, in cui abbiamo concepito e realizzato tutti i numeri dei primi tre anni di rivista, e nella quale c’era un via vai di amici e un’atmosfera di festa.
  100. Casa di Via Festaz. La casa di Via Festaz è la casa che ho preso in affitto quando ho capito che mia zia Carla non avrebbe più potuto stare da sola con zia Mema ad Ascoli, dato il peggiorare del suo Parkinson. Allora, ho scelto una casa centrale, posizionata sopra il Carrefour, in modo che tutto fosse a portata di mano. E’ stata una casa poetica. Un salone con angolo cucina e una camera da letto, nella quale dormivano mio padre e mia madre. Nel salone invece ci dormivamo zia Carla, zia Mema ed io. Le sere erano belle, una famiglia finalmente riunita e pacificata dalla malattia, dalla consapevolezza di non avere più tempo. Una casa sulla quale la morte aleggiava come una signora elegante. In essa, zia Carla una mattina di novembre si è spenta. Dopodiché, è toccato a zio Cosimo, visto che intanto s’era ammalato di tumore polmonare. L’avevo portato con me ad Aosta per tenermelo vicino e poterlo seguire con cura. Zio Cosimo è stato un uomo coerente e consapevole. Ha vissuto tutto ciò che poteva della vita, senza mai temere la morte. E’ andato via velocemente, in pochi mesi, il 24 marzo 2010. Nel luglio dello stesso anno, mio padre ha scoperto di avere un tumore vescicale di grandi dimensioni. E’ stato ricoverato e operato a Milano, nella clinica Santa Rita, gli è stata tolta la vescica e creata una ureterostomia addominale bilaterale. Sono passati mesi difficili, dovevo pulire la ferita e prevenire le infezioni. La situazione è peggiorata rapidamente, fino a quando nel mese di gennaio è sopraggiunta un’occlusione intestinale. Papà è morto il 2 febbraio 2011, ascoltandomi parlare di una figlia che di lì a poco sarebbe nata. Eppure, anche nei mesi in cui era fiaccato dai tubi e dalle piaghe, siamo riusciti a viaggiare per l’Italia, da Aosta a Ascoli, da Aosta a Annecy. E’ stato un privilegio per me avere in casa tutti i miei cari, e curarmene fino all’ultimo respiro.
  101. Tugurio all’Amérique. Il Tugurio all’Amerique, come lo chiamavano tutti, era un appartamentino in Regione Amérique, a Quart, ricavato dall’ex albergo Fey, sicché ognuno dei suoi moduli abitativi era un monolocale con stanza-cucina a scomparsa, oltre al bagno. Entravi, nel corridoio di ingresso, sulla sinistra si apriva il bagnetto. Alla fine del corridoio trovavi la stanza, che su una parete aveva una bella cucina a scomparsa, di fronte aveva la finestra che dava sullo spiazzo dell’albergo, a destra avevi il letto matrimoniale e di fronte un tavolo per pranzare o studiare. Il Tugurio era abitato da poveri e tossici, ma io ci stavo bene: non ho mai amato i palazzi nobiliari e spenti, mi sono sempre piaciute invece le aree popolari, con tutta la loro vita e le loro contraddizioni. In quel tugurio avevo con me la Gibson diavoletto, che strimpellavo continuamente. Passavo le sere aspettando un amore che non sarebbe più tornato. Vi sono rimasto per due anni, mangiando a pranzo e a cena una mezza baguette, una scatoletta di tonno, una busta di songino e un calice di Fontanafredda. Poi televisore, chitarra e nostalgia.
  102. Tomba di famiglia ad Ascoli. Pdf della piantina. La tomba di Ascoli è come un ipogeo. Sul tetto v’è installato un pannello fotovoltaico, per avere corrente a 220 V. Dentro, vi è allestito un salottino, con due poltroncine e un tavolino di cristallo sul quale è sistemata una cornice digitale. Quando il visitatore arriva, la cornice ne percepisce il movimento, si accende e sul desk mostra i diversi folders, corrispondenti a ciascuno dei defunti. Cliccandoci sopra, si attiva un cortometraggio di cinque minuti, nel quale puoi vedere foto e scene salienti del defunto che sei andato a trovare. Finito il corto, puoi sederti ancora un pò, e poi andartene. Fino alla prossima visita.
  103. I salesiani Don Bosco sono sistemati sulla Doganella, la grande arteria collinare che i Re Napoletani del ‘700 fecero costruire per accedere in modo stupefacente a Napoli; la collina fu sbancata e in essa fu ricavata l’arteria. Percorrendola, a sinistra vedi il panorama di Napoli, la sua skyline, il mare, il Vesuvio. La strada sfocia in piazza Carlo III. L’omonimo Re angioino vi ci aveva fatto costruire l’Ospizio dei Poveri, una struttura disegnata dall’architetto Ferdinando Fuga, e destinata a qualificare paesaggisticamente l’area, ad accogliere i poveri e gli emarginati della città, realizzando in tal modo il miglior esperimento di inclusione sociale della storia umana. L’ospizio ha funzionato per due secoli ed è stato centro propulsore della vita di Napoli. Dopo l’Ospizio, il Re aveva fatto costruire l’Orto Botanico, dalle stesse fattezze. Sicché via Foria diventava il naturale prolungamento della Doganella e portava fino a Piazza Cavour, dov’è oggi il Museo nazionale della Magna Grecia (Rocco Civitelli, Via Foria. Un itinerario napoletano. Dante e Descartes, 2016). Ebbene, i Salesiani avevano costruito questa bellissima scuola media proprio sulla Doganella. Una scuola modello, che aveva campi di calcio, di atletica, di basket, di pallavolo, aree di passeggio, un teatro, una sala cinematografica, una boulangerie interna nella quale noi acquistavamo per 50 lire la nostra merenda, una rosetta con tre fette di salame milanese. Don Antonio, il gestore, era chirurgico nel preparare i panini, tutti uguali! I Salesiani sono stati maestri di educazione e di inclusione: la mia classe era composta da 30 alunni, di cui tre soltanto (io, Enzo e Raffaele) a piede libero, gli altri 27 venivano dall’Ospizio dei poveri, dov’erano alloggiati e venivano riportati alla fine delle lezioni. La classe era a dir poco effervescente: lotte, parolacce, episodi di bullismo, eccetera: il tutto però nel solco di una vita da ragazzi di strada che sarebbero stati educati comunque alla convivenza. I Salesiani ci hanno resi uomini capaci di giocare insieme, di trovare il buono nell’altro.
