la poetica

…estratto dalla “Prefazione” a La dimensione della perdita. Poesie 2005-2014, di Rocco Mario Morano

Volendone indicare le caratteristiche fondanti e circoscriverne preliminarmente  e sinteticamente le linee di ‘demarcazione’ operative, le diverse raccolte poetiche di Lamartora costituiscono di fatto un lungo periplo attraverso la «razionalità polisensa» – per usare una formula che riassume uno dei princìpi fondamentali della estetica dellavolpiana (cfr. G. Della Volpe, Critica del gusto, terza edizione riveduta e accresciuta, Milano Feltrinelli, 1966, pp. 85-100: 85) – effettuato con lucida determinazione ascrivibile ad una profonda angoscia sopportata stoicamente e sorretta e alimentata da un nichilismo filosofico che avvolge tutto, ovvero l’io e l’altro da sé, nella notte dei tempi, assumendo pertanto un valore universale tramite la presa di coscienza progressiva e ineludibile della «dimensione della perdita».

Va detto però che il nichilismo di Lamartora affonda le radici nella filosofia di Nietzsche cogliendone artisticamente l’espressione suprema  nel momento di ‘sospensione’ della tensione estrema tra lo spirito apollineo e quello dionisiaco, momento che prelude alla rappresentazione simbolica della ‘catastrofe’ intesa quale forza motrice di una trasfigurazione, o meglio riscatto, dell’uomo che osi oggi essere unicamente uomo tragico (« […] Qualcuno […] cominciò a ballare / mimando Dioniso, a recitare la parte di se stesso prima della catastrofe. / Doveva essere bello. […] / […] / Non aveva guardato con attenzione. / Tutto il suo braccio, tutto il suo corpo, forse anche il sorriso, / era stato maschera un tempo» [ Quando uscimmo all’aperto]).

Con riferimento al pensiero contemporaneo, la visione del mondo che potrebbe, con maggiore pertinenza e adesione alle liriche di Lamartora, interpretare  e disvelare il senso della Modernità quale ciclico provenire delle cose dal nulla per ritornare al nulla è riassumibile nella seguente emblematica asserzione effettuata nel 2007 da Emanuele Severino: «[…] Sin dall’inizio i mortali sono abitatori del divenir altro e del tempo; cioè abitano il nulla» (cfr. E. Severino, Oltrepassare, Milano, Adelphi, 2007, p. 19). E ciò prima di conferire una sistemazione ulteriore al suo pensiero nella recente e corposa monografia dal titolo Dike uscita nel 2015 per i tipi dell’editore Adelphi di Milano. Occorre, inoltre, aggiungere che Severino non a caso figura essere – come il recente suo libro dal titolo In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell’uomo (Milano, Rizzoli, 2015) conferma ampiamente – ermeneuta finissimo dell’indissolubilità di ragione e poesia riscontrabile nelle opere del grande recanatese ‘piegate’ alla Weltanschauung nichilista e antimetafisica che nel Novecento sfocerà, con sensibilità e stile diversi, nella filosofia e nella poesia di Michelstaedter, passando per Schopenhauer, Heidegger e Jaspers, scopritore, quest’ultimo, in Vernunft und Existenz, delle «segrete passerelle che portano dal cristiano Kierkegaard all’ateo Nietzsche», come ha avuto modo di precisare opportunamente Remo Cantoni nel suo monumentale saggio La coscienza inquieta dedicato al grande pensatore danese (cfr. R. Cantoni, La coscienza inquieta. Sören Kierkegaard [1949], seconda edizione aggiornata e ampliata, Milano, il Saggiatore, 1976, p. 295). Oltre a ciò, dai componimenti di Lamartora affiorano echi, talvolta abilmente dissimulati talaltra resi espliciti e dialetticamente interconnessi non solo in chiave oppositiva, della psicoanalisi di derivazione freudiana e junghiana. E Sigmund Freud (immaginato mentre, in attesa dell’«ultimo paziente della serata […] che sarà l’ultima della sua carriera», passa in rassegna, in un drammatico soliloquio, la sua vita privata e professionale senza esimersi dall’esprimere, di sfuggita, un giudizio sprezzante su Carl Gustav Jung quale uomo e quale studioso) significativamente appare quale personaggio-protagonista di uno dei sei poemi teatrali  (dal titolo L’ultima seduta di Freud) composti – in uno stile che si richiama a quello adoperato da Ghiannis Ritsos nella raccolta di poemi Quarta Dimensione – dallo stesso Lamartora tra il 2011 e il 2014 e inseriti nel volume It Was (La Vita Felice, Milano 2017).

Il ‘pensiero poetante’ dell’Autore, in costante attività, procede per ‘sottrazione’ soprattutto di natura tematica, quasi a voler esaltare, al di là delle apparenze, il ‘prosciugamento’ studiato e progressivo della creatività immaginifica. Di qui il prevalere di uno stile talvolta ‘prosastico’ a lente volute narrative, talaltra poetico, a tratti brevi, volto a raggiungere i confini dell’indicibile e dell’inesprimibile mediante una forma di ‘spaesamento’ che turba – e, allo stesso tempo, attrae – il lettore, costringendolo costantemente a misurarsi con i testi e i loro significati profondi e riposti. Prima di giungere ai modelli costituiti, in tempi più vicini al nostro, dalla poesia di Thomas Stearns Eliot e di Wisława Szymborska, gli ascendenti storici illustri di tale modo di procedere nell’entrare, da parte di Lamartora, con la propria capacità di fruizione e reinvenzione artistica,  nell’‘aringo rimaso’ della lirica  d’oltralpe, sono ben identificabili e annoverabili: Johann Christian Friedrich Hölderlin, George Trakl e  Rainer Marie Rilke.

 I luoghi, gli oggetti e i sentimenti vengono rappresentati o evocati con la sofferenza e l’angoscia di chi è costretto a percorrere le ‘stazioni’ di una via crucis che non porta però ad alcun riscatto e salvezza di sé in quanto effettuata senza fede alcuna, anzi con la disperata e disperante rassegnazione dell’autodissoluzione che conduce al nulla eterno. Un ritmo interiore (o ‘tempo’ musicale), con variazioni continue di movimenti riscontrabili anche all’interno di ciascun componimento poetico, connota il tutto.

L’andamento della raccolta fa sì che le poesie che ne fanno parte si avvalgano di versi cadenzati in modo non uniforme per assecondare i diversi piani di un racconto continuo vòlto a delineare, per dirla con il Leopardi, la ‘storia di un’anima’. È come se Lamartora, con la sua opera poetica, abbia voluto, a suo modo, ispirarsi a quel progetto, mai realizzato dal grande recanatese, se non in parte sotto forma di idilli o canti, di fissare sulla carta, mettendola a nudo in prosa però, la propria esistenza componendo un romanzo autobiografico. La ‘dimensione della perdita’, che permea di sé i versi e i componimenti dell’intera raccolta, è compendiata nella lirica “Quarant’anni”: gli stessi, si badi bene, dichiarati dal «cugino […] vestito di bianco», il personaggio-protagonista del racconto poetico “I mari del Sud”, posto all’inizio di Lavorare stanca di Cesare Pavese, caratterizzata da una volutamente arida elencazione di eventi privati che assumono il significato di un bilancio fallimentare registrato, in forma solenne, con ostinata e maniacale precisione, e riassumibile in «una sola, lunghissima, notte d’angoscia», ovvero nell’arco di una vita ancora breve che per un solo lustro oltrepassa l’emblematico «mezzo del cammin di nostra vita» indicato da Dante quale inizio del suo viaggio ultraterreno nella Divina Commedia, un lustro però già più che sufficiente per far prendere atto a Lamartora, in nome e per conto della Modernità, del venir meno, in modo irrimediabile, di ogni «speranza dell’altezza» e quindi della realizzazione di qualsivoglia sogno metafisico.