  104. Quella del tennis ad Ascoli è stata un’epopea. L’ho raccontata nel libro: Maxima, a love story, Amazon publishing (uno dei libri di memorie private, senza pretese letterarie).
  105. Anche ad Ascoli, d’estate, si svolgeva la Festa dell’Unità, con tutto il suo corredo di comizi, concerti e stand gastronomici che sfornavano in continuo panini e salsicce. Il loro profumo era ineguagliato, la nostra fame era commisurata a tanta bontà. La chicca delle feste erano le belle ragazze, che si fasciavano di jeans bianchi, mettendo in risalto il fondoschiena.
  106. Ho cominciato a cercare casa in VDA nel 2008. Ciò che volevo non era una casa ma un giardino, una specie di vivaio Heisenhut, un hortus inclusus in cui replicare il fascino misterioso del vivaio che avevo amato in Svizzera. Quella per le magnolie è stata una delle mie passioni. Ne ho studiati di libri! Ne ho visitati vivai: Davide Picchi e Danilo Bonacci, a Pistoia, il Castello di Masino, Il vivaio Peraga, il Garden Mercenasco e tanti altri. A un certo punto, le magnolie erano diventate un’ossessione. Volevo una casa immersa nel verde per realizzarci un sentiero olfattivo, puntellato da piante odorifere. Così, dopo molte peregrinazioni, mi imbattei in questa villa a tre piani a Roisan, che era abitata da un’insegnante che aveva prestato servizio in un scuola steineriana a Chatillon. Costei viveva di stenti, e aveva trasformato quella casa in una grotta di Betlemme, con stuoie, bolliture fumanti, treppiedi ricolmi di brace per scaldare. Quando l’ho vista, forse per la lunga frequentazione alla poesia di Ritsos, i miei occhi percepirono una casa povera, ma la mia immaginazione se la prospettò come sarebbe diventata… una meravigliosa villa aperta su quattro lati, disposta su tre piani, in modo da tenere insieme tre famiglie, mescolando fiori e psicoanalisi, cultura e arte, mondanità e sogno. Nel giardino, disposto su tre livelli digradanti verso il fondo valle, vi sono 450 piante! Link a erbolario
  107. Roma: zio Cosimo, zia Letizia, la scoperta dei profumi: vedi il mio libro Parfums. A love story. Amazon Publishing.
  108. Arnaldo Novelletto (wikipedia) è stato uno dei migliori analisti del Novecento. Allievo di Tommaso Senise, ha fondato la psicoanalisi della adolescenza in Italia, e la ARPAD a Roma. Ho cominciato l’analisi con lui nel ’99, un’analisi personale. E’ stato un percorso sui generis, pieno di agiti e contro agiti. Un’analisi in cui, ai ruoli definiti paziente analista, si sono sovrapposti quelli di padre figlio, o amico-amico. Mi ci ero affezionato. Oltre che l’analista, in lui apprezzavo l’uomo che aveva vissuto molto, e aveva molta esperienza. Mi chiedeva di “crescere in fretta”, perché aveva “poco tempo di vita”. E aveva ragione sulle sue premonizioni: quel giovedì 30 gennaio l’ho lasciato alle 19.00, e la notte stessa è morto di ictus cerebrale. Sono stato l’ultimo suo paziente. Ho scritto di lui nel numero di Passages 2/2006. Link al numero
  109. Parigi e Martine: vedi nota 38.
  110. Marrakesh e il Marocco sono stati una suggestione provenuta da lontano. Zio Cosimo aveva avuto, per ragioni di lavoro, frequentazioni continue con il mondo dell’ambasciata marocchina a Roma, era stato anche “fidanzato” con diversi “cioccolatini” maghrebini (come li chiamava lui). Pertanto, andare in Marocco era una scelta obbligata. Ci sono stato una prima volta con Franca, ed è stata una scoperta fantastica, che mi ha introdotto nel mondo misterioso e onirico di quella terra. Ci sono ritornato con Calin, Amelia e Chiara, in una gita memorabile nella quale abbiamo recitato la parte di Bogart e Bergman in Casablanca. Poi ci sono ritornato ancora nel 2008, con Gregorio Salis, ed è stata la volta in cui abbiamo attraversato l’Altàs in macchina, di notte, a 100 all’ora e ci siamo spinti a esplorare anche la città di Meknès e le Gorges du Todra, bellissime, in cui sembra di toccare con la mano un cielo stellato mai visto.
  111. Del Marocco, Place Jemaa-El-Fna è il cuore simbolico. Posta all’ingresso della medina di Marrakesh, la piazza, secondo la definizione di Juan Goytolsolo che vi ci era trasferito, è il “patrimonio orale dell’umanità”, a buon ragione, poiché rimane l’unico posto al mondo in cui si mangia insieme a tanti altri sconosciuti, servendosi con le mani. Ho scritto di Place Jemaa-El-Fna nel numero 2/2002 di Passages. Link al numero.
  112. Sparta è il cuore della Grecia. Se è inutile dividersi su quale tra Atene e Sparta sia la migliore città (da quale punto di vista, d’altronde?), non c’è dubbio che l’ethos spartano, l’educazione alla sofferenza, alla privazione, alla separazione della madre e il padre ha reso Sparta l’esercito della Grecia, o per lo meno la conditio sine qua non per l’esistenza stessa della Grecia in quanto Paese differente per storia, cultura e religione dal mondo arabo. E’ infatti il sacrificio dei 300 spartiati, capeggiati da Leonida, a provocare l’unione delle città-stato della Grecia che porterà alle vittorie successive sui Persiani a Maratona e Salamina. Sparta è questo retroterra, che va tenuto presente quando pensiamo alla sua donna più bella, la più celebrata nei secoli, Elène, la mitica ragazza che ha sedotto il re ateniese Teseo, il re miceneo Menelao, il principe troiano Paride; quella che si fa rapire due volte, scatena una guerra decennale fra achei e troiani, un chiasma tra la storia fondativa della Grecia e quella di Roma. Rimando chi sia interessato a conoscere meglio quel periodo della storia micenea, o la figura di Elène di Sparta, ai libri citati nella nota 168.
  113. Non potrò mai raccontare o evocare cosa significhi per me il mare di Margherita di Savoia. Posto al piede del promontorio garganico, il Comune di Margherita è innanzitutto celebre per le saline, diventate patrimonio universale dell’Umanità. Queste saline sono state tra le più famose in Italia: da esse, si è estratto sale da cucina per oltre un secolo. Alla salinità delle acque, d’altronde, è correlata la nascita delle Terme, conosciute e frequentate da cent’anni. La caratteristica di Margherita è l’estensione del suo litorale: oltre dieci kilometri di spiaggia profondissima e pulita, tanto che per dieci anni consecutivi, dal 2013 al 2022 è stata premiata con la Bandiera Blu. Margherita ha una storia antica per la nostra famiglia. Negli anni Settanta, il Comune di Ascoli fece una convenzione con uno dei primi lidi del Comune, lido Haiti, in base alla quale un pullman partiva da Ascoli alle 7.00 del mattino e arrivava al Lido alle 08.30, per poi ritornare ad Ascoli verso le 17.00. Grazie a questa convenzione, gli ascolani cominciarono a conoscere ed apprezzare il mare di Margherita. In realtà, quella spiaggia ci piaceva poiché il suo gestore, un comandante dei Vigili Urbani, conosceva i miei parenti e ci trattava con riguardo. Inoltre, mio padre odiava il mare e la sabbia, passava tutto il tempo al bar, sicché per lui poter pranzare seduto a tavola con tutto l’armamentario di primi e contorni era l’ideale. Noialtri, invece, stazionavamo sotto l’ombrello a quaranta gradi, banchettando sul tavolino pieghevole e le sedie di tela, con paste, lasagne e parmigiane di melanzana portate da casa. La vita d’infanzia a Margherita è stata una di quelle foto color seppia in cui un’intera famiglia ritrova la pace e la serenità, potendosi distendere al sole senza fare altro. Anche in quei frangenti, comunque, la mia famiglia riusciva a spaccarsi: mia madre e mio zio Dino amavano il sole, vi si stendevano per ore cercando di acquisire la tintarella. Invece, zia Mema, zia Carla, mio padre e mia sorella non riuscivano a rilassarsi, dovevano necessariamente fare qualcosa di produttivo, come rastrellare telline in mare o fregare cipolle e angurie dalle aree selvatiche tra le dune di sabbia, al limitar delle campagne. Al netto di questo, le partenze per Margherita, di mattina, rappresentavano una rinnovata partenza per il paradiso. Margherita mi piaceva perché potevo restare in acqua a lungo con altri bambini, e questo mi rimetteva nel luogo dell’infanzia, quando invece, durante le giornate a casa, mi trovavo scaraventato nel luogo della violenza tra adulti. Oggi, io e la mia famiglia andiamo a Margherita dalla fine di maggio alla fine di settembre, e andiamo al Lido Terme, per via del maltese che mia figlia ha voluto con sé e che non trova accoglienza in nessun altro lido. Ma il Mare di Margherita continua ad essere una stagione dell’infanzia, con il suo campo di pallavolo, quello di calcetto, le sue spiagge profondissime su cui puoi passeggiare per ore, e il suo mare nel quale è difficile anche annegare. A Margherita di Savoia, alla sua estate, ho dedicato quasi tutto il volume di poesie Attendersi di là, La Bussola, Roma, 2022.
  114. Ferrari a pedali: si trattava di una macchia di dimensioni ragguardevoli, scala 1:10, che si muoveva a pedali, nella quale correvo per casa ogni volta che potevo.
  115. E’ la racchetta da tennis con cui ho giocato per dieci anni, vincendo due tornei, e conquistandomi la stima dei bambini di Pompei, ad Ascoli. Della Maxima ho parlato nel libro: Maxima, a love story, Amazon publishing.
  116. Si tratta della pista elettrificata di automobilismo, disegnata su quella di Monza, con due macchinine, una bianca una rossa, che si muovono sui binari grazie alla elettricità trasmessa alla macchinina da due stoppini che sporgevano dal fondo delle auto. L’abilità consisteva nell’affrontare le curve senza uscire di strada. Ho conservato il Policar per 50 anni. Era uno dei miei giochi più rappresentativi, visto che da piccolo volevo fare il pilota di F1, e visto che guidavo la FIAT 500 sin da 5 anni!
  117. Ottenni il proiettore “super8” come regalo di Natale del ’73. Attesi vicino alla porta di ingresso che Babbo Natale arrivasse, poi mi addormentai e la mattina seguente trovai il proiettore sotto l’albero, nel salotto. Attraverso il super 8 ho potuto filmare e rivedere molte pagine della mia vita familiare che però, purtroppo, ho perso.
  118. Conservo ancora il Subbuteo, gioco meraviglioso che in un campo di calcio di plastica 50 x 70 riusciva a farti giocare per ore. E’ stato il gioco su cui abbiamo passato più tempo, io Enzo e un altro amico delle scuole medie, la cui caratteristica principale era di fare la doccia sbadigliando!!!