I tu – che, come quelli montaliani «sono uno anche se appaiono / moltiplicati dagli specchi» (cfr. E. Montale, “Il tu: i critici si ripetono…,” in Satura 1962-1970; ora in E. Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 275) -, riferiti spesso ad un amore perduto per sempre, vengono da Lamartora adoperati con disincantata e ‘provocatoria’ colloquialità al fine di trasmettere in forma nuova, ma tragica, una rassegnata chiaroveggenza. Di qui quel «silenzio di rovine» percepito, nel breve componimento Dici che dovremmo chiarirci, senza però la solennità cupa e funerea riscontrabile nella lirica Nevicata composta, nella fase della tarda maturità, dal Carducci avvalendosi anche di spunti e suggestioni derivanti dall’assidua frequentazione di alcuni ben individuabili testi poetici di Hölderlin, come, con finezza esegetica, ebbe modo di dimostrare Walter Binni in un memorabile saggio del 1957 (ora in W. Binni, Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, seconda edizione aumentata, 1967, pp. 45-54). Ciò che rimane inespresso per reticenza voluta e calcolata o soltanto per l’imbarazzo della confessione di un amore finito e sfociato nel tradimento, si rivela nella ‘registrazione’ spietata dei particolari, come quel «rossetto sbavato» notato sulle labbra dell’amata in Non ricordo come finì in quell’occasione. Di qui quel finale rappresentato dal componimento che esprime i disinganni dell’amore: «Amare è inoltrarsi, uscire in mare aperto / senza bussola, senza cognizioni, / attendere a un approdo di là della speranza, / a un incontro, di là della ragione. / Il resto è sofferenza. Tutt’al più» (Amare è inoltrarsi, uscire in mare aperto). Una souffrance, questa, che estesa, com’è, nella raccolte, a tutte le creature animate e inanimate, e quindi all’universo intero, evoca la visione del mondo lucida e sconsolata sottesa alla poetica leopardiana.

La fine dell’idillio è sancita dalla descrizione cruda e impietosa – non esente, per giunta, da una allusione polemica e studiatamente antitetica, dal punto di vista del significato profondo, rispetto al comportamento tenuto dal vignaiolo nella parabola del fico sterile del Vangelo secondo Luca (13,6-9) – dell’abbattimento di un centenario «albero / di fichi – un albero bellissimo, maestoso», da parte di un contadino lasciatosi omologare dalla società consumistica e mercificata inneggiante ai non-luoghi a tal punto da giungere ad assecondare le lagnanze dell’«inquilino del terzo piano» che, a causa della pianta fronzuta che si erge «giù nel cortile», ha la vista impedita «sull’arteria commerciale […] / dove la gente, a piccoli passi, brulica nel minimarket, / ignara degli slanci, delle altezze, dei ripari» (Il contadino giù nel cortile ha abbattuto l’albero).

La solennità del dire poetico in un mondo ormai privo della bussola dell’esistenza è rappresentata, sul piano retorico, stilistico e metrico, dall’inserzione qua e là di rime interne e/o imperfette, allitterazioni, assonanze, paronomasie e forme varie di enjambement: il tutto in un contesto da racconto ampio e misurato della disperazione e della solitudine proprie e altrui, sull’onda di una musicalità da poema sinfonico conferita all’eccesso apparente di ‘verbosità’ riflessiva abbinato, con sagace scelta, a quello quantitativo delle sillabe che di norma costituiscono i singoli versi, compresi, a loro volta, in strofe strutturate liberamente per stabilire relazioni sempre nuove con i pensieri e i sentimenti esternati.

In taluni nuclei tematici – come quello basato su un periodo ipotetico dell’irrealtà, ovvero sulla meditazione su ciò che sarebbe potuto avvenire e non avvenne a causa del coraggio mancato a un figlio di scegliere, a suo tempo, da adolescente, la via obbligata dell’«esilio» – si innestano, con risultati del tutto autonomi, suggestioni di immagini risalenti a testi poetici di Pavese dall’ampio respiro come “I mari del Sud”, il cui «pacato e chiaro racconto» e «nudo e quasi prosastico verso» si spiegano, per ammissione dello stesso scrittore piemontese (cfr. C. Pavese, Il mestiere di poeta (a proposito di «Lavorare stanca») [novembre 1934], in Id., Opere di Cesare Pavese, t. I, Lavorare stanca, Torino Einaudi, 1968, pp. 125, 132) come il risultato, tra gli altri, «di studi e traduzioni dal nordamericano» (ivi, p. 125). E non a caso, dunque, lemmi (come «mestiere») o sintagmi (come «la bella estate») direttamente riconducibili a  Pavese si rinvengono nei componimenti del Lamartora (cfr. Certe sere passano a correggere poesie e La bella estate è finita). Soltanto «le cose» restano a «raccontare» la «storia» degli uomini e a «testimoniare» la loro presenza in una fatiscente casa contadina con «tutt’intorno ettari di terra dissodata, / lasciata a se stessa chissà da quando» : «[…] / C’erano le cose, dunque, a testimoniare. E al di là di questo, violento, / un vento perenne, freddo, che toglieva la parola» (Al di là di questo – disse – non ho altro da dire). Ma la solidità materiale degli oggetti non ha nulla di rassicurante, non essendo consolatoria o sostitutiva o compensativa della edacità implacabile del tempo e del sopravvento esercitato, su tutto, dal male, dalla malattia e dalla morte.