  119. Ogni bambino che voleva essere un leader, ad Ascoli, doveva avere con sé – come le pistole dei cowboys – due fionde, una con le molle gialle, ottenute dalle camere d’aria delle mietitrebbie, l’altra con le molle rosse, ottenute dalle camere d’aria delle biciclette. Io e Alfonso, i diarchi di Pompei, non solo le avevamo, ma costituivamo l’autorità di certificazione della fionda doc, quella costruita bene, quella che doveva avere il filo di spago per annodare le molle sulle estremità del legno di ulivo (con cui si costruisce una fionda), doveva avere una pezza ellissoidale di cuoio, per tirare le pietre, eccetera. Con le fionde si conquistava celebrità e territorio. Con le fionde dovevi saper centrare fari d’auto e nemici in movimento. Dopo i primi episodi barbarici, eri pronto per la guerra e la celebrità -.
  120. La Graziella è stata la mia bici per venti anni. Aveva dimensioni ridotte rispetto alle comuni bici da strada. La sua caratteristica era il sistema di freno della gomma posteriore, che ottenevi pedalando all’indietro: questo gesto bloccava la catena e quindi la ruota, impedendo che la bici si capovolgesse. Sulla Graziella blu, ho affrontato tutti i percorsi possibili di Ascoli, accettato ogni sfida possibile, subito ogni caduta possibile e vinto ogni competizione possibile.
  121. Avevo dieci anni, ero in prima media e dovevo fare un esame del sangue all’Ospedale San Gennaro, di Napoli. Ero ansioso e preoccupato. Mio padre insisteva per quel prelievo, al che zia Carla, che mi accompagnava, ebbe un trovata: mi avrebbe comprato un pallone di cuoio, a strisce orizzontali, di marca Olimpia. Bellissimo e famoso. Mi calmai immediatamente. Non vedevo l’ora di andare a prenderlo, e così, dopo il prelievo, ci recammo in piazza del Mercato a Napoli, da “Minale” giocattoli, e la zia mi regalò questo pallone, che conservo tuttora e con cui ho giocato per decenni.
  122. Il Super Santos è stato il pallone dell’adolescenza, arancione, morbido, era l’orpello che sia ad Ascoli che a Napoli, ai tempi del Liceo e della Università, avevamo sempre con noi ragazzi, per giocare. Ogni mattina, prima di entrare a scuola, io, Pino e tutti quelli della mia classe di liceo giocavamo una partitella, e spesso, dopo scuola, andavamo a giocare al campetto sterrato del ENAOLI, sotto i piloni della tangenziale, sulla Doganella (via Don Bosco).
  123. Credo di aver fatto l’album dei giocatori per dieci anni. Comperavo tre bustine di figurine al giorno, il resto dovevo giocarmele “a pacchetto”, un gioco nel quale si mettono le figurine le une sulle altre e si batte la mano di lato, creando un movimento d’aria che le fa capovolgere. Se questo riesce, hai guadagnato le figurine del tuo avversario, se non riesce le hai perse.
  124. Diciamo che la barca radiocomandata era un surrogato del mio desiderio. Per anni avevo chiesto a mio padre di comperarmi un aereo radiocomandato, col quale fantasticavo voli pindarici e spericolati. Ma mio padre aveva paura della mia indole smodata, e preferì ripiegare su un motoscafo, meno pericoloso a suo modo di vedere. Un giorno andammo a fare una gita ai Laghi di Monticchio – una località vicino Rionero in Vulture, famosa per le sue acque minerali che sgorgavano dalle rocce e si potevano raccogliere in damigiane di vetro -. Appena arrivati al lago, misi in moto la barca e la feci partire. Mio padre si raccomandò di fare attenzione, ma io non l’ascoltai. Facevo correre la barca avanti e indietro. Non mi avvidi che un bagnante stava riemergendo dal lago, e la barca, con le sue elica in metallo tagliente, gli passò sulla testa, tagliandogli il cuoio capelluto. Un immediato rivolo di sangue si sparse nell’acqua, colorandola come nella scena di un film horror. Il tipo cominciò a gridare e minacciare di denunciarmi. Io me ne fregai, ma mio padre sbiancò, corse dall’uomo chiedendogli scusa, e si offrì di portarlo all’ospedale. Subito dopo, la barca mi fu sequestrata. Non la vidi mai più.
  125. Quella per la fotografia fu una delle tante passioni virali da cui sono stato affetto. Esplose per caso nel ’89, e mi vide acquistare libri e riviste di fotografia per almeno tre anni. Studiai tutte le reflex presenti sul mercato, convincendomi che la sola marca che identificasse i fotografi d’autore fosse la Nikon. A quel punto, scegliere l’ammiraglia della casa, la F5 era un passo obbligato. Quella macchina costava una fucilata. Più di 5 milioni delle vecchie lire, se si aggiungono anche gli obiettivi, il flash, il motore eccetera. Dovetti contrarre un mutuo con mia sorella, che restituii a rate di 500.000 lire al mese. Con quella macchina fondai la LA.FOR. Artistic Agency insieme a Marco Foretier, scattai tutte le foto dei reportage comparsi sui primi numeri di Passages. Poi, la rapidissima evoluzione del digitale ha fatto scomparire le pellicole e le reflex, e oggi mia figlia “Elena” (come l’avevo battezzata, richiamandomi alla donna più bella del mondo) dorme nella sua valigetta di protezione.
  126. Andammo da Roberto Dallera dopo aver studiato pistole e fucili per anni, e dopo averne acquistate e vendute diverse. A un certo punto, come avvenne in seguito per le chitarre elettriche, capii che dovevo fare il salto di qualità. La pistola per me era un giocattolo con cui sparare al poligono, non un oggetto offensivo. Mi misi alla ricerca del miglior fabbricante d’armi, Roberto Dallera e lo raggiunsi a Concenisio (BS). Mi accolse con bonomia, vestito dal grembiule da lavoro. Ci spiegò come le sue pistole erano fatte da 57 pezzi, ognuno dei quali ottenuto da blocchi di acciaio al carbonio. Ci fece vedere diversi modelli, e io scelsi la Dallera 40 acp, che sembrava precisa e bella. Me la ricordo ancora. Anni dopo, l’avrei venduta per comprare una Tanfoglio sportiva.
  127. La storia della Colt 45 acp è simile a quella della Dallera, un giocattolo desiderato e studiato a lungo: oltretutto volevo suicidarmi proprio con la pistola, anzi, pensai di dovermi allenare a restare cinque minuti al giorno con la canna della pistola in bocca: quel training mi sembrava essenziale per distinguere le ciarle sulla morte dalla vera cognizione della stessa.
  128. Il tiro long rifle, al pari delle pistole, è passato da molti studi su fucili ed ottiche. Mi iscrissi al corso di caccia nel 2016, in VDA, giusto per acquisire il porto d’armi e comprare un fucile. Dopo innumerevoli studi e visite a fabbriche e negozi specializzati, atterrai alla BMC di Pinerolo, dove costruiscono carabine di precisione fatte a mano, con canne sagomate da un unico blocco di acciaio da 105 centimetri, ottiche militari e otturatori a tre alette tipo shell holder. Ma quel fucile costava 20.000 euro, e non l’ho mai comprato!
  129. La prima stilografica è stata una Aurora d’oro regalatami al battesimo da zia Mema. La seconda, una Aurora regalatami dalle stesse zie per la comunione. L’ultima, una Aurora comperata da “Brivio” ad Aosta, una penna d’argento, regalatami da zio Cosimo. A parte le Aurore, anche le penne stilografiche sono state oggetto di passione, per anni. Arrivai quasi a comperare una Watermann fatta a mano, del valore di 10 milioni di lire, da Guida a Port’Alba!!!
  130. Ho descritto la passione per i profumi nel libro: Parfums. A love story, Amazon Publishing.
  131. Phileas era stato il profumo con cui marcai la mia relazione d’amore con Francesca. Un giorno seppi che Nina Ricci lo aveva ritirato dal commercio. Chiamai la casa madre su Avenue Gambetta a Parigi, mi dissero che ne erano rimaste 16 confezioni. Presi un volo e andai a ritirare tutte le confezioni rimaste. Ne ho ancora tre, e conto di essere cosparso di Phileas, una volta acconciato nella bara.
  132. Scoprii questo profumo, fatto in tiratura limitata da uno dei nasi più celebri del mondo, a Milano, in Via Como 2, un giorno che mi trovavo lì con Franca; ne respirai il profumo e capii che si trattava di qualcosa di diverso dal comune. Angelique sous la pluie è stato l’esotismo e l’arte fatti profumo.
  133. Ho bevuto la Coca Cola per la prima volta al mio compleanno dei cinque anni, e da allora, fino al 2004, non ho mai smesso. Quasi 50 anni di fedeltà. Tutti i giorni. A Grenoble un giorno dimenticai di comprarla e non riuscii a dormire la notte: scoprii allora di esserne diventato dipendente.
  134. Ad Ascoli, fini alla fine degli anni ’90, c’era un piccolo chiosco chiamato “la barracchella”. Era un bugigattolo che vendeva gelati confezionati, biscotti, caramelle e altri dolciumi. Io e gli altri ci andavamo a comprare dei gelatini. Il mio preferito era il “Camillino” della Algida, un antesignano dell’attuale Cucciolone, ma più piccolo, e con solo panna tra i biscotti. Buonissimo.
  135. Malafalce. Era la gelateria del Paese, la prima a preparare dei gelati veramente eccezionali. Eccelleva del cioccolato, nella stracciatella e nello zabaione. La preparazione del gelato avveniva nel primo pomeriggio, l’impastatrice era a vista, e noi bambini andavamo ad assistere a quel rito quotidiano. Chiunque volesse portare del gelato a casa andava a prenderlo da Malafalce. Ogni sera, io e Alfonso compravamo un cono da 50 lire, che pareva un miracolo.
  136. Negli anni ’70 e ’80 la pasticceria Bellavita, a Corso Garibaldi, divenne famosa per i suoi cornetti “crema e amarena”. Si trattava di cornetti particolarmente fragranti, farciti con una crema chantilly mai vista e un’amarena al centro. I cornetti venivano sfornati tutto il giorno, ma al mattino c’erano file chilometriche di persone che aspettavano il proprio turno per divorare una di quelle prelibatezze.
  137. Zio Pino è stato un professionista. Negli anni ’60 e ’70 era cuoco da Bergantino, uno storico ristorante di Napoli (dal 1848), nei pressi della Stazione di Napoli (Via Milano, 10). Eccelleva nei dolci, oltreché nei primi. Diventava insuperabile nelle pastiere – che preparava con un misto di ricotta di mucca e pecora, e a cui aggiungeva gocce di Strega -, negli struffoli, e nel casatiello, che restava fragrante e saporito anche a distanza di una settimana. Ha scritto un libro di ricette: Le ricette di zio Pino, che conservo gelosamente.
  138. Rosa, la migliore pizzeria di Napoli. Attiva dal 1957, ha sempre mantenuto una gestione familiare e un’attenzione particolare alla preparazione. La pizza di Rosa è ancora quella napoletana classica, gommosa elastica, sottile al centro e dal cornicione di un centimetro circa. E’ la mia pizzeria da sempre. Si trova in via Filippo Cavolino, 8.