Gli oggetti sovente elencati ed evocati da Lamartora con un gusto quasi classificatorio (cfr. i componimenti intitolati: Ha più di novant’anni, ormai; Al di là di questo – disse – non ho altro da dire; L’indomani la casa era svuotata), assurgono a simboli e allegorie della storia tragica dell’umanità (e delle esistenze individuali che la compongono), assumendo così, per tradizione illustre, uno degli aspetti molteplici con cui figurano essere stati rappresentati nelle opere dei più grandi scrittori della letteratura occidentale, come, con dovizia di particolari e finezza interpretativa, ha avuto modo di dimostrare  Francesco Orlando nella sua ormai classica monografia dal titolo Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, apparsa, per i tipi dell’Editore Einaudi, in prima edizione, nel 1993 e ora opportunamente riproposta dalla medesima Casa Editrice nella nuova edizione riveduta e ampliata a cura di Luciano Pellegrini, con Prefazione di Piero Boitani.

Si tratta, insomma, di oggetti sottratti all’ironia corrosiva e al rimpianto tipici del crepuscolarismo gozzaniano per essere ‘caricati’ di senso tragico trasmesso – come avviene in alcuni componimenti risalenti all’ultimo periodo della produzione montaliana – talvolta dalla proiezione in essi della «storia», del «destino» e della «umanità sfinita» dei personaggi interni alla narrazione poetica (cfr. Ha più di novant’anni, ormai) talaltra dalla sostituzione dei soggetti, nell’illusorio e angosciante tentativo di colmarne il vuoto dell’assenza, con gli oggetti medesimi (cfr. L’indomani la casa era svuotata).

Anche la musica, quando si materializza nell’ascolto di «una vecchia canzone di Billie Holiday» (Era rimasto di là, seduto nell’angolo) o delle «poche note» di un «armonio […] che si volgono alla fine» (Ogni giorno che tolgo al nostro tempo) o delle composizioni di Samuel Osborne Barber (Durante il trasbordo nel treno quotidiano) – autore, quest’ultimo, va detto per inciso, di The Prayers of Kierkegaard – non è quella «randagia», soffusa di malinconia, degli Organi di Barberia di govoniana memoria né l’«elemosina triste / di vecchie arie sperdute, / vanità di un’offerta / che nessuno raccoglie!», come si legge nel componimento Per organo di Barberia di Sergio Corazzini imbevuto, come quelli di altri ben noti crepuscolari italiani del resto, di suggestioni tratte dai poeti simbolisti francesi o di lingua francese come il «fiammingo» Georges Rodenbach. È, invece, « la musica rimessa cento volte / perché non si spegnesse il rapimento davanti a quelle estati, / il rimpianto per quei baci, quella follia; / perché anche il rimpianto si fa vita quando ormai è troppo tardi» (Era rimasto di là, seduto nell’angolo); o quella di una canzone ascoltata – «davanti a lui» che sta «percorrendo la storia umana, e la sua, a ritroso, senza saperlo» – da «due bambini» che «si tengono per mano, si baciano, giacciono / nudi e felici, […] . L’ultimo delirio. / L’ultima coscienza della felicità, prima del salto nel buio» (Da lì in avanti cominciò ad avere paura); o quella infine che aiuta a «concentrarsi sugli uomini, / sui deboli, sugli altri» (Durante il trasbordo nel treno quotidiano).

La poesia, quale estrema illusione di superamento delle barriere dell’ineffabile e della «tristezza» nel «vedere una pagina bianca e non avere nulla da scrivere» (Che tristezza vedere una pagina bianca), diventa un dovere esercitato quotidianamente come «mestiere» per sottrarre all’oblio e alla notte dei tempi quel che di noi, sotto forma di pensiero e azione,  merita di essere ricordato:  «Quando la vecchia cantinèra, che conosco da bambino, / avrà chiuso per tre volte la sua porta, so che il giorno è finito, / e devo scriverne qualcosa affinché non vada perso» (Mi sono portato davanti alla finestra). Di qui la necessità avvertita di tenersi in esercizio continuo anche «quando non hai nulla da dire» per mancanza di impulso creativo: «Certe sere passano a correggere poesie già scritte, così, / tanto per rimanere fedeli al mestiere. Succede, / quando non hai nulla da dire ma non sai rinunciare a dire qualcosa. / Certe vite passano a riparare gli errori commessi, le perdite subite o inflitte, / giusto per mestiere, senza un orizzonte, senza desiderio, / senza apprendere niente. / Si va avanti per abitudine, senza il coraggio di smettere» (Certe sere passano a correggere poesie).

Nella registrazione di minimi eventi o gesti quotidiani non mancano atti di crudeltà gratuita come quello commesso, nei confronti di una «lucertola, piccola piccola», dal giardiniere che, avendola notata «dimenarsi sulla soglia della cucina», «ha urlato, per spaventarla» e «poi l’ha schiacciata, senza finirla». Il colpo di grazia verrà dato all’innocuo animaletto dal poeta stesso che precisa: «Io ero distante, ho sentito le urla; sono corso anch’io, d’istinto, / con tutta la poesia, la cultura e l’umanità che mi ritrovo. / Sono corso anch’io, per finirla» (Il giardiniere ha notato una lucertola). Il rapporto antinomico surrettiziamente qui istituito con il gioco ‘sadico’, ma innocente, del fanciullo montaliano  che «insidia» «la lucertola / ferma sul masso brullo» con «il lacciòlo d’erba» (cfr. E. Montale, “Movimenti: Falsetto”, in Ossi di seppia 1920-1927; ora in E. Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, pp. 12-13: 12),  si manifesta con vigore quando viene esteso al comportamento adulto dei due poeti che affiora, sotto forma di ‘confessione’, dai loro stessi componimenti. Montale, a più riprese, confida: «Provo rimorso per avere schiacciato / la zanzara sul muro, la formica / sul pavimento» (E. Montale, Provo rimorso per avere schiacciato…, in Satura 1962-1970, Satura II, Botta e risposta II; ora in E. Montale, L’opera in versi, cit., p. 352); e ancora: «Si andava per lucertole / e non ne ho mai / ucciso una. // Si andava sulle formiche / e ho sempre evitato / di pestarle» (E. Montale, Si andava…, in Satura 1962-1970, Satura II, Botta e risposta III; ora in E. Montale, L’opera in versi, cit., p. 373); e infine: «L’omicidio non è il mio forte. / Di uomini nessuno, forse qualche insetto, / qualche zanzara schiacciata con una pantofola / sul muro» (E. Montale, “L’omicidio non è il mio forte”, in Quaderno di quattro anni; ora E. Montale, L’opera in versi, cit., p. 559). La conclusione della summenzionata breve lirica di Lamartora, effettuata passando in modo brusco dalla terza persona adoperata nei primi tre versi alla prima, assume, invece, il valore di un commento fortemente autocritico che lascia trapelare lo sbigottimento per la presa d’atto, a freddo, che il primordiale istinto ‘ferino’ alberga anche nell’animo di chi può vantarsi di essere poeta, colto e umano. E ciò perché – come si legge in un altro componimento della raccolta disseminato di tracce che riconducono il lettore avveduto alla teoria junghiana dell’inconscio collettivo e degli archetipi, e nel quale il poeta si rappresenta, in terza persona, nell’atto di percorrere «la storia umana, e la sua, a ritroso, senza saperlo» – «l’uomo, così come l’aveva conosciuto e desiderato, non esisteva più, / deformato, degenerato, scomposto nelle forze ancestrali / che slegano o confondono / […] / Tutto questo non perseguendo un fine, un disegno umano o divino, / ma secondo i principi del caso, della trasformazione, e quindi / dell’incolpevolezza. Era andato avanti, troppo avanti per tornare indietro / nella conoscenza della grazia, dell’amore, della costruzione. // I piedi già disciolti nel fango, le braccia ramificate sul ciglio di un precipizio. / Davanti a lui due bambini si tengono per mano, si baciano, giacciono / nudi e felici, ascoltando una canzone. L’ultimo delirio. / L’ultima coscienza della felicità,  prima del salto nel buio» (Da lì in avanti cominciò ad avere paura).