  139. L’olio di oliva è il prodotto alimentare che identifica maggiormente Ascoli Satriano, e di cui gli ascolani vanno fieri. Le vigne di Ascoli, infatti, sono tutte caratterizzate dall’avere un miscuglio di alberi da frutto, frammisti agli olivi secolari. Pertanto, il bouquet dell’olio ascolano è particolarmente ricco, fruttato o speziato, a differenza delle monocoltivazioni tipiche del resto della capitanata o di altre zone della Puglia. Ogni famiglia ascolana ha una sua piccola vigna, e produce un pò di olio. La raccolta delle olive si svolge da sempre nella stagione di San Martino che coincide con la prima decina di novembre. Le olive venivano raccolte a mano, oppure con le “mazze” – delle canne che servivano a percuotere i rami dell’albero facendo cadere le olive, le quali venivano raccolte su reti o lenzuola distese al piede dell’albero -. Una volta tirate le lenzuola, le olive venivano separate dalle foglie, e infilate nei sacchi di iuta. Portate al frantoio di via estramurale, venivano pressate tra dischi di corda e centrifugate a freddo. Ne scaturiva un olio meraviglioso, verdastro forte e speziato, che tutti amavamo. Il periodo della raccolta era un periodo di vacanze: ci si assentava dalla scuola o dal lavoro per dedicarsi alle olive. Per il trasporto dei sacchi si utilizzavano dei muli, sul cui dorso noi bambini venivamo installati, talché quel trasbordo diventava mitico.
  140. Ho scoperto il Bordeaux Comptesse de Pitray del ’97 al ristorante Le Vieux Molière, a Parigi, nel “Passage Molière”, al centro del Marais. Questo ristorante era magnifico. Sui muri, c’erano foto, disegni e firme di poeti quali Beaudelaire e Verlaine, aveva una decina di tavoli coperti da velluto rosso, e una prossimità con la Maison de la Poesie che gli trasfondeva un aura letteraria. Una volta vi ho cenato con Chiara, e a parte un medaglione di agneau roti, ci è stato proposto il bordeaux comptesse de Pitray del ’97, un’annata che il gestore, un uomo simpatico e ubriacone, spacciava per uno dei migliori vini del mondo. In affetti, non so se per l’atmosfera del locale o per la sua reale qualità, quel Bordeaux sembrava il miglior vino del mondo!
  141. Giardino di Roisan: concepimento, erbolario, magnolie: vedi nota 104.
  142. Ho cominciato a fare tennis perché mio padre si era convinto che io avessi una postura da correggere con l’atletica. Il primario dell’Ospedale San Paolo di Fuorigrotta mi visitò attestando che il tennis era necessario. Sicché ci mettemmo a cercare quale fossero il campo e la scuola più vicini a casa, e scoprimmo che se ne trovava uno a San Pietro a Patierno. Ci iscrivemmo in tre, io, mia sorella e Enzo Provitera. Cominciammo. ad allenarci due volte la settimana, di sera. Io avevo una Donnas, mia sorella una Elephant baby e mio cognato una Slazenger… Diventammo piuttosto bravini, partecipando anche ad un torneo under 18. Poi però passammo al Tennis Spot Boom, a Calata Capodichino, più vicino e certamente migliore, dove restammo iscritti per diversi anni. I campi erano belli, il maestro antipatico, ma la vicinanza a casa nostra lo rendeva preferibile. Ho descritto l’epopea del tennis nel libro: Maxima, a love story, Amazon publ.
  143. Gigino era un locale abbastanza malfamato e puzzolente posto proprio sotto l’ingresso del mio condominio, in via Marco Aurelio Severino, 28. All’epoca, sotto casa non c’era il parrucchiere che invece c’è adesso, ma un meccanico, Enzuccio, un pregiudicato più volte arrestato che però era simpatico ed affabile, e che aveva fondato una radio libera nel suo locale, che trasmetteva sostanzialmente saluti e abbracci a tutte le vaiasse del quartiere. Quando Enzuccio morì, per cancro epatico, il locale fu chiuso. Al suo posto aprì una sala biliardo, seminterrata, quella di Gigino appunto, nella quale stazionavano tutti i perdigiorno del quartiere, insieme a quattro liceali: io, Pino, Enzo e Mauro. Noi ci passavamo diverse ore la settimana, giocando a carambola, a boccette, a strisce e senza strisce (pool americano). E’ stato un periodo di passaggio tra il liceo e l’università, ed è rimasto un periodo felice, fosse solo perché lì ci stavamo per giocare, che è quello che abbiamo cercato di fare tutta la vita.
  144. Il gioco del nascondino, ad Ascoli, merita di essere ricordato, perché caratterizzato da alcune varianti particolari. Lo si potrebbe rinominare “criminal-nascondino”. Infatti, il malcapitato al quale toccava contare e cercare gli altri, doveva non soltanto preoccuparsi di individuare i compagni e fare “tana”, ma anche e soprattuto di difendersi dalle fiondate di costoro, i quali potevano centralo con bordate di pietra. Sicché, la ricerca dei compagni equivaleva alla ricerca di un nemico in un campo di guerra. Tanto è vero che i feriti non si contavano: ognuno di noi aveva cicatrici dappertutto, dovute alle cadute ma soprattuto alle fiondate.
  145. Sul banco di Murgia che sottosta al convento delle suore di Pompei noi bambini costruimmo una “capanna”. Era la nostra base tattica. Da quella postazione sorvegliata, una vedetta scrutava i territori circostanti col binocolo Hoya,che mi feci comprare a Foggia, da Leone, nel ’78, e che ci permetteva di individuare ogni movimento delle truppe avversarie. Si trattava di fare scorribande in modo da dichiarare conquistati i territori.
  146. Il territorio di Ascoli Satriano attiene alla antica Daunia, una delle civiltà preromane conquistate dalla Grecia e poi da Roma. Nell’immediato sottosuolo di ognuna delle vigne di Ascoli potevi trovare dei vasi della magna Grecia, scavando appena un pò. In tal modo, ogni famiglia, compresa la nostra, possedeva una buona collezione di vasi (kilyx, aryballos, anfore, eccetera). La nostra, era l’orgoglio di mio padre. Quei vasi ci facevano sentire discendenti dell’amata civiltà greca, ci permettevano di nobilitare le nostre case e le nostre storie.