È per questa «coscienza estremamente profonda e vasta» di sé che Lamartora incarna  la figura dell’«uomo moderno» inteso come colui che vive rendendosi pienamente conto della sua esistenza d’essere umano e scontando «necessariamente»  da «solitario» «questo grado di coscienza» raggiunto: « […] l’uomo che noi chiamiamo moderno – afferma Jung -, che vive dunque nel presente immediato, si trova su un’altura o ai confini del mondo, ha sopra di sé il cielo, e sotto di sé l’intera umanità, la cui storia si perde nella nebbia dei primordi; davanti a lui si apre l’abisso sconfinato del futuro. […] Egli si può considerare veramente moderno solo quando, raggiunto il margine della vita, ha dietro di sé tutto quanto è caduto e superato, ed avanti a sé il nulla, da cui tutto può sorgere» (C. G. Jung,  Il problema psichico dell’uomo moderno, in Id., Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Prefazione di Giovanni Jervis, Traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea, seconda ristampa, 1969, pp. 266-267). Avendo preso atto della «dimensione di una perdita totale», poiché «gli uomini, in masse, hanno lasciato i villaggi» e «sono andati altrove, per costruire una Babele / e finirla con la follia», il poeta, «per non avere rimpianti», si prodiga per «completare l’opera, affinché non rimangano tracce» persino del proprio vissuto (E. Lamartora, Ho incontrato un uomo per strada).

La rassegna – che si  potrebbe fare ricavandola dai componimenti di Lamartora – di lemmi e sintagmi riconducibili ad altri poeti stranieri del passato come Robert Burns (ispiratore, a sua volta, con il poema To a mouse, del titolo del romanzo celeberrimo Of Mice and Men di John Steinbeck) e ad altri poeti italiani (da Pascoli a Ungaretti a Quasimodo a Fortini), rientra in un processo automatico di rimemorazione che provoca al già detto e già scritto una totale perdita di senso originario. Eppure, nonostante tutto, l’«esperienza del tragico» (cfr. Quando Alessandro varcò le montagne) che Lamartora fa, riesce ad inglobare, a ben vedere, suggestioni e spunti attinti al «grande codice», ovvero alla Bibbia, con particolare riferimento al Libro di Qoèlet. L’autore di questo scritto sapienziale, secondo le felici intuizioni di Northrop Frye, «è un “disilluso” solo in quanto ha capito come illudersi significhi rinchiudersi in una prigione costruita con le proprie mani. Non è un pessimista stanco della vita: è piuttosto un vigoroso realista determinato a percorrere sino in fondo la propria strada superando qualsiasi tipo di inibizione intellettuale. Il fatto di sentirsi stanco della vita è infatti l’unica remora mentale per la quale egli non ha rimedi da suggerire. Come gli altri saggi, è un raccoglitore di proverbi, ma ad essi applica la sua pietra di paragone, quella parola chiave che la AV traduce con “vanità”. Il nucleo metaforico di questo termine (hebel) richiama l’immagine di nebbia, bruma o vapore, secondo una metafora che ritorna nel Nuovo Testamento (Giacomo 4.14). Con ciò esso acquista il significato derivato di “vuotezza” che sta alla radice della parola vanitas usato nella Vulgata. Il paradosso che esprime la centrale intuizione di Qoelet è dunque: tutte le cose sono piene di vuotezza. Non dobbiamo inserire questa parola in un contesto prefabbricato di condanna moralistica, né tanto meno avvicinarle il concetto di superbia. Essa esprime piuttosto una concezione affine al Shunyata o “vuoto” del pensiero buddista: il mondo come il tutto contenuto nel nulla. […] Qoelet passa per un primo stadio in cui vede la saggezza “migliore” della follia, per un secondo in cui si avvede come non vi sia alcuna reale differenza tra le due, in quanto entrambe minacciate dalla morte, e giunge infine a convincersi della pari “vanità” delle due concezioni. […] Se è vero che i movimenti del sole e quelli delle acque, le stagioni e la stessa vita umana si svolgono in cicli, se ne può dedurre che “vi è un tempo per tutte le cose”, qualcosa di diverso da fare in ogni fase del ciclo. La frase “Non c’è nulla di nuovo sotto il sole” interessa la saggezza ma non l’esperienza, la teoria ma non la pratica. Solo quando capiamo che non c’è nulla di nuovo possiamo vivere con quella intensità che rende nuova ogni cosa. […]» (N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, traduzione di Giovanni Rizzoni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 167-168).
E nel Libro di Qoèlet – tenuto presente, per giunta, da due degli autori italiani più rappresentativi cui Lamartora indirettamente si richiama, ovvero da Leopardi e Michelstaedter – si legge: «Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della morte» (Qoèlet, 8,8). Per Lamartora, dunque, ora che «tutto è disperso» e «perduto», «raccontare le cose dal versante del niente» non ha senso: « E poi, a quale scopo, che cosa cambierebbe»? (Raccontare quello che succede quando perdi la vita). Il suo «disincanto» è radicale perché incapace di «illudersi», alla stregua, del resto, della donna amata cui si rivolge e da cui si accomiata con rassegnata e struggente chiaroveggenza nel componimento che chiude la raccolta: «[…] La coerenza, per noi, sta tutta nella coscienza / della fine raggiunta, senza altro traccheggiare inutilmente. / Se la luce del sole s’è già spenta, conviene chiudere le tende / e provare a dirsi addio» (Caro amore).

Questi versi sembrano formare un magnifico epitaffio e ci piace l’idea di poterli considerare una chiosa lirica pregnante apposta in margine ai seguenti versetti del Libro di Qoèlet, capaci, a loro volta, di illuminare, come una sorta di controcanto sublime, sensi riposti o significati profondi dell’intera raccolta di Lamartora: «È meglio visitare una casa dove c’è lutto / che visitare una casa dove si banchetta, / perché quella è la fine d’ogni uomo / e chi vive ci deve riflettere. /  È preferibile la mestizia al riso, / perché con un volto triste il cuore diventa migliore. / Il cuore dei saggi è in una casa in lutto / e il cuore degli stolti in una casa in festa. / Meglio ascoltare il rimprovero di un saggio / che ascoltare la lode degli stolti: / […] / Meglio la fine di una cosa che il suo principio; […]» (Qoèlet, 7, 2-5 e 7,8).

Dal libro sapienziale di Qoèlet, privato di ogni interpretazione o sogno metafisico ed escatologico, alla poesia del (e sul) dolore universale contemplato a ciglio asciutto, ovvero con fermezza e stoica rassegnazione, il passaggio non è per nulla agevole. Lamartora, perfettamente consapevole di ciò, sottopone i suoi testi poetici a un continuo, rigoroso e tormentato esercizio di stile ricavandone il massimo di espressività possibile dopo essersi seduto, in assorto silenzio, sull’orlo dell’abisso.

E a noi, a lettura ultimata, per associazione d’idee, viene in mente, a mo’ di commento consono alla sua visione del mondo e dell’arte, il seguente pensiero, datato «4 Ottobre 1820», tratto dallo Zibaldone leopardiano: «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come per esempio nella lirica, che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva. Tant’è, siccome l’autore che descriveva e sentiva così fortemente il vano delle illusioni, pur conservava un gran fondo d’illusione, e ne dava una gran prova, col descrivere così studiosamente la loro vanità, nello stesso modo il lettore quantunque disingannato e per se stesso e per la lettura, pur è tratto dall’autore, in quello stesso inganno e illusione nascosta ne’ più intimi recessi dell’animo, ch’egli provava. E lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima, quando questa conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo della nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione. (Gran cosa, e certa madre di piacere e di entusiasmo, e magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti maggior concetto di sé, e delle sue disgrazie, e del suo stesso abbattimento e annichilamento di spirito). Oltracciò il sentimento del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento è vivo, come nel caso ch’io dico, la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria. Giacché non è piccolo effetto della cognizione del gran nulla, né poco penoso, l’indifferenza e insensibilità che inspira ordinarissimamente e deve naturalmente ispirare, sopra lo stesso nulla. Questa indifferenza e insensibilità è rimossa dalla detta lettura o contemplazione di una tal opera di genio: ella ci rende sensibili alla nullità delle cose, e questa è la principal cagione del fenomeno che ho detto».

Il che spiega, d’altronde, come Francesco De Sanctis, per altre vie, giungerà autonomamente, con la sua elevata sensibilità critica, a concepire – nel dialogo Schopenhauer e Leopardi, apparso, nel 1858, nella «Rivista contemporanea» – le memorabili considerazioni sulla poetica e l’arte del grande recanatese, così argomentando: « […] Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; […] . È scettico, e ti fa credente; […] . Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita. […] e mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande. […]» (cfr. F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A e D, in Id., Saggi critici, a cura di Luigi Russo, vol. II, Bari, Laterza [«UL»], 1965, pp. 184-185.

Rocco Mario Morano (University of Toronto Mississauga)