  147. Dagli anni 60 agli anni 90 l’edificio scolastico posto ai piedi di via Giovanni Pascoli, parallelo a via Santa Maria, è stato l’edifizie’, cioè lo spiazzale in cui abbiamo giocato a pallone quasi tutti giorni dell’estate. Quelle partite cominciavano sempre in modo sportivo e equilibrato, e finivano a mazzate, poiché nessuno accettava di perdere. Però, credo che nessuno di quei bambini ormai adulti possa negare il fascino di quel luogo e quelle partite.
  148. L’Enaoli era uno spiazzale sterrato posto proprio sopra i Salesiani Don Bosco e coperto dalla tangenziale di Napoli. Ci si andava a giocare quando si “faceva filone” a scuola. Si superava una sgangherata rete di recinzione e si cominciava a correre, su quello spiazzo polveroso e infangato. Talvolta poteva capitare che vi arrivassero dei delinquenti per prenderci quei pochi spiccioli che avevamo in tasca.
  149. Ho parlato della scuola elementare “Alberto Mario” in una nota, più sopra.
  150. Ho parlato del “Liceo Garibaldi” nella nota 1.
  151. ibidem
  152. L’idea di fare una rivista era antica. Volevo fare una rivista di arti, culture e riflessioni, che fondesse tutte le mie passioni: arti, filosofia, letteratura, critica letteraria e sociale. Nel ’99 conobbi Nicola Crocetti. Ricordo di averlo chiamato per telefono mentre ero sulla statale di Aosta. Gli avevo inviato una lettera in cui mi proponevo di tradurre alcuni poemi di Ghiannis Ritsos, conosciuti proprio nella sua traduzione (Tre poemetti, Guanda Editore). Lui mi chiamò e mi invitò ad andare a trovarlo, a Milano, in via Falck, 53. Ero emozionatissimo. Nacque un rapporto di amicizia immediata. Lo convinsi a lasciarmi pubblicare un quadrimestrale “Passages”, a pubblicare il mio primo libro di poesie, Nel corpo tuo rimorso. Cominciò in tal modo l’avventura di quella rivista che mi ha visto correre per l’Italia alla ricerca di Autori, e che è durata sette anni, dal 2002 al 2009. Impaginavamo ogni numero da soli – io, Chiara e Marco Foretier – avendo imparato a usare il programma Quark X-press. Poi ottenevamo il codice ISBN, preparavamo le buste, le portavamo alla Posta e le spedivamo agli abbonati (pochi) e ai molti esponenti della cultura ai quali volevamo arrivare. Parlare di Passages è anche parlare di centinaia di incontri e relazioni che si sono create con nomi illustri della poesia, della letteratura, dell’arte. Molti di Questi stati gentili e ospitali con me, dedicandomi tempo e articoli: basta leggere l’elenco degli Autori nella voce “rivista Passages” del menu principale di questo sito. A Nicola Crocetti quindi devo l’inizio dell’avventura più bella della mia vita, oltreché la pubblicazione dei miei primi libri di poesia.
  153. Tra gli Autori di Passages, voglio ricordare Giuseppe Manfridi, uno dei maggiori drammaturghi italiani, che avevo conosciuto a casa sua, in via Salaria a Roma, quando seguivo l’Accademia Silvio d’Amico. E’ stato immediatamente disponibile, mi ha scritto decine di pezzi, ha nobilitato con la sua presenza la rivista Passages.
  154. Al pari di Manfridi, Paolo Puppa (wikipedia) è stato il maggior critico teatrale del Novecento italiano, autore di una Storia del teatro e dello spettacolo italiano. Uomo di cultura immensa, mi aveva accolto nella sua vita e nella sua casa veneziana con immediata generosità. Si è prestato a scrivere le “lettere impossibili” su Passages, che pochi al mondo possono scrivere, se non dotati della sua stessa cultura enciclopedica.
  155. Giorgio Barberi Squarotti (wikipedia) è stato uno dei maggiori filologi italiani, direttore scientifico del Grande dizionario (Battaglia) della Lingua Italiana. Docente di letteratura italiana a Torino, mi ha accolto nella sua casa in via Duchessa Iolanda fino all’ultimo giorno di vita. La sua generosità era sconfinata, la sua bellezza mentale, la sua eleganza, la sua signorilità. Sono onorato di esser stato suo ospite anche ad Alba, e di aver ricevuto 20 sue poesie inedite, che ho publicato sul numero 1/2005 di Passages. Link al numero.
  156. Giannino Balbis (wikipedia) è un poeta, critico letterario e saggista (wikipedia). Ha scritto una decine di raccolte di poesia, più di mille fra volumi, saggi, articoli, testi scolastici e recensioni di storia, poesia, critica letteraria. Ha diretto numerose collane di studi e girato l’Italia facendo concerti “musical-letterari” insieme agli amici del suo trio: il baritono Marco Camastra e il pianista Alessandro Collina. E’ un uomo straordinario e generoso, a cui sono legato da riconoscenza e amicizia. Ha scritto su di me nel volume 319 di “Poesia” (Crocetti) e introdotto il mio libro Attendersi di là (La Bussola, Roma 2022).
  157. Rocco Mario Morano è stato professore di letteratura italiana a Cosenza e poi all’Università di Toronto Missisauga. Autore di numerose pubblicazioni, è un comparatista eccellente. Ho avuto l’onore di diventare suo amico e di ricevere da lui la “Introduzione” a due miei libri: La dimensione della perdita e Disamore.
  158. Hans Raimund (wikipedia) è il più grande poeta austriaco vivente. Ha scritto una ventina di libri di poesia, e tradotto numerosi poeti (Bufalino, Piccolo, Solmi, Vacana, Nassi, Giotti, Bertolucci, Lamartora). I suoi libri sono stati tradotti in italiano, francese, inglese, spagnolo. Ha vinto numerosi premi nazionali e internazionali. Me l’ha presentato Nicola Crocetti, che aveva pubblicato un suo libro di poesie: E qualunque cosa accada, 1995. L’ho contattato per conoscerlo, e lui mi ha invitato a casa sua, insieme a sua moglie Franziska. Ne è scaturita un’amicizia immediata che ha portato Hans a tradurre in tedesco il mio volume La dimensione della perdita: Das Ausmass des Verlusts, Pen Locker, Vienna 2022.
  159. Michael Palma (wikipedia) è un poeta e uno dei più apprezzati italianisti degli States. Ha tradotto decine di poeti italiani (Buffoni, Erba, Patti, Corazzini, Gozzano, Lamartora, Raboni) e l’intera Divina Commedia di Dante Alighieri. Ha tradotto in inglese una mia silloge di poesie, The Autumn of Love, Gradiva Publications, New York, 2018.
  160. Il Lyrik Kabinett è un istituzione prestigiosa, a Monaco di Baviera. Si tratta di una delle maggiori biblioteche di poesia del mondo. Diretta da Holger Pils, ha una vice direttrice Pia-Elisabeth Leuschner che ha apprezzato i miei libri di poesia – letti in italiano – e mi ha invitato, in rappresentanza dell’Italia, alla manifestazione annuale “La tarda estate dei poeti”, che si è tenuta il 28 settembre 2022 all’Institut Français di Monaco.
  161. Andrè Kertesz: Lo specchio di una vita, Federico Motta editore, Milano 1999.
  162. Devo ricordare e ringraziare i genitori di Pino, per averci permesso di giocare a casa loro durante il Liceo. Anna (Ninuccia) e Giovanni erano inseparabili, nella vita e nel lavoro, Avevano un negozio di biancheria intima femminile a Corso Garibaldi n. 187. La loro casa in Corso Garibaldi 246 è ancora quella di Ida e Pino, ancora quella che frequento settimanalmente. All’epoca, nella cucina c’era un tavolo da pranzo che aveva dimensioni identiche a un tavolo da ping pong, e sul quale avevamo piazzato una rete per giocarci. Il pregio maggiore di Nina e Giovanni era la loro qualità umana: erano due persone splendide, gentili, ospitali, disponibili, sorridenti, che ci hanno permesso di sognare quando era ancora possibile sognare. La loro morte prematura e contemporanea è stata una frattura, dopo la quale non siamo stati più gli stessi.
  163. Alfonso Liguori è stato un regista della scena teatrale napoletana, creatore della prima e più frequentata scuola di teatro a Napoli, nella quale io e Francesca abbiamo cominciato, nel ’90. La scuola stava in via Jean Baptiste La Salle, ed era frequentata da una quindicina di ragazzi, tra i quali qualcuno promettente, scritturato nel film di Mario Martone, Morte di un matematico napoletano.
  164. Ho conosciuto Gerardo Marotta, “l’avvocato”, come lo chiamavano tutti, nel 2002. L’avevo contattato per ottenere una presentazione della rivista Passages e lui mi aveva messo a disposizione l’Istituto Italiano di Studi Filosofici. Non so dire come mai, ma due giorni dopo ero già a casa sua, ed era nata un’amicizia durata dieci anni. Abbiamo pranzato, cenato, discusso e perfino villeggiato insieme, nel Gargano. La sua casa a Monte di Dio era stracolma di libri. Ogni angolo ne era stipato. Non c’era spazio nemmeno per pranzare, e infatti lui mangiava col piatto poggiato sui fax che gli inviavano Noam Chomsky e Hans George Gadamer, tanto per citarne due! Ho imparato la dedizione alle proprie passioni, da lui più che da chiunque altro.
  165. Sono arrivato al Pascale grazie al mio interesse per il cancro. Gli studi sulla somatizzazione cancerosa sono stati una delle mie passioni. Letti i primi venti libri, ho chiesto alla direzione sanitaria dell’ospedale di farmi fare un periodo di volontariato nel reparto “senologia”, dov’erano ricoverate donne affette da carcinoma mammario, operate o trattate chemioterapicamente. E’ stata un’esperienza preziosa e intensa. Ho imparato a stare in silenzio, ho capito che attraverso il silenzio si possono dire cose che le parole non dicono. In questa lezione, il progetto Shanti messo in piedi negli USA da Charles Garfield è stato una guida preziosa.
  166. Nicola Crocetti, nascita di Passages e libri di poesia: vedi nota 150.
  167. Chiara Merighi: vedi le sue tele sul numero 2/2006 di Passages. Link al numero
  168. Chiara Merighi: vedi il suo articolo su Kojève, sul numero 1/2005 di Passages. Link al numero
  169. Big Fish, film di Tim Burton.
  170. Consiglio di leggere alcuni dei numerosi libri su Elena di Sparta, impropriamente chiamata di Troia:
    Elène, di Enzo Lamartora, in It Was, La vita felice, Milano, 2017
    Elena, di Euripide, Rizzoli, 1997.
    Vita privata di Elena di Troia, di John Erskine. Castelvecchi, 2017
    Elena di Troia: Dea, principessa e puttana, di Bettany Hughes. Il Saggiatore, 2007.
    Gli eroi della guerra di Troia: Elena, Ulisse, Achille e gli altri, di Giorgio Ieranò. Marsilio.
    Elena, di Ghiannis Ritsos, in Quarta dimensione. Crocetti, 2018.
    Encomio di Elena, di Gorgia. La vita felice, 2021.
    Elena, variazioni sul mito: Euripide, Hofmannsthal, Ritsos. Marsilio, 2022.
    Elena di Sparta, di Loreta Minutilli. Baldini e Castoldi, 2019.
    La splendente, di Cesare Sinatti. Feltrinelli, 2018.
    Il diario segreto di Elena di Troia, di Leslie Carroll. Newton Compton, 2007